Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Beni culturali ed ambientali, Diritto demaniale, Diritto processuale penale, Diritto urbanistico - edilizia Numero: 26208 | Data di udienza: 5 Aprile 2019

* BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Reati urbanistici/paesaggistici – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Estinzione del reato per intervenuta autorizzazione – Limiti – DIRITTO DEMANIALE – Occupazione arbitraria dello spazio demaniale – Art. 44, D.P.R. n. 380/2001 – Art. 181, D.Lgs. n. 42/2004 – Revisione del processo – Sentenza passata in giudicato – Nozione di "prove nuove" – Requisito della novità – Prova dichiarativa – Presupposti e limiti – Revisione della sentenza di condanna – Principio di intangibilità del giudicato e ricorso all’istanza di revisione – Principio devolutivo – Principio di garanzia in dubio pro reo – Declaratoria di inammissibilità della richiesta – Artt. 606, 630 e 631 c.p.p. – Giurisprudenza.


Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 13 Giugno 2019
Numero: 26208
Data di udienza: 5 Aprile 2019
Presidente: IZZO
Estensore: SCARCELLA


Premassima

* BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Reati urbanistici/paesaggistici – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Estinzione del reato per intervenuta autorizzazione – Limiti – DIRITTO DEMANIALE – Occupazione arbitraria dello spazio demaniale – Art. 44, D.P.R. n. 380/2001 – Art. 181, D.Lgs. n. 42/2004 – Revisione del processo – Sentenza passata in giudicato – Nozione di "prove nuove" – Requisito della novità – Prova dichiarativa – Presupposti e limiti – Revisione della sentenza di condanna – Principio di intangibilità del giudicato e ricorso all’istanza di revisione – Principio devolutivo – Principio di garanzia in dubio pro reo – Declaratoria di inammissibilità della richiesta – Artt. 606, 630 e 631 c.p.p. – Giurisprudenza.



Massima

 

 

 
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 3^ 13/06/2019 (Ud. 05/04/2019), Sentenza n.26208


BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Reati urbanistici/paesaggistici – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Estinzione del reato per intervenuta autorizzazione – Limiti – DIRITTO DEMANIALE – Occupazione arbitraria dello spazio demaniale – Art. 44, D.P.R. n. 380/2001 – Art. 181, D.Lgs. n. 42/2004.
 
In materia di reati urbanistici/paesaggistici, l’estinzione del reato per intervenuta autorizzazione può attenere esclusivamente al reato di cui all’art. 44, D.P.R. n. 380/2001, mentre nessun effetto estintivo si può ritenere realizzato in relazione alle contravvenzioni di cui agli artt. 1161 cod. nav. (atteso, in specie, che la concessione demaniale, rilasciata successivamente, non determinava il venire meno dell’illiceità della condotta alla stessa precedente, essendo l’occupazione dello spazio demaniale arbitraria quando non sia legittimata da un titolo concessorio valido ed efficace rilasciato in precedenza al soggetto) e all’art. 181 D.Lgs. n. 42/2004 (Tra le tante: Sez. 7, n. 11254 del 20/10/2017 – dep. 13/03/2018, Franchino e altri).
 
 
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Revisione del processo – Sentenza passata in giudicato – Nozione di "prove nuove" – Requisito della novità – Prova dichiarativa – Presupposti e limiti.
 
Ai fini della revisione, debbono intendersi per "prove nuove" non soltanto quelle sopravvenute o scoperte in seguito alla sentenza irrevocabile di condanna, ma anche quelle che non siano stato acquisite in precedenza, pur preesistendo, ovvero che, anche se acquisite, non erano state valutate neanche implicitamente, fatto salvo il caso di prove dichiarate inammissibili ovvero ritenute superflue dal giudice (Cass., SS.UU., 26/09/2001, Pisano). Sicché, si pone in relazione il requisito della novità non con il momento dell’acquisizione ma con quello della valutazione (conformi ex plurimis: Cass., Sez. IV, 31/01/2017, n. 17170; Cass., Sez. V, 4/05/2015, n. 26478). Limitatamente alla prova dichiarativa, anche l’individuazione di un diverso responsabile del delitto, per il quale un altro soggetto sia stato definitivamente condannato, in seguito a dichiarazione liberatoria del primo, assurge a "prova nuova", idonea a legittimare il ricorso alla revisione del processo, laddove sia avvenuta mediante sentenza passata in giudicato (Cass, Sez. I, 30.6.2004, n. 36147).
 
