Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Diritto urbanistico - edilizia, Pubblica amministrazione Numero: 52053 | Data di udienza: 3 Ottobre 2017

DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Abuso di ufficio – Difetto assoluto di attribuzione e carenza in astratto del potere – Art. 323, cod. pen. – Art. 10, 44, lett. b), d.P.R. n. 380/2001 – Art. 21-septies L. n. 241/1990 – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Reato di abuso d’ufficio – Condotta in violazione delle norme – Competenze e attribuzioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio.


Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 15 Novembre 2017
Numero: 52053
Data di udienza: 3 Ottobre 2017
Presidente: AMOROSO
Estensore: ACETO


Premassima

DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Abuso di ufficio – Difetto assoluto di attribuzione e carenza in astratto del potere – Art. 323, cod. pen. – Art. 10, 44, lett. b), d.P.R. n. 380/2001 – Art. 21-septies L. n. 241/1990 – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Reato di abuso d’ufficio – Condotta in violazione delle norme – Competenze e attribuzioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio.



Massima

 

 

 
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 15/11/2017 (ud. 03/10/2017), Sentenza n.52053



DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Abuso di ufficio – Difetto assoluto di attribuzione e carenza in astratto del potere – Art. 323, cod. pen. – Art. 10, 44, lett. b), d.P.R. n. 380/2001 – Art. 21-septies L. n. 241/1990.
 
Il difetto assoluto di attribuzione, quale causa di nullità del provvedimento amministrativo, comporta la cosiddetta "carenza di potere in astratto", vale a dire l’ipotesi in cui l’Amministrazione assume di esercitare un potere che in realtà nessuna norma le attribuisce. Attraverso l’art. 21-septies della L. n. 241 del 1990 il legislatore, nell’introdurre in via generale la categoria normativa della nullità del provvedimento amministrativo, ha ricondotto a tale radicale patologia il solo difetto assoluto di attribuzione, che evoca la c.d. carenza in astratto del potere, cioè l’assenza in astratto di qualsivoglia norma giuridica attributiva del potere esercitato con il provvedimento amministrativo, con ciò facendo implicitamente rientrare nell’area della annullabilità i casi della c.d. "carenza di potere in concreto", ossia del potere pur astrattamente sussistente esercitato senza i presupposti di legge (Cons. St., Sez. 5, n. 45 del 10/01/2017; nello stesso senso, tra le più recenti, Cons. St., Sez. 4, n. 5228 del 17/11/2015; Cons. St., Sez. 4, n. 5671 del 18/11/2014; Cons. St., Sez. 5, n. 4323 del 30/08/2013).
 
 
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Reato di abuso d’ufficio – Condotta in violazione delle norme – Competenze e attribuzioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio – Art. 323, cod. pen..
 
Ai fini della sussistenza del reato di abuso d’ufficio di cui all’art. 323, cod. pen., la condotta deve essere posta in essere "nello svolgimento delle funzioni o del servizio". Ciò non comporta l’espunzione dalla fattispecie delle condotte poste in essere in violazione delle norme che disciplinano le competenze e le attribuzioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma solo di quelle viziate da difetto assoluto di attribuzione ai sensi dell’art. 21- septies, legge n. 241 del 1990 (che equipara, ai fini della nullità dell’atto, la carenza di potere al provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali). In caso di difetto assoluto di attribuzione, l’ingiusto vantaggio patrimoniale procurato a sé o ad altri o l’ingiusto danno arrecato ad altri, che costituiscono gli eventi alternativi del reato di abuso di ufficio, non sarebbero causalmente riconducibili all’ufficio o al servizio (ancorché patologicamente svolto), ma ad iniziative estemporaneamente poste in essere dall’autore del reato spendendo la sua qualità ed eventualmente rilevanti ai sensi di altre norme.
 

(dichiara inammissibili il ricorso avverso sentenza del 13/12/2016 della CORTE DI APPELLO DI NAPOLI) Pres. AMOROSO, Rel. ACETO, Ric. Marino 
 

Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 15/11/2017 (ud. 03/10/2017), Sentenza n.52053

SENTENZA

 

 
 
 
 
 
 
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 15/11/2017 (ud. 03/10/2017), Sentenza n.52053
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
 
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
 
omissis
 
ha pronunciato la seguente
 
SENTENZA 
 
sul ricorso proposto da:
 
Marino Mario, nato a Cicciano il 22/08/1951,
 
 
avverso la sentenza del 13/12/2016 della Corte di appello di Napoli;
 
 
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
 
udita la relazione svolta dal consigliere Aldo Aceto;
 
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Ciro Angellis, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio;
 
udito il difensore, avv. Walter Mancuso, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTOIN FATTO
 
l. Il sig. Mario Marino ricorre per l’annullamento della sentenza del 13/12/2016 della Corte di appello di Napoli che, in riforma di quella del 22/10/2014 del Tribunale di Nola da lui impugnata, ha dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti per il reato di cui all’art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, perché estinto per prescrizione, e ha rideterminato la pena nella misura di dieci mesi di reclusione per il residuo reato di cui all’art. 323, cod. pen., confermando nel resto la sentenza impugnata.
 
