Sez. Lavoro
La giusta causa di licenziamento è nozione legale e il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo. Ne deriva che il giudice può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede dì legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, per altro verso, il giudice può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (Cass. sez. lav. n. 4060 del 18/2/2011). Fattispecie: licenziamento che riguarda le contestate ipotesi dell’abbandono per un’ora e mezzo del posto di lavoro, l’uscita dal lavoro in anticipo e l’uscita a fine turno senza provvedere alla chiusura della porta della cucina.
In tema di licenziamento per giusta causa, quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, pur dovendosi escludere che il giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la necessaria considerazione della loro concatenazione ai finì della valutazione della gravità dei fatti, non occorre che l’esistenza della “causa” idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice – nell’ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di lavoro – individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità richiesto dall’art. 2119 cod. civ..(Cass. Sez. Lav. n. 2579 del 2/2/2009).
Nei casi in cui, il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al cd. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non è necessario provvedere all’affissione del codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta (Cass sez. lav. n. 1926 del 27/1/2011). Tanto vale, per le sanzioni disciplinari conservative e le sanzioni espulsive.
Non è necessario per poter considerare la motivazione adottata dal giudice dì merito adeguata e sufficiente, che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass. sez. lav. n. 2272 del 2/2/2007).
CORTE DI CASSAZIONE Sez. Lavoro, 30.03.2012, Sentenza n. 5115
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Omissis
SVOLGIMENTO PROCESSO
Con sentenza dell’1/3 – 2/4/07 la Corte d’appello di Milano – sezione lavoro ha rigettato l’impugnazione proposta da C.V. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Milano che le aveva respinto la domanda diretta alla dichiarazione di illegittimità delle sanzioni disciplinari conservative irrogatele dalla datrice di lavoro “Residenze A. s.p.a.” tra il 1998 ed il 2004, oltre che del licenziamento del 6/7/04. La ricorrente aveva, altresì, richiesto la restituzione, ad eccezione della prima ipotesi sanzionatoria, delle somme trattenute dalla datrice di lavoro per effetto della irrogazione delle sanzioni conservative, mentre in relazione alla sanzione espulsiva aveva chiesto la reintegra nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno.
Nel pervenire a tale decisione la Corte milanese ha spiegato quanto segue: -La questione inerente la prima sanzione era stata considerata superata dal primo giudice per effetto del riconoscimento della sua inefficacia da parte della datrice di lavoro: l’irrogazione delle successive sanzioni conservative era risultata giustificata dal verificarsi di diversi episodi di insubordinazione di volta in volta posti in essere dalla lavoratrice, oltre che di mancata osservanza delle disposizioni datoriali e delle prerogative gerarchiche, nonché dalla violazione di norme sanitarie igieniche e da forme di inadempienza contrattuale della prestazione lavorativa, ammessa anche dalla dipendente, seppur in relazione ad uno solo dei predetti eventi. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la V. la quale affida l’impugnazione a quattro articolati motivi di censura. Resiste con controricorso l’intimata società. La ricorrente deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISONE
1. Col primo motivo del ricorso, avente ad oggetto l’impugnato licenziamento, la V. denunzia le seguenti violazioni:
– Art. 360, n. 5 c.p.c. per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa i fatti invocati per legittimare il licenziamento.
Fatti che si deducono come controversi e decisivi per il giudizio.
– Art. 360, n. 3 c.p.c.per violazione e falsa applicazione dell’art. 7 Legge n. 300/1970 in relazione agli artt. 26 e 28 del ccnl per il personale dipendente dalle realtà del settore socio sanitario assistenziale educativo, parte e), licenziamento, dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 3 legge 604/66.
La ricorrente, dopo aver riportato il contenuto delle contestazioni disciplinari poste a base dell’impugnato licenziamento e delle giustificazioni a suo tempo rese, lamenta che la Corte d’appello si era limitata ad una succinta, quanto illogica ed immotivata, adesione alle deduzioni della parte datoriale, incorrendo, in tal modo, nelle denunziate violazioni di cui in premessa.