 
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Revisione della sentenza di condanna – Principio di intangibilità del giudicato e ricorso all’istanza di revisione – Principio devolutivo – Principio di garanzia in dubio pro reo – Declaratoria di inammissibilità della richiesta – Artt. 606, 630 e 631 c.p.p..
 
L’istituto della revisione ha carattere eccezionale, espressamente indicando il legislatore le specifiche ipotesi in cui è possibile incrinare il principio di intangibilità del giudicato. Tra queste è inclusa quella di un contrasto tra sentenze irrevocabili ma costituenti decisione finale di distinti procedimenti penali. Non riconducibile all’art. 630 c.p.p. è quindi l’ipotesi in cui il giudice di secondo grado si sia pronunciato su punti non inclusi nelle censure dell’appellante, così violando il principio devolutivo. Tale vizio della decisione potrà essere fatto rilevare esclusivamente mediante lo strumento "ordinario" del ricorso innanzi la Corte di Cassazione, ex art. 606 c.p.p.. La revisione della sentenza di condanna, quindi, è ammessa anche se l’esito del giudizio possa condurre al ragionevole dubbio circa la colpevolezza dell’imputato a causa dell’insufficienza, dell’incertezza o della contraddittorietà delle prove d’accusa, in quanto l’art. 631 c.p.p. esplicitamente richiama tutte le formule assolutorie, comprese quelle ispirate al canone di garanzia in dubio pro reo (Cass., Sez. V, 22/01/2013, n.14255). Ciò rende evidente l’intento del legislatore di perimetrare la operatività dell’istituto alle sole ipotesi in cui la verità processuale precedentemente raggiunta risulti, sulla base dei nuovi elementi dedotti, sostanzialmente ingiusta, con necessità di porvi rimedio mediante la risoluzione del giudicato. Presentata l’istanza di revisione, ai fini del giudizio sull’ammissibilità, il giudice non potrà limitarsi a rilevare la novità della prova, essendo tenuto a procedere ad una valutazione preliminare che deve avere ad oggetto, oltre che l’affidabilità di quest’ultima, anche la sua persuasività e congruenza nel contesto probatorio già acquisito, in sede di cognizione, nel processo concluso, saggiandone quindi l’idoneità a porre in crisi il quadro istruttorio precedente (Cass., Sez. II, 13/03/2018, n. 18765; Cass., Sez. V, 27/04/2016, n. 24070). Inoltre, la declaratoria di inammissibilità della richiesta per essere le "nuove prove" palesemente inidonee ad inficiare l’accertamento dei fatti posti alla base della sentenza di condanna, si sottrae a censure in sede di legittimità allorché sia fondata su una motivazione adeguata ed immune da vizi logici (Cass., Sez. III, 27/06/2017, n. 39516).
 
(conferma ordinanza del 16/10/2018 – CORTE APPELLO di POTENZA) Pres. IZZO, Rel. SCARCELLA, Ric. Santamaria 

Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 3^ 13/06/2019 (Ud. 05/04/2019), Sentenza n.26208

SENTENZA

 

 

 
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 3^ 13/06/2019 (Ud. 05/04/2019), Sentenza n.26208

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
 
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
 
omissis 
  
ha pronunciato la seguente
 
SENTENZA
 
sul ricorso proposto da SANTAMARIA FRANCESCO;
 
avverso l’ordinanza del 16/10/2018 della CORTE APPELLO di POTENZA;
 
udita la relazione svolta dal Consigliere ALESSIO SCARCELLA;
 
sentite le conclusioni del PG, ROBERTA MARIA BARBERINI, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
 