1.1. Con il primo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’inosservanza o l’erronea applicazione della (residua) norma incriminatrice.
 
Sulla premessa che la delega a lui conferita come consigliere comunale non gli attribuiva la competenza all’affidamento dei lavori di costruzione dei loculi cimiteriali richiamati nella rubrica e di esclusiva competenza funzionale dell’assessore o del sindaco, lamenta che le argomentazioni della Corte territoriale sono prive di completezza proprio in ordine alle specifiche e decisive doglianze formulate con l’atto di appello in ordine all’efficacia di detta delega, che non gli attribuiva – come detto – poteri di amministrazione attiva. Non è sufficiente, perciò, la mera arbitrarietà della condotta del pubblico ufficiale che, travalicando le proprie competenze, ponga in essere la condotta incriminata, perché la norma impone che l’abuso sia commesso nello svolgimento delle funzioni o del servizio, essendo esclusa la rilevanza penale dell’abuso della qualità, unica possibile condotta ravvisabile nel caso di specie. In conclusione, la propria azione si caratterizza esclusivamente per il mero sfruttamento della sua posizione all’interno dell’organizzazione amministrativa, senza alcuna rilevanza esterna, come risulta dall’esame dell’intero compendio probatorio, analizzato in modo parziale dalla Corte di appello.
 
1.2. Con il secondo motivo, lamentando il malgoverno delle prove in ordine alla sussistenza del dolo intenzionale, eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, la contraddittorietà e/o la manifesta illogicità della motivazione in relazione all’art. 192, cod. proc. pen..
 
Deduce al riguardo che: a) il proprio obiettivo era quello di soddisfare un interesse pubblico (la realizzazione di loculi cimiteriali), non di perseguire un interesse privato, proprio o altrui; b) egli infatti non ha ricevuto alcun vantaggio patrimoniale dalla propria condotta, essendosi limitato ad affidare i lavori; e) la propria condotta, proprio perché non conforme ai corretti canoni dell’agire lecito della pubblica amministrazione, era inidonea ad attribuire vantaggi patrimoniali mediante la disponibilità di loculi mai conseguita, né perseguita; d) in assenza di una pubblica assegnazione mediante procedura concorsuale, il fatto che su cinque loculi siano state apposte delle lastre di marmo con l’indicazione del nome di alcune famiglie non costituisce accrescimento della situazione giuridica soggettiva di queste ultime, né viola, di conseguenza, la "par condicio clvium"; d) l’ingiustizia del profitto o del danno non è derivata da una violazione di norme giuridiche puntuali (il regolamento comunale che disciplina l’assegnazione di tombe, cappelle di famiglia e loculi), bensì esclusivamente dalla illegittimità della condotta realizzata in violazione delle norme contestate nella rubrica. 
 
CONSIDERATO IN DIRITTO
 
2. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito indicate.
 
3. L’imputato risponde del reato di cui all’art. 323, cod. pen., perché, in qualità di consigliere comunale di Cicciano con delega ai servizi cimiteriali, nello svolgimento delle funzioni, dando incarico a Gisondi Carmine di costruire dieci loculi nel cimitero di Cicciano, si procurava l’ingiusto vantaggio patrimoniale costituito dalla possibilità di avere la disponibilità di tali loculi, cinque dei quali prometteva in vendita per la somma di cinquemila euro, in violazione delle seguenti norme: a) art. 107, d.lgs. n. 267 del 2000 che attribuisce ai dirigenti la competenza per procedure di appalto e la stipula dei contratti; b) quelle previste dalla legge 163 del 2006 e, in particolare, dell’art. 4, che prescrive la forma scritta per la stipula del contratto, l’art. 54 che detta le procedure per la scelta del contraente, non potendo quelli in esame rientrare tra i lavori che potevano essere affidati senza esperimento di gara; c) art. 10, d.P.R. n. 380 del 2001, che subordina l’esecuzione dei lavori di realizzazione di nuove opere al rilascio del permesso di costruire.
 
3.1. Risulta, dalla lettura delle sentenze di primo e secondo grado, che il ricorrente, avvalendosi della delega ai servizi cimiteriali, in assenza e al di fuori di qualsiasi procedura di evidenza pubblica, aveva dato incarico per le vie brevi ad un’impresa edilizia di realizzare dieci loculi cimiteriali, cinque dei quali promessi in vendita a una famiglia del posto (Lauro-Baglivo), lavori eseguiti senza fattura e pagati direttamente dall’imputato per l’importo di 5.000,00 euro corrisposto in due tranche. L’imputato aveva, inoltre, commissionato la realizzazione di dieci lapidi ad un marmista, cinque delle quali destinate ai loculi della famiglia "Lauro-Baglivo".
 