A conclusione delle doglianze, che investono la valutazione del materiale probatorio operata dalla Corte territoriale e l’applicabilità, nella fattispecie, delle norme collettive poste a base del licenziamento, la difesa della lavoratrice formula i seguenti quesiti di diritto:
A) “Qualora il contratto collettivo preveda una specifica casistica di comportamenti che determinano il licenziamento ed altresì una casistica di comportamenti che determinano, invece, le sanzioni conservative e qualora anche il contratto collettivo preveda altresì in modo esplicito che il personale dipendente debba conoscere infrazioni e relative sanzioni, al datore dì lavoro, anche in applicazione dell’onere di pubblicità previsto dall’art. 7 della legge 30/5/1970 n. 300, è inibita l’irrogazione disciplinare del licenziamento in tutti i casi nei quali la casistica collettiva applicabile preveda esplicitamente la sanzione conservativa?” Ci vuol sostenere, in pratica, che anche se la recidiva nella sospensione può condurre al licenziamento è, altresì, vero che alla ricorrente la recidiva non fu mai contestata e che nessuno dei cinque addebiti che le erano stati mossi rientrava singolarmente tra le ipotesi sanzionate col licenziamento.
B) “Essendo il licenziamento disciplinare un atto unilaterale del datore di lavoro qualificato dal motivo, qualora detto motivo si articoli in più capi che congiuntamente avevano determinato il provvedimento, il giudizio di proporzionalità e di legittimità dell’irrogato licenziamento deve considerare il venir meno di alcuni capi del complessivo addebito, riesaminando la situazione venutasi a determinare con riferimento alla sola parte residua, valutando se e come detti capi residui siano sufficienti a mantenere valida la sanzione?” Ci si duole, al riguardo, del fatto che la Corte d’appello non ha adeguatamente valutato che una parte degli addebiti originariamente contestati era venuta meno, così finendo per violare il principio di proporzionalità della sanzione inflitta in ragione degli addebiti ritenuti ancora validi.
Osserva la Corte che il motivo presenta profili di inammissibilità e di infondatezza. E’ infatti, inammissibile nella parte in cui si tenta una rivisitazione del merito delle risultanze istruttorie, congruamente valutate dal giudice d’appello, che non è consentita nella presente sede di legittimità.
Invero, “il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360. comma primo, n. 5), cod. proc. civ., è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poiché, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.
In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice dì merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse”. (Cass. sez. lav. n. 2272 del 2/2/2007).
Orbene, nella fattispecie in esame può tranquillamente affermarsi che, nel loro complesso, le valutazioni del materiale probatorio operate dal giudice d’appello, con specifico riferimento ai vari episodi contestati di insubordinazione che condussero nel loro insieme al licenziamento, appaiono sorrette da argomentazioni logiche e perfettamente coerenti tra di loro, oltre che aderenti ai risultati fatti registrare dall’esito delle prove orali su punti qualificanti della controversia, per cui le stesse non meritano affatto le censure di omessa, insufficiente e contraddittoria disamina mosse col presente motivo di doglianza. Inoltre, la valutazione della gravità degli addebiti ai fini del licenziamento è stata eseguita dal giudice d’appello nel suo complesso, dopo che si è dato rilievo al fatto che il potere sanzionatorio era stato esercitato gradualmente nella prospettiva, poi rivelatasi infondata alla luce dei successivi episodi del 25 e del 27 giugno del 2004, di ristabilire un corretto rapporto lavorativo, per cui a nulla rileva che non fosse stata contestata la recidiva o il fatto che per i vari episodi, singolarmente considerati, fossero previste sanzioni conservative.
In definitiva, nel corretto giudizio svolto dalla Corte di merito, i diversi episodi di insubordinazione sanzionati il 28/5/03, il 13/8/03, il 16/9/03, il 5/5/04, inizialmente fatti oggetto di misure di tipo conservativo, finirono alla distanza per denotare un comportamento reiteratamente inadempiente posto in essere dalla lavoratrice, che rivestiva anche il ruolo di rappresentante sindacale aziendale, alla luce delle ultime infrazioni del 25 e del 27 giugno 2004 che condussero al licenziamento e che riguardarono le contestate ipotesi dell’abbandono per un’ora e mezzo del posto di lavoro, l’uscita dal lavoro in anticipo e l’uscita a fine turno senza provvedere alla chiusura della porta della cucina. Tali comportamenti sono stati ritenuti dal giudice d’appello come contraddistinti da un costante e generale atteggiamento di sfida e di disprezzo nei confronti dei vari superiori gerarchici e della disciplina aziendale, così come emerso anche dalla lettura delle stesse giustificazioni rese dalla ricorrente, tale da far venir meno il permanere dell’indispensabile elemento fiduciario.
D’altronde, si è già precisato (Cass. sez. lav. n. 4060 del 18/2/2011) che “la giusta causa di licenziamento è nozione legale e il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo; ne deriva che il giudice può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede dì legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, per altro verso, il giudice può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato.”