RITENUTO IN FATTO
 
1. Con ordinanza 16.10.2018, la Corte di Appello di Potenza dichiarava manifestamente infondata l’istanza di revisione della sentenza della Corte di Appello di Lecce, divenuta irrevocabile il 4.11.2016, diretta ad ottenere l’assoluzione in ordine al solo reato di cui all’art. 181, D.Lgs. n. 42/2004.
 
2. Contro la ordinanza ha proposto ricorso per cassazione l’istante, a mezzo del difensore di fiducia, iscritto all’Albo speciale previsto dall’art. 613, cod. proc. pen., articolando due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 
 
2.1. Deduce, con il primo motivo, violazione di legge in riferimento all’art. 127 c.p.p.
 
In sintesi, si sostiene che l’ordinanza sarebbe affetta da nullità in quanto emessa in violazione dell’art. 127 c.p.p., disposizione prevista in generale per i procedimenti in camera di consiglio, con pregiudizio del diritto di difesa. Nonostante l’art.634 c.p.p. non vi faccia espresso riferimento, non vi sarebbe ragione di derogarvi anche alla luce di una interpretazione convenzionalmente orientata. Difatti l’art. 6, par. 1, Cedu stabilisce che ogni persona ha diritto che la sua causa venga esaminata in udienza pubblica.
 
2.2. Deduce, con il secondo motivo, violazione di legge e correlato vizio di manifesta illogicità e difetto della motivazione.
 
In sintesi, ad avviso del ricorrente, la motivazione della decisione relativamente al primo motivo dell’istanza di revisione sarebbe del tutto illogica. Di difficile comprensione sarebbe il sillogismo effettuato dalla Corte secondo la quale, non essendo stata impugnata la parte della sentenza di primo grado relativa alla riferibilità delle opere al Santamaria, ne conseguirebbe che la deposizione del Pannunzio non potrebbe considerarsi una "nuova prova". La Corte, da un lato, confonderebbe la disponibilità dell’intero stabilimento in costruzione con la realizzazione di un massetto di appena 36 mq, dall’altro dimenticherebbe che, oggetto dell’istanza di revisione, non era la disponibilità dell’immobile ma la dimostrazione che il massetto fosse stato realizzato da terzi, senza il consenso del Santamaria che, una volta scoperto, si era attivato per la rimozione. Tuttavia nessuno dei responsabili era stato disposto ad ammettere la commissione del reato e, stante il quadro probatorio di primo grado, non sarebbe né corretto né logico parlare di "acquiescenza" dell’imputato sul punto essendovi impossibilità di dimostrare la verità degli accadimenti. Altrettanto illogica viene poi ritenuta la valutazione della prova operata sulla base del mero verbale riassuntivo delle investigazioni difensive depositate insieme all’istanza di revisione, non costituendo esso la prova ma semplicemente un elemento di prova finalizzato ad agevolare la Corte nella valutazione di ammissibilità della nuova prova richiesta. Il ricorrente segnala, inoltre, il grave errore ricostruttivo in cui sarebbe incorsa la Corte allorquando ha ritenuto che il Pannunzio fosse alle dipendenze del Santamaria, confondendo la ditta "Mareimpianti s.r.l." che si stava occupando di una parte dei lavori, con la ditta "Acquacoltura Ionica s.r.l." della quale era legale rappresentante il Santamaria.
 