3.2. I fatti non sono contestati dal ricorrente; altri, come s’è visto, sono gli argomenti difensivi.
 
4. L’art. 107, d.lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) attribuisce ai dirigenti degli enti locali la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti nonché tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell’ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale. Ai dirigenti, in particolare, sono attribuiti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi, tra i quali in particolare, secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell’ente, la responsabilità delle procedure d’appalto e di concorso e la stipulazione dei contratti.
 
3.5. Il ricorrente, in quanto consigliere comunale, non era titolare di alcun potere dispositivo, non potendo stipulare contratti e tantomeno affidare a terzi, men che meno in modo diretto, il compito di costruire opere di qualsiasi genere (nel caso di specie loculi cimiteriali). Di ciò è consapevole lo stesso imputato che al riguardo spiega, a sostegno della non riconducibilità della condotta allo svolgimento dell’ufficio o del servizio, che la delega ai servizi cimiteriali gli conferiva solo funzioni di ausilio al sindaco nello studio di materie e problemi specifici, funzioni al più istruttorie, prive di rilevanza esterna.
 
3.6. L’eccezione, sviluppata anche in sede di odierna discussione, è palesemente infondata.
 
3.7. Ai fini della sussistenza del reato di abuso d’ufficio di cui all’art. 323, cod. pen., la condotta deve essere posta in essere "nello svolgimento delle funzioni o del servizio". Ciò non comporta l’espunzione dalla fattispecie delle condotte poste in essere in violazione delle norme che disciplinano le competenze e le attribuzioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio (in questo senso, Sez. 6, n. 7105 del 29/01/2009, Canali, Rv. 242934), ma solo di quelle viziate da difetto assoluto di attribuzione ai sensi dell’art. 21- septies, legge n. 241 del 1990 (che equipara, ai fini della nullità dell’atto, la carenza di potere al provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali).
 
3.8. In caso di difetto assoluto di attribuzione, l’ingiusto vantaggio patrimoniale procurato a sé o ad altri o l’ingiusto danno arrecato ad altri, che costituiscono gli eventi alternativi del reato di abuso di ufficio, non sarebbero causalmente riconducibili all’ufficio o al servizio (ancorché patologicamente svolto), ma ad iniziative estemporaneamente poste in essere dall’autore del reato spendendo la sua qualità ed eventualmente rilevanti ai sensi di altre norme.
 
3.9. La giurisprudenza amministrativa ha spiegato che il difetto assoluto di attribuzione, quale causa di nullità del provvedimento amministrativo, comporta la cosiddetta "carenza di potere in astratto", vale a dire l’ipotesi in cui l’Amministrazione assume di esercitare un potere che in realtà nessuna norma le attribuisce. Attraverso l’art. 21-septies della L. n. 241 del 1990 il legislatore, nell’introdurre in via generale la categoria normativa della nullità del provvedimento amministrativo, ha ricondotto a tale radicale patologia il solo difetto assoluto di attribuzione, che evoca la c.d. carenza in astratto del potere, cioè l’assenza in astratto di qualsivoglia norma giuridica attributiva del potere esercitato con il provvedimento amministrativo, con ciò facendo implicitamente rientrare nell’area della annullabilità i casi della c.d. "carenza di potere in concreto", ossia del potere pur astrattamente sussistente esercitato senza i presupposti di legge (Cons. St., Sez. 5, n. 45 del 10/01/2017; nello stesso senso, tra le più recenti, Cons. St., Sez. 4, n. 5228 del 17/11/2015; Cons. St., Sez. 4, n. 5671 del 18/11/2014; Cons. St., Sez. 5, n. 4323 del 30/08/2013).
 
Tale orientamento interpretativo è stato ripreso e fatto proprio anche dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte (Cass. civ., Sez. U, n. 19682 del 03/10/2016; Cass. civ., Sez. U, n. 15667 del 28/07/2016; Cass. civ., Sez. U, 23 settembre 2014, n. 19974). 
 
3.10. Appare chiaro, alla luce delle considerazioni che precedono, che le funzioni o il servizio, nello svolgimento dei quali può essere consumato il reato di abuso di ufficio, non sono quelli specifici del singolo pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, bensì dell’ufficio di sua appartenenza, e che il ricorrente, da questo punto di vista, pone sullo stesso piano (e confonde) la "carenza di potere in concreto" con la "carenza di potere in assoluto".
 
