La Corte di Cassazione offre uno spunto di riflessione per fare chiarezza sul concetto di tipica fauna stanziale alpina.
DAVIDE BRUMANA* e LUCA PELLICIOLI**
Configura il reato di cui all’art. 30, comma 1, lett. g), della L. n. 157 del 1992, l’abbattimento di un capriolo effettuato senza rispettare i criteri e le modalità del prelievo venatorio di selezione, dovuti in quanto si tratta di specie appartenente alla tipica fauna stanziale alpina.
In queste poche righe può essere efficacemente sintetizzata la sentenza della Corte di Cassazione Penale, sez. III, 4.11.2011, n. 2380.
Nonostante ciò, la pronuncia in esame offre una serie di spunti di riflessione rispetto al regime di protezione accordata dalla legge quadro sulla caccia (L. n. 157/1992) alle specie di fauna selvatica “tipica e stanziale” della Zona faunistica delle Alpi.
Già nel Testo Unico del 1939 – prima disciplina dell’attività venatoria di portata nazionale (R.D. 5.06.1939, n. 1016) – il legislatore, cosciente della specifica biodiversità degli areali alpini, contemplò il concetto di “Zona faunistica delle Alpi” e, per connessione, di “tipica fauna stanziale alpina”.
Ma procediamo con ordine.
Ancora oggi, la definizione di Zona faunistica delle Alpi, contenuta nell’art. 11, comma 1, della L. n. 157/1992, non diverge da quella originaria del 1939: infatti, la novella legislativa stabilisce che il territorio delle Alpi, caratterizzato dalla consistente presenza della tipica flora e fauna alpina, è considerato zona faunistica a sé stante.
Al riguardo va però osservato, anche a fronte dello stato di conservazione in cui versa la fauna e la flora delle Alpi, che la portata della norma appare senz’altro riduttiva, sopratutto in termini di definizione degli areali classificabili come Zona faunistica Alpi, quando viene applicata nelle singole pianificazioni faunistico venatorie sia regionali, che provinciali.
In questo senso, con l’obiettivo di tutelare i territori sui quali è, o era presente, la flora e la fauna alpina, al fine di rafforzarne la consistenza, è condivisibile quella corrente di pensiero in materia faunistico venatoria, secondo la quale possono venire inclusi nella Zona faunistica delle Alpi quegli areali che, nonostante siano interessati da una limitata presenza delle specie animali e vegetali alpine, presentino delle caratteristiche favorevoli al potenziale insediamento delle stesse.
Nonostante siano trascorsi oltre 70 anni dall’introduzione nell’ordinamento giuridico del concetto di “tipica fauna stanziale alpina”, quest’ultimo manca però tuttora di qualsiasi definizione o criterio di individuazione, che non si rinviene nè nelle precedenti normative sull’attività venatoria (R.D. n. 1016/1939, L. n. 968/1977), sia, tuttora, nella vigenza della L. n. 157/1992; il concetto non si rinviene neppure nelle pronunce giurisprudenziali intervenute sul tema.
Un riferimento per l’individuazione delle specie appartenenti alla tipica fauna stanziale alpina, sebbene parziale perché riferita esclusivamente alle specie oggetto di prelievo venatorio, potrebbe rinvenirsi nel comma 1, lett. c), dell’art. 18 della medesima L. 157/1992, ove vengono elencate le specie cacciabili dal 1° ottobre al 30 novembre, tra le quali: pernice bianca (Lagopus mutus), fagiano di monte (Tetrao tetrix), coturnice (Alectoris graeca), camoscio alpino (Rupicapra rupicapra), capriolo (Capreolus capreolus), cervo (Cervus elaphus), lepre bianca (Lepus timidus), ed ove invece vengono esclusi edaino (Dama dama) e muflone (Ovis musimon), giacché specie non originarie della catena alpina.
La circoscrizione della nozione di fauna tipica stanziale alpina assume una maggior rilevanza nell’ambito del precetto penale di cui all’art. 30, comma 1, lett. g), della L. 157/1992, che sanziona con l’ammenda fino ad euro 3.098,74 chiunque abbatta, catturi o detenga esemplari appartenenti alla tipica fauna stanziale alpina, non contemplati nella lettera b) (specie particolarmente protette, con sanzione penale maggiormente grave), della quale sia vietato l’abbattimento.
Si comprende allora come la definizione di “tipica fauna stanziale alpina”, contenuta nel dispositivo sanzionatorio così come formulato, si riferisce estensivamente alle diverse specie che vi appartengono, siano esse protette o cacciabili ai sensi della disciplina sull’attività venatoria.
Allo stato dell’arte, la lettura del concetto in analisi deve allora essere necessariamente interpretata in chiave giusambientale.
Da un punto di vista faunistico è possibile proporre come definizione generale di “tipica fauna stanziale alpina” le specie che, nella storia moderna, sono presenti nell’ambiente alpino, all’interno del quale hanno trovato tutte le condizioni e risorse biotiche ed abiotiche sufficienti per manifestare liberamente le proprie caratteristiche biologiche ed etologiche.
Va peraltro considerato che all’interno del contesto alpino, negli ultimi decenni, si è assistito ad una profonda modificazione degli habitat che, quanto alle popolazioni a vita libera, ne ha favorito il notevole incremento demografico: ciò vale soprattutto per le popolazioni di ungulati selvatici, al punto che se ne è registrata l’espansione in nuovi areali.
L’evoluzione dell’espansione degli areali di presenza degli ungulati selvatici presenti sulle Alpi fa sì che il concetto di tipica fauna stanziale alpina debba ora perciò incardinarsi sulla sussistenza del connubio tra considerazioni di carattere sia ambientale che biologico. Il fattore ambientale coincide con la presenza di un areale alpino (dove per Alpi intendiamo la catena montuosa che per convenzione inizia a ovest del Colle di Cadibona e termina a ovest della città di Vienna), mentre il fattore biologico consiste nell’autoctonia della specie nel territorio delle Alpi.
La particolare tutela che il legislatore statale ha accordato a queste specie, per evidenti intenti conservazionistici, emerge chiaramente nell’architettura normativa utilizzata nella richiamata disposizione penale (art. 30, c. 1, lett. g), L. 157/1992), volta a reprimere la fattispecie dell’abbattimento, cattura o detenzione di esemplari appartenenti alla tipica fauna stanziale alpina (ad eccezione delle specie particolarmente protette) di cui sia vietato l’abbattimento.
Ci si trova dinanzi ad una cosiddetta norma penale “in bianco”.
In tal senso, il divieto di abbattimento delle specie in parola, oltre ad essere vietato dalla normativa statale sulla caccia, può derivare anche dalla presenza di discipline sia regionali, che provinciali, che regolamentino in tal senso l’attività venatoria.
Da ciò può discendere la sussistenza in capo al trasgressore di una responsabilità penale non tassativamente prevista dalla legge statale.
In conclusione, come rilevato dal Collegio giudicante nella pronuncia in commento, esistono peculiari ragioni che inducono all’introduzione di specifiche limitazioni dell’attività venatoria e del suo esercizio in relazione ad alcuni taxa della fauna alpina che rendono comprensibile la scelta del legislatore di sanzionare comunque penalmente la violazione delle disposizioni a loro tutela.
* Master diritto dell’ambiente
** Medico veterinario, Ph.D