Relativamente all’inammissibilità dell’istanza di revisione in riferimento all’autorizzazione paesaggistica per la realizzazione del pozzo artesiano, la Corte avrebbe errato nell’esaminare singolarmente tale elemento di prova, in contrasto con quanto disposto dall’art. 630 c.p.p. Ci si chiede inoltre come possa affermarsi che la prova in questione debba considerarsi già valutata se la stessa non era presente nel fascicolo processuale. A ciò si aggiunge che, per ottenere il proscioglimento ex art. 631 c.p.p., si dovrebbe obbligatoriamente transitare per la valutazione dell’autorizzazione paesaggistica la quale, pur non essendo una "prova sopravvenuta", andrebbe comunque considerata come "nuova prova", non avendo mai fatto parte del compendio probatorio valutato nel processo.
 
In subordine si eccepisce l’incostituzionalità dell’art. 630 c.p.p. per violazione degli artt. 3, 13, 24, 27, comma terzo, 111 Cost., artt. 5, 7 Cedu e art. 4.2. prot. 7 Cedu, nella parte in cui non prevede che la revisione possa essere richiesta in forza di un atto pubblico attestante che il fatto oggetto di condanna al momento della sentenza non fosse previsto dalla legge come reato. Sarebbe infatti incostituzionale che le leggi di uno Stato non consentano di domandare la revisione della sentenza di condanna a pena detentiva basata sulla presunta assenza di un atto pubblico (qui l’autorizzazione paesaggistica) in verità già rilasciato ab origine dallo stesso Stato.
 
Infine, in merito al terzo punto dell’istanza di revisione la motivazione della decisione sarebbe viziata in quanto l’irrevocabilità ex art. 648 c.p.p. si perfeziona di diritto allorquando nessuna delle parti processuali propone impugnazione rispetto al fatto-reato oggetto della sentenza. Nel caso di specie, non vi era stata alcuna impugnazione contro le statuizioni di primo grado concernenti il massetto in conglomerato cementizio, talché tale fatto-reato avrebbe dovuto considerarsi passato in giudicato con la sentenza di primo grado. Ha dunque errato la Corte di Appello di Potenza nel ritenere che la sentenza del giudice di secondo grado di Taranto avrebbe travolto la decisione di prime cure. Pericolosa sembrerebbe la tesi secondo la quale il giudice dell’impugnazione possa arrogarsi il diritto di decidere nuovamente su di un singolo specifico fatto-reato non oggetto di appello. 
 
3. Con requisitoria scritta depositata in data 13.03.2019, il Procuratore Generale presso questa Corte, dott. S. Tocci, ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
 
Quanto alla censura relativa all’art. 127, cod. proc. pen., ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte che, con riferimento all’inammissibilità della istanza di revisione, non prevede il contraddittorio partecipato né quello non partecipato, potendo le valutazioni essere compiute anche "de plano". Quanto al merito della decisione, richiamati i principi in materia di revisione, ha evidenziato che il provvedimento si appalesa logicamente motivato sulla non decisività delle dichiarazioni postume, comunicate dalla difesa, rese da un asserito autore materiale della condotta incriminata, e comunque non risultando impugnata in sede di appello la pronuncia in merito alla responsabilità dell’imputato espressamente valutata dal primo giudice. Quanto all’autorizzazione paesaggistica rileva che si tratta di tema su cui la Corte d’appello ha interloquito, richiamando giurisprudenza di questa Corte (rv. 269826) circa la qualità di prova nuova, peraltro aggiungendo che dall’autorizzazione prodotta non emerge non chiarezza ictu oculi che il pozzo artesiano per cui è condanna rientri tra le opere autorizzate. Infine, quanto al denunciato contrasto tra le sentenze di primo e secondo grado, rileva che non si tratta di questione rientrante nei casi di revisione, presupponendo un contrasto tra due decisioni rese in procedimenti diversi e non nello stesso procedimento, atteso che la sentenza d’appello, che riformi quella di primo grado, la sostituisce e l’eventuale reformatio in peius illegittimamente effettuata può essere rilevata con ricorso per cassazione.
 
CONSIDERATO IN DIRITTO
 
4. Il ricorso è complessivamente infondato.
 
5. Al fine di meglio chiarire le ragioni per le quali questo Collegio è pervenuto a tale soluzione, appare utile in sintesi richiamare il contenuto del provvedimento impugnato.
 