3.11. Orbene, premesso che l’imputato ha incontestabilmente agito proprio nella veste di consigliere comunale con delega ai servizi cimiteriali e spendendo espressamente tale qualità, immediatamente connessa alla funzione svolta (e che in detta funzione aveva il suo titolo), è evidente che le attribuzioni da lui esercitate appartengono a pieno titolo all’amministrazione di appartenenza e che la violazione delle norme sulla propria competenza (carenza di potere in concreto) si traduce nella violazione di legge che costituisce requisito strutturale della fattispecie incriminatrice.
 
3.12. Ne consegue che il primo motivo di ricorso è infondato.
 
4. E’ manifestamente infondato e proposto al di fuori dei casi consentiti dalla legge il secondo motivo.
 
4.1. Sfrondate dagli inammissibili richiami al contenuto delle prove dichiarative, le deduzioni difensive sono platealmente prive di fondamento.
 
4.2. E’ contraddittorio, innanzitutto, sottolineare che qualunque vantaggio patrimoniale ingiusto attribuito in violazione di norme di legge e/o di regolamento sarebbe soggetto a possibile annullamento. Un tale ragionamento, volto a sostenere l’incertezza e la provvisorietà delle situazioni giuridiche di vantaggio o di svantaggio ingiustamente attribuite e a corroborare la tesi difensiva della mancanza del dolo intenzionale quale proiezione interiore di tale incertezza, porterebbe ad escludere il reato per il sol fatto che il vantaggio o il danno sono conseguenze di condotte poste in essere in violazione di norme di legge o di regolamento.
 
Sostenere pertanto che la condotta posta in essere dall’imputato era inidonea a produrre effetti giuridici stabili e tutelati dall’ordinamento (con conseguente mancata consapevolezza del vantaggio ingiusto) è argomento da respingere senz’altro. Non v’è dubbio che, nel caso di specie, la attribuzione a terzi di loculi appositamente realizzati e assegnati di fatto, in assenza di qualsiasi procedura ad evidenza pubblica, comporta l’attribuzione a questi ultimi di un vantaggio patrimoniale ingiusto, ancorché precario, non rilevando la astratta possibilità dell’eliminazione giuridica di tale vantaggio, poiché quel che conta, ai fini del dolo del reato, è proprio la consapevolezza della precarietà di tale situazione giuridica. Tale argomento, in ultima analisi, si salda con quello della "carenza in concreto" del potere/servizio esercitato dal pubblico ufficiale/incaricato di pubblico servizio che, diversamente dalla "carenza assoluta", genera pur sempre, come visto, situazioni giuridiche annullabili e, perciò, esistenti. Dunque, dedurre dalle circostanze di fatto sopra indicate, pacificamente ammesse e non contestate, la prova dell’elemento intenzionale del reato, oltre ad essere giuridicamente corretto, sottrae la motivazione della sentenza impugnata alle censure che le muove il ricorrente.
 
4.3. L’ulteriore deduzione difensiva che questi perseguisse una finalità pubblica è supportata, come detto, da inammissibili richiami a dati estranei al testo della motivazione della sentenza impugnata e si scontra decisamente con le puntuali osservazioni della Corte di appello secondo cui i fatti così accertati escludevano in radice la possibilità che l’imputato perseguisse, in via anche solo mediata, un qualsiasi interesse pubblico.
 
4.4. Orbene, poiché l’imputato eccepisce il vizio di motivazione, occorre ribadire che: a) tale vizio non può essere utilizzato per spingere l’indagine di legittimità oltre il testo del provvedimento impugnato, nemmeno quando ciò sia strumentale a una diversa ricomposizione del quadro probatorio che, secondo gli auspici del ricorrente, possa condurre il fatto fuori dalla fattispecie incriminatrice applicata; b) l’esame può avere ad oggetto direttamente la prova solo quando se ne denunci il travisamento, purché l’atto processuale che la incorpora sia allegato al ricorso (o ne sia integralmente trascritto il contenuto) e possa scardinare la logica del provvedimento creando una insanabile frattura tra il giudizio e le sue basi fattuali; e) la natura manifesta della illogicità della motivazione del provvedimento impugnato costituisce un limite al sindacato di legittimità che impedisce alla Corte di cassazione di sostituire la propria logica a quella del giudice di merito e di avallare, dunque, ricostruzioni alternative del medesimo fatto, ancorché altrettanto ragionevoli.
 
4.5. Esclusi il travisamento delle prove (profilo del vizio di motivazione non eccepito), la mancanza (profilo non sviluppato) e la contraddittorietà intrinseca della motivazione, residua il vizio di illogicità che per poter viziare il provvedimento, deve essere manifesta, circostanza, quest’ultima, che alla luce delle considerazioni che precedono, deve essere radicalmente esclusa.
 
4.6. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di € 2.000,00.
 
P.Q.M.
 
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
 
Così deciso in Roma, il 03/10/2017.
 

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