Quanto alla lamentata violazione del principio della proporzionalità, occorre rilevare l’infondatezza della relativa prospettazione, atteso che tale principio va considerato con riferimento al rapporto che deve sussistere tra la reale entità delle contestazioni validamente eseguite, valutate nella fattispecie nel loro insieme ai fini della verifica della permanenza del vincolo fiduciario, e la sanzione in concreto inflitta. Ebbene, sul punto la decisione del giudice d’appello risulta adeguatamente motivata laddove quest’ultimo ha tenuto conto dei ripetuti atteggiamenti di sfida e di insubordinazione posti in essere dalla lavoratrice, comportamenti, questi, rispetto ai quali si erano rivelate inadeguate le sanzioni conservative inizialmente adottate dalla datrice di lavoro nella vana speranza di ristabilire il corretto svolgimento del rapporto stesso.
Né va sottaciuto che si è anche avuto modo di affermare (Cass. Sez. Lav. n. 2579 del 2/2/2009) che “in tema di licenziamento per giusta causa, quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, pur dovendosi escludere che il giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la necessaria considerazione della loro concatenazione ai finì della valutazione della gravità dei fatti, non occorre che l’esistenza della “causa” idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice – nell’ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di lavoro – individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità richiesto dall’art. 2119 cod. civ. (Nella specie, relativa a due condotte dì appropriazione indebita, contestate ad un cassiere di banca, e posta in essere mediante doppia contabilizzazione di addebiti sul conto corrente dei clienti, la S.C, nell’affermare il principio di cui alla massima, ha ritenuto la correttezza della decisione della corte territoriale che, pur avendo escluso la riferibilità del primo episodio al lavoratore licenziato, ha valutato il secondo episodio sufficiente a minare definitivamente il vincolo fiduciario nei confronti del dipendente).
2. Col secondo motivo, riferito alla sanzione disciplinare della multa del 26/5/03 relativa alla manifestata intenzione della V.di rifiutare la mansione affidatale di utilizzare il cosiddetto “cicalino”, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione, dell’art. 7 della legge 20/5/70 n. 300 in relazione agli articoli 26 e 28 del contratto collettivo nazionale di lavoro per il personale dipendente dalle realtà del settore socio sanitario assistenziale educativo, parte e) (art. 360, n. 3 c.p.c.) La R. formula al riguardo il seguente quesito: “L’invio di una raccomandata nella quale si contesti la legittimità di un ordine aziendale concernente l’utilizzo indesiderato di strumenti che incidono sulla persona del lavoratore, non seguito da concreto rifiuto di eseguire la prestazione e anzi da adeguamento, mediante desistenza, all’ordine aziendale ribadito a seguito della contestazione, quando tale comportamento non sia previsto dal codice aziendale, dalle teoriche infrazioni di cui all’art. 28 del contratto collettivo in epigrafe o da altre pubbliche comunicazioni aziendali, può egualmente dar luogo all’irrogazione di sanzioni disciplinari?”
Il motivo è infondato.
Invero, correttamente la Corte di merito ha posto in evidenza che l’atto di insubordinazione in questione si concretizzò nel momento in cui la lavoratrice comunicò per iscritto che si sarebbe rifiutata di prendere in consegna il cosiddetto cicalino e che tale insubordinazione era ancora più rilevante in considerazione della posizione di rappresentante sindacale aziendale ricoperta dalla V., il cui comportamento avrebbe potuto essere seguito da altri dipendenti; in maniera altrettanto logica la Corte ha spiegato che la società non poteva prevedere, una volta ricevuta la comunicazione scritta contenente il rifiuto della suddetta prestazione da parte della lavoratrice, che quest’ultima avrebbe desistito dal suo proposito di non adempierla, per cui era da ritenersi ormai consumata l’ipotesi della contestata insubordinazione manifestata attraverso l’invio della predetta comunicazione.
Altrettanto infondato è il richiamo alla norma di cui all’art. 7 della legge n. 300/70 in tema garanzia di pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti, dal momento che tale disposizione non si applica alle situazioni concretizzanti violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, come l’ipotesi in esame della insubordinazione, il cui disvalore non poteva non essere immediatamente percepito dalla lavoratrice la quale, col suo atteggiamento di sfida, manifestato attraverso la comunicazione del suo rifiuto di eseguire una determinata disposizione datoriale, poneva in discussione alla radice il potere gerarchico della datrice di lavoro.
Si è, infatti, già avuto modo di affermare (Cass sez. lav. n. 1926 del 27/1/2011) che “anche relativamente alle sanzioni disciplinari conservative – e non per le sole sanzioni espulsive – deve ritenersi che, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al cd. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta”.