Ed invero l’istanza di revisione del giudicato è stata dichiarata inammissibile ex art. 634 c.p.p. in base alle seguenti considerazioni: a) relativamente al primo mo- tivo, fondato sulle dichiarazioni rese da Pannunzio Pasquale, individuato come uno dei responsabili della realizzazione del massetto in conglomerato cementizio, si è evidenziato come non possa costituire "nuova prova" un elemento già esistente negli atti processuali, ancorché non conosciuto o valutato dal giudice per mancata deduzione o mancato uso dei poteri di ufficio; nel caso di specie la riferibilità al Santamaria delle opere è stata una questione valutata dal giudice di primo grado e la relativa statuizione non è stata oggetto di doglianza in appello, sicché l’acquiescenza in merito esclude gli estremi della nuova prova; b) circa il secondo motivo inserito nell’istanza, la dedotta dimenticanza da parte del precedente difensore di produrre in giudizio l’autorizzazione paesaggistica relativa al pozzo artesiano, non potrebbe essere sanata con il procedimento di revisione; peraltro essa è stata espressamente valutata dalla Corte di Appello di Taranto che, a fronte di una specifica doglianza dell’appellante che aveva affermato l’avvenuta produzione dell’autorizzazione, ha escluso che il documento fosse agli atti; c) infine, è esclusa l’esistenza di un contrasto tra le sentenze del giudice di primo e secondo grado (per l’avere quest’ultimo inteso la sanatoria come causa di estinzione della sola contravvenzione edilizia), in quanto la statuizione successiva all’impugnazione avrebbe dovuto essere oggetto di ricorso in Cassazione, ma non essendo ciò avvenuto, essa diveniva irrevocabile, travolgendo quella di prime cure.
 
6. Tanto premesso può quindi procedersi nell’esame delle singole doglianze.
 
7. Quanto al primo motivo, che involge il tema dei rapporti tra procedimento di revisione e applicazione dell’art. 127 c.p.p., il Collegio ne ravvisa la manifesta infondatezza.
 
Innegabile è infatti l’assenza nel dato testuale dell’art. 634 c.p.p. di qualsiasi riferimento alle forme previste dall’art. 127 c.p.p. il che induce a ritenere che la preliminare delibazione di ammissibilità possa svolgersi anche de plano. Sulla questione la giurisprudenza di questa Corte è ferma nel sostenere tale orientamento, rimettendo alla discrezionalità della Corte d’appello, nei casi in cui l’inammissibilità dell’istanza non sia di evidente ed immediato accertamento, l’adozione o meno del rito camerale di cui all’art. 127 c.p.p., con garanzia del contraddittorio (Cass. Sez. III, 9 luglio 2015, n. 34945; Cass., Sez. V, 4 maggio 2015, n.26480; Cass., Sez. III, 7 maggio 2014, n. 37474).
 
Quanto al presunto contrasto con la normativa convenzionale, deve poi rilevarsi che, non prevedendo espressamente l’art. 634 cod. proc. pen., la fissazione di un’udienza camerale nel caso in cui la Corte d’appello ritenga di dover dichiarare "de plano" l’inammissibilità dell’istanza, la questione di costituzionalità dedotta è manifestamente infondata in difetto di allegazione al ricorso della proposizione da parte del ricorrente di istanza di fissazione di pubblica udienza e/o di partecipazione personale del ricorrente medesimo all’udienza. L’evocato profilo di nullità del procedimento seguito per asserito contrasto con il principio dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU non può essere preso in considerazione per difetto di interesse del ricorrente a dedurlo, richiamandosi a tal fine le statuizioni di irrilevanza adottate dalla Corte Costituzionale nelle sentenze n. 80 del 2011 e 214 del 2013 sulle questioni sollevate in tema di contrasto tra gli artt. 315 e 646 cod. proc. pen. e gli artt. 111 e 117 Cost.
 
8. Quanto al secondo motivo, lo stesso appare inammissibile alla luce del ristretto ambito applicativo del processo di revisione del giudicato, per come oggetto dell’interpretazione di questa Corte.
 
Ciò impone un puntuale approfondimento di due questioni, anzitutto quella relativa al concetto di "nuova prova" e, in secondo luogo, quella relativa ai limiti della revisione del giudicato.
 
Quanto alla "novità" della prova, ricorda il Collegio come uno dei casi nei quali l’istanza di revisione può essere presentata è quello in cui, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, siano sopravvenute nuove prove che, da sole o unitamente a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell’art. 631 c.p.p. Circa l’estensione del confine concettuale di "prova nuova" ci si è chiesti se debbano farsi rientrare solo quelle noviter repertae, ossia scoperte in seguito alla formazione del giudicato sulla decisione della quale è chiesta la revisione, ovvero anche quelle noviter productae, quindi preesistenti ma non prodotte e sottoposte all’attenzione dell’organo giudicante. Relativamente a queste ultime, ulteriore questione affrontata è stata quella se fosse possibile ricomprendervi solo le prove mai acquisite prima o anche quelle che, sebbene acquisite, non siano mai state valutate dal giudice. Un atteggiamento meno lineare è stato assunto relativamente alla possibilità di includere in tale categoria quella semplicemente non valutata dall’organo giudicante. Secondo un primo orientamento, infatti, la domanda doveva ottenere risposta positiva, facendovi dunque rientrare anche le prove acquisite ma non esaminate. Tuttavia sul punto vi è stato un primo intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che avevano invece escluso la possibilità di ricorrere allo strumento della revisione nei casi in cui l’istanza si fosse fondata su tale "genere" di prove (Cass., SS.UU., 11 maggio 1993, n. 6019).
 
Ad onta del contrario giudizio del Supremo Consesso, si era continuato a registrare in seno alla giurisprudenza di legittimità un contrasto tra decisioni, in quanto alcune, non aderendo al principio di diritto affermato nella suddetta sentenza, continuavano ad optare per una chiave di lettura maggiormente estensiva del concetto di "prova nuova". Tale situazione ha condotto alla necessità di un nuovo intervento delle Sezioni Unite le quali però hanno abbandonato la posizione assunta precedentemente ed affermato il principio in base al quale, ai fini della revisione, debbono intendersi per "prove nuove" non soltanto quelle sopravvenute o scoperte in seguito alla sentenza irrevocabile di condanna, ma anche quelle che non siano stato acquisite in precedenza, pur preesistendo, ovvero che, anche se acquisite, non erano state valutate neanche implicitamente, fatto salvo il caso di prove dichiarate inammissibili ovvero ritenute superflue dal giudice (Cass., SS.UU., 26 settembre 2001, Pisano). La Suprema Corte dunque ha finito per porre in relazione il requisito della novità non con il momento dell’acquisizione ma con quello della valutazione (conformi ex plurimis: Cass., Sez. IV, 31 gennaio, 2017, n. 17170; Cass., Sez. V, 4 maggio 2015, n. 26478). Limitatamente alla prova dichiarativa, anche l’individuazione di un diverso responsabile del delitto, per il quale un altro soggetto sia stato definitivamente condannato, in seguito a dichiarazione liberatoria del primo, assurge a "prova nuova", idonea a legittimare il ricorso alla revisione del processo, laddove sia avvenuta mediante sentenza passata in giudicato (Cass, Sez. I, 30.6.2004, n. 36147).
 
9. Quanto, poi, al secondo profilo, attinente ai limiti della revisione del giudicato, si ricorda che l’art. 631 c.p.p. pone dei limiti all’ammissibilità della domanda di revisione consistenti nella idoneità degli elementi posti a base della stessa a dimostrare, se accertati, che il condannato deve essere prosciolto a norma degli artt. 529, 530 o 531 c.p.p.
 
La revisione della sentenza di condanna, quindi, è ammessa anche se l’esito del giudizio possa condurre al ragionevole dubbio circa la colpevolezza dell’imputato a causa dell’insufficienza, dell’incertezza o della contraddittorietà delle prove d’accusa, in quanto l’art. 631 c.p.p. esplicitamente richiama tutte le formule assolutorie, comprese quelle ispirate al canone di garanzia in dubio pro reo (Cass., Sez. V, 22 gennaio 2013, n. 14255). Ciò rende evidente l’intento del legislatore di perimetrare la operatività dell’istituto alle sole ipotesi in cui la verità processuale precedentemente raggiunta risulti, sulla base dei nuovi elementi dedotti, sostanzialmente ingiusta, con necessità di porvi rimedio mediante la risoluzione del giudicato. Presentata l’istanza di revisione, ai fini del giudizio sull’ammissibilità, il giudice non potrà limitarsi a rilevare la novità della prova, essendo tenuto a procedere ad una valutazione preliminare che deve avere ad oggetto, oltre che l’affidabilità di quest’ultima, anche la sua persuasività e congruenza nel contesto probatorio già acquisito, in sede di cognizione, nel processo concluso, saggiandone quindi l’idoneità a porre in crisi il quadro istruttorio precedente (Cass., Sez. II, 13 marzo 2018, n. 18765; Cass., Sez. V, 27 aprile 2016, n. 24070). Si evidenzia inoltre che la declaratoria di inammissibilità della richiesta per essere le "nuove prove" palesemente inidonee ad inficiare l’accertamento dei fatti posti alla base della sentenza di condanna, si sottrae a censure in sede di legittimità allorché sia fondata su una motivazione adeguata ed immune da vizi logici (Cass., Sez. III, 27 giungo 2017, n. 39516).
 
10. Tanto premesso, alla luce delle argomentazioni sviluppate dalla Corte d’appello, i profili di doglianza sviluppati sia in relazione alla natura di "prova nuova" delle dichiarazioni Pannunzio che dell’esistenza dell’autorizzazione paesaggistica al momento del giudizio non hanno pregio.
 
11. Ed invero, relativamente al primo motivo, fondato sulle dichiarazioni rese da Pannunzio Pasquale, individuato come uno dei responsabili della realizzazione del massetto in conglomerato cementizio, correttamente la Corte d’appello ha evidenziato come non possa costituire "nuova prova" un elemento già esistente negli atti processuali, ancorché non conosciuto o valutato dal giudice per mancata deduzione o mancato uso dei poteri di ufficio. Nel caso di specie, la riferibilità al Santamaria delle opere è stata una questione valutata dal giudice di primo grado e la relativa statuizione non è stata oggetto di doglianza in appello, sicché l’acquiescenza in merito esclude gli estremi della "nuova prova".
 
12. Circa il secondo motivo inserito nell’istanza, ossia la dedotta dimenticanza da parte del precedente difensore di produrre in giudizio l’autorizzazione paesaggistica relativa al pozzo artesiano, la Corte d’appello ha osservato come la stessa non avrebbe potuto essere sanata con il procedimento di revisione, e che, in ogni caso, essa era stata espressamente valutata dalla Corte di Appello che, a fronte di una specifica doglianza dell’appellante che aveva affermato l’avvenuta produzione dell’autorizzazione, aveva escluso che il documento fosse agli atti. 
 
In definitiva, ritiene il Collegio che, sotto tali profili, il motivo debba essere dichiarato inammissibile in quanto la dichiarata inammissibilità della domanda di revisione era stata motivata dalla Corte di Appello evidenziando l’inidoneità degli elementi di prova dedotti ai fini di cui all’art. 631 c.p.p., quindi non incidenti sul fondamento probatorio del giudicato. L’imputato, peraltro, risulta avere ammesso, mediante spontanee dichiarazioni, la disponibilità dei manufatti oggetto della condotta criminosa e, nei motivi di appello, il difensore non risulta aver contestato la responsabilità del Santamaria nella concreta realizzazione degli stessi, sostenendo piuttosto il possesso delle autorizzazioni e concessioni richieste. In merito all’autorizzazione regionale relativa al pozzo artesiano (n. 9773 del 6.9.2007), infine, ne era stata constatata la scadenza al momento dell’accertamento, avendo la stessa una efficacia limitata a 18 mesi.
 
13. Quanto, infine, alla paventata esistenza di un contrasto tra le sentenze del giudice di primo e secondo grado (per l’avere quest’ultimo inteso la sanatoria come causa di estinzione della sola contravvenzione edilizia), è sufficiente richiamare quanto argomentato dalla Corte d’appello, che ha affermato come la statuizione successiva all’impugnazione avrebbe dovuto essere oggetto di ricorso di in Cassazione, ma non essendo ciò avvenuto, essa era divenuta irrevocabile, travolgendo quella di prime cure.
 
Sul punto deve invero essere qui ricordato che il contrasto tra giudicati costituisce una ulteriore ipotesi in cui il legislatore consente la proposizione di una istanza di revisione. In linea generale, l’inconciliabilità ricorre quando un identico fatto sia oggetto di due distinte statuizioni afferenti a diversi procedimenti penali, ovvero quanto si tratta di fatti distinti e sia accertata l’assoluta impossibilità per l’istante di aver posto in essere le condotte incriminate nel medesimo lasso di tempo. Tale inconciliabilità non deve essere intesa in termini di contraddittorietà logica tra le valutazioni effettuate dai giudici nelle due decisioni, ma dovrà tradursi in una incompatibilità tra i fatti storici costituenti il fondamento dei provvedimenti giurisdizionali (Cass., Sez. II., 11 marzo 2011, n. 12809). In altri termini, il contrasto di giudicati che legittima la revisione, attiene ai fatti storici presi in considerazione per la ricostruzione del fatto-reato e non alla valutazione dei fatti né all’interpretazione delle norme processuali in relazione all’utilizzabilità di una determinata fonte di prova (Cass., Sez. IV, 15 maggio 2018, n. 43871; Cass, Sez. II, 9 gennaio 2009, n. 25110). L’istituto in esame può operare quindi sull’errore di fatto, non sulla valutazione dello stesso, non risultando quindi ammissibile l’istanza facente perno sulla circostanza che il medesimo quadro probatorio sia stato diversamente utilizzato per assolvere un imputato e condannare un concorrente nello stesso reato in due distinti procedimenti (Cass., Sez. II, 6 maggio 2008, n. 21556). La giurisprudenza di legittimità ha escluso, ad esempio, che la richiesta di revisione possa essere giustificata dalla presunta incompatibilità tra la sentenza di condanna e quella di assoluzione pronunciata, in un separato giudizio, nei confronti dei concorrenti nel medesimo reato contestato all’istante, precisandosi che l’accertamento dell’esistenza di un concorso di persone ex art. 110 c.p. costituisce l’esito di un giudizio valutativo che, come tale, esula dall’ambito di applicazione dell’art. 630 c. 1 lett. a) c.p.p. (Cass., Sez. I, 3 febbraio 2009, n. 6273).
 
14. Tanto premesso, il motivo di ricorso è inammissibile anche su tale punto.
 
L’istituto della revisione, come è noto, ha carattere eccezionale, espressamente indicando il legislatore le specifiche ipotesi in cui è possibile incrinare il principio di intangibilità del giudicato. Tra queste è inclusa quella di un contrasto tra sentenze irrevocabili ma costituenti decisione finale di distinti procedimenti penali. Non riconducibile all’art. 630 c.p.p. è quindi l’ipotesi in cui il giudice di secondo grado si sia pronunciato su punti non inclusi nelle censure dell’appellante, così violando il principio devolutivo