La Corte di Giustizia delimita le competenze degli Stati membri.
Anno: 2015 | Autore: RUGGERO TUMBIOLO
ORGANISMI GENETICAMENTE MODIFICATI
La Corte di Giustizia delimita le competenze degli Stati membri
RUGGERO TUMBIOLO*
La Corte di Giustizia, chiamata ad esprimersi sulla domanda di pronuncia pregiudiziale sottopostale dal Consiglio di Stato e vertente sull’interpretazione dell’articolo 26 bis della direttiva n. 2001/18 in materia di organismi geneticamente modificati, si è così espressa:
«La messa in coltura di organismi geneticamente modificati quali le varietà del mais MON 810 non può essere assoggettata a una procedura nazionale di autorizzazione quando l’impiego e la commercializzazione di tali varietà sono autorizzati ai sensi dell’articolo 20 del regolamento (CE) n. 1829/2003 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativo agli alimenti e ai mangimi geneticamente modificati, e le medesime varietà sono state iscritte nel catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole previsto dalla direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, emendata con il regolamento n. 1829/2003.
L’articolo 26 bis della direttiva 2001/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 marzo 2001, sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati e che abroga la direttiva 90/220/CEE del Consiglio, come modificata dalla direttiva 2008/27/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 marzo 2008, non consente a uno Stato membro di opporsi in via generale alla messa in coltura sul suo territorio di tali organismi geneticamente modificati nelle more dell’adozione di misure di coesistenza dirette a evitare la presenza accidentale di organismi geneticamente modificati in altre colture» (sentenza della Quarta Sezione del 6 settembre 2012, causa C-36/11, in www.ambientediritto.it).
La questione sottoposta dal Consiglio di Stato era la seguente:
«Se, qualora lo Stato membro abbia ritenuto di subordinare il rilascio dell’autorizzazione alle coltivazioni di OGM, ancorché iscritti nel Catalogo comune europeo, a misure di carattere generale idonee a garantire la coesistenza con colture convenzionali o biologiche, l’art. 26 bis della direttiva 2001/18/CE, letto alla luce della Raccomandazione 2003/556/CE e della sopravvenuta Raccomandazione 2010/200/1, debba essere interpretato nel senso che, nel periodo antecedente l’adozione delle misure generali: a) l’autorizzazione debba essere rilasciata, avendo ad oggetto OGM iscritti nel Catalogo comune europeo; b) ovvero, l’esame dell’istanza di autorizzazione debba essere sospeso in attesa dell’adozione delle misure di carattere generale; c) ovvero, l’autorizzazione debba essere rilasciata, con le prescrizioni idonee ad evitare nel caso concreto il contatto, anche involontario, delle colture transgeniche autorizzate con le colture convenzionali o biologiche circostanti».
La Corte di Giustizia osserva che, allo stato attuale del diritto dell’Unione, uno Stato membro non è libero di subordinare a un’autorizzazione nazionale, fondata su considerazioni di tutela della salute o dell’ambiente, la coltivazione di OGM autorizzati in virtù del regolamento n. 1829/2003 ed iscritti nel catalogo comune in applicazione della direttiva n. 2002/53.
Al contrario, un divieto o una limitazione della coltivazione di tali prodotti possono essere decisi da uno Stato membro nei casi espressamente previsti dal diritto dell’Unione.
Tra tali casi figurano oltre le misure adottate in applicazione dell’articolo 34 del regolamento n. 1829/2003 e quelle disposte ai sensi degli articoli 16, paragrafo 2, o 18 della direttiva n. 2002/53, anche le misure di coesistenza prese a titolo dell’articolo 26 bis della direttiva n. 2001/18.
Quest’ultima disposizione stabilisce che :
«Gli Stati membri possono adottare tutte le misure opportune per evitare la presenza involontaria di OGM in altri prodotti.
La Commissione raccoglie e coordina le informazioni basate su studi condotti a livello comunitario e nazionale, osserva gli sviluppi quanto alla coesistenza negli Stati membri e, sulla base delle informazioni e delle osservazioni, sviluppa orientamenti sulla coesistenza di colture geneticamente modificate, convenzionali e organiche».
La Corte osserva che il cit. articolo 26 bis prevede solo una facoltà per gli Stati membri di introdurre misure di coesistenza. Pertanto, nell’ipotesi in cui uno Stato membro si astenesse da qualsivoglia intervento nel settore, un divieto di coltivazione di OGM potrebbe protrarsi per un periodo di tempo illimitato e costituire un mezzo per aggirare le procedure previste agli articoli 34 del regolamento n. 1829/2003 nonché 16, paragrafo 2, e 18 della direttiva n. 2002/53.
Un’interpretazione dell’articolo 26 bis della direttiva n. 2001/18 che consenta agli Stati membri di emanare un tale divieto sarebbe dunque contraria al sistema istituito dal regolamento n. 1829/2003 e dalla direttiva n. 2002/53; sistema che consiste nel garantire la libera e immediata circolazione dei prodotti autorizzati a livello comunitario e iscritti nel catalogo comune, una volta che le necessità di tutela della salute e dell’ambiente siano state prese in considerazione nel corso delle procedure di autorizzazione e di iscrizione.
L’articolo 26 bis della direttiva n. 2001/18 può dar luogo a restrizioni, e perfino a divieti geograficamente delimitati, solo per effetto delle misure di coesistenza realmente adottate in osservanza delle loro finalità; siffatta disposizione non consente, viceversa, agli Stati membri di vietare in via generale, nelle more dell’adozione di misure di coesistenza, la coltivazione di OGM autorizzati ai sensi della normativa dell’Unione e iscritti nel catalogo comune.
In definitiva, conclude la Corte di Giustizia:
– la messa in coltura di OGM non può essere assoggettata a una procedura nazionale di autorizzazione quando l’impiego e la commercializzazione di tali varietà sono autorizzati ai sensi dell’articolo 20 del regolamento n. 1829/2003 e le medesime varietà sono state iscritte nel catalogo comune previsto dalla direttiva n. 2002/53;
– l’articolo 26 bis della direttiva n. 2001/18 non consente a uno Stato membro di opporsi in via generale alla messa in coltura sul suo territorio di tali OGM nelle more dell’adozione di misure di coesistenza dirette a evitare la presenza accidentale di OGM in altre colture.
Il fatto che l’impiego di OGM autorizzati in agricoltura sia garantito dalla normativa comunitaria aveva già trovato conferma nella decisione n. 2003/653/CE della Commissione europea del 2 settembre 2003, relativa alle disposizioni nazionali austriache sul divieto di impiego di organismi geneticamente modificati.
In tale decisione, ai sensi del paragrafo 5 dell’art. 95 del Trattato CE, era stato esaminato un progetto di legge del 2002 del Land Oberösterreich (Austria Superiore) sul divieto di utilizzo delle tecniche di ingegneria genetica; progetto che vietava in tale Land l’impiego di organismi geneticamente modificati, in deroga alle disposizioni della direttiva n. 2001/18/CE, al fine di salvaguardare l’agricoltura biologica e convenzionale e tutelare dalla "contaminazione" da OGM sia la biodiversità naturale, soprattutto nelle zone ecologicamente sensibili, sia le risorse genetiche.
La Commissione europea ha, al riguardo, osservato che, a norma del paragrafo 5 dell’articolo 95 del Trattato CE, l’introduzione da parte di uno Stato membro di disposizioni nazionali in deroga a misure comunitarie di armonizzazione è subordinata a tre condizioni: le disposizioni devono essere fondate su nuove prove scientifiche inerenti alla protezione dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro, deve esistere un problema specifico per lo Stato membro che chiede la deroga e tale problema deve essere insorto dopo l’adozione della misura di armonizzazione.
Nel caso specifico la Commissione ha ritenuto che l’Austria non avesse fornito nuove prove scientifiche inerenti alla protezione dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro e non avesse dimostrato l’esistenza nel proprio territorio di un problema specifico insorto dopo l’adozione della direttiva n. 2001/18/CE, tale da rendere necessaria l’introduzione delle disposizioni nazionali notificate.
Di conseguenza, la richiesta delle autorità austriache di introdurre disposizioni nazionali destinate a vietare l’impiego di OGM nell’Austria Superiore non soddisfaceva le condizioni previste al paragrafo 5 dell’articolo 95 del Trattato CE e, per effetto, è stata respinta dalla Commissione europea.
Per completare il quadro comunitario in argomento, si può richiamare anche la sentenza della Corte di Giustizia, Seconda Sezione, n. 165 del 16 luglio 2009, che ha esaminato la legge della Repubblica di Polonia sulle sementi del 26 giugno 2003, come modificata dalla legge del 27 aprile 2006, nella parte in cui vietava l’iscrizione nel catalogo nazionale e l’immissione in commercio delle varietà geneticamente modificate.
La Corte, nella decisione da ultimo richiamata, ha statuito che la Repubblica di Polonia, avendo vietato in via generale la libera circolazione di sementi di varietà geneticamente modificate nonché l’iscrizione di dette varietà nel catalogo nazionale, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza degli artt. 22 e 23 della direttiva n. 2001/18/CE e degli artt. 4, n. 4, e 16 della direttiva n. 2002/53/CE.
Interessante notare che nel giudizio avanti alla Corte di Giustizia la Repubblica di Polonia aveva concentrato la propria difesa sui motivi di ordine etico o religioso posti, a suo dire, a fondamento delle disposizioni nazionali controverse.
Secondo la Repubblica polacca, le suddette disposizioni nazionali, poiché perseguivano finalità etiche estranee agli obiettivi della tutela dell’ambiente e della salute pubblica nonché della libera circolazione che caratterizzano le suddette direttive, erano da ritenersi estranee all’ambito di applicazione di queste ultime.
A tale proposito la Corte ha ritenuto tuttavia che «… per risolvere la presente controversia non è necessario pronunciarsi sulla questione se, in quale misura ed a quali condizioni, eventualmente, gli Stati membri conservino una facoltà d’invocare motivi etici o religiosi per giustificare l’adozione di misure interne in deroga alle disposizioni delle direttive 2001/18 e 2002/53, come le disposizioni nazionali controverse … Nel caso di specie, infatti, è sufficiente constatare che la Repubblica di Polonia, alla quale spetterebbe, in tale ipotesi, l’onere della prova, non ha comunque dimostrato che le disposizioni nazionali controverse perseguivano effettivamente le finalità religiose ed etiche invocate, finalità la cui effettività è, peraltro, posta in dubbio dalla Commissione».
* Avvocato in Como