3. Il terzo motivo ha per oggetto la sanzione disciplinare della sospensione del 16/9/03 inerente l’episodio del prelievo non autorizzato di generi alimentari dal frigorifero per la preparazione di alcuni pasti per la ricorrente e per alcune sue colleghe e della connessa circostanza per la quale, una volta che la ricorrente era stata informata dall’aiuto-cuoco che gli ordini del cuoco e del responsabile del magazzino erano di non portare in mensa più dì due o tre scatolette dì tonno per volta, la medesima aveva risposto che se qualcuno avesse avuto qualcosa da dirle avrebbe dovuto rivolgersi a lei perché era stata una sua decisione.
Il vizio denunziato in proposito è quello della violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge 20-5-1970 n. 300 in relazione agli articoli 26 e 28 del contratto collettivo nazionale di lavoro per il personale dipendente dalle realtà del settore socio sanitario assistenziale educativo, parte d),(art. 360, n. 3 c.p.c.).
Il quesito di diritto che la ricorrente pone al riguardo è il seguente. “Qualora le modalità di consumo autorizzato del pasto all’interno dell’azienda non siano previste dal codice aziendale di cui all’art. 26 del contratto collettivo nazionale in epigrafe o da altre pubbliche comunicazioni aziendali, in caso di contestazione che si concretizzi nell’addebito di violazione delle modalità di detto consumo, pur in assenza di pubblicità preventiva di tali modalità quali potenziali infrazioni sanzionabili, il datore di lavoro può ugualmente dar luogo alla irrogazione di sanzioni disciplinari?”.
Il motivo è infondato, atteso che la Corte di merito ha adeguatamente posto in evidenza che dalle deposizioni della direttrice D. e del cuoco M., quest’ultimo responsabile di eventuali ammanchi, era emerso che la lavoratrice non intendeva rispettare i limiti e le regole imposti per il controllo del magazzino, per cui quel che realmente rileva è il preciso atto di insubordinazione manifestato nell’occasione dalla ricorrente, atto per il quale era possibile l’irrogazione della sanzione disciplinare della sospensione, in concreto inflitta, e per il quale non era necessaria la previa pubblicità, trattandosi di ipotesi di violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, come già spiegato in precedenza.
4. Con l’ultimo motivo è denunziato il vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge 20-5-1970 n. 300 in relazione agli articoli 26 e 28 del contratto collettivo nazionale di lavoro per il personale dipendente dalle realtà del settore socio sanitario assistenziale educativo, parte d) (art. 360, n. 3 c.p.c.). Ci si riferisce, in particolare, alla sanzione della sospensione del 5/5/04 inflitta per l’insubordinazione rappresentata dal fatto che la ricorrente si era rivolta direttamente al Direttore Generale, scavalcando in tal modo il Direttore di residenza, il quale l’aveva invitata a presentarsi più tardi, nonostante che dalla stessa Direzione Generale le fosse stato confermato che doveva rivolgersi al suo superiore diretto, competente in materia, e nonostante che l’oggetto del preteso colloquio non rivestisse il carattere dell’urgenza.
Viene, quindi, posto il seguente quesito di diritto: ” Qualora le modalità di richiesta di colloquio coi superiori gerarchici nell’ambito della struttura aziendale non siano previste dal codice aziendale di cui all’art. 26 dei contratto collettivo in epigrafe, dalle teoriche infrazioni di cui all’art. 28 del contratto collettivo in epigrafe o da altre pubbliche comunicazioni aziendali, in caso di contestazione quale addebito, e a prescindere dall’oggetto del colloquio, di modalità ritenute scorrette nella richiesta del colloquio stesso o della convocazione presso le gerarchie superiori, il datore di lavoro può ugualmente dar luogo alla irrogazione di sanzioni disciplinari?”.
Anche quest’ultimo motivo è infondato, atteso che il tipo di infrazione di cui trattasi è stato correttamente inquadrato dal giudice d’appello, che ne ha adeguatamente valutato la consistenza alla luce delle risultanze istruttorie, tra i ripetuti comportamenti ritenuti inadempienti, come tale sufficiente a concretizzare un’ipotesi di insubordinazione sanzionabile e sicuramente contraria al cd. minimo etico, per cui non era necessaria la garanzia della pubblicità tramite l’affissione del codice disciplinare.
In definitiva il ricorso va rigettato.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente alle spese del giudizio nella misura di € 2500,00 per onorario e di € 40,00 per esborsi, oltre spese generali, IVA e CPA ai sensi di legge.
Depositata in Cancelleria il 30.03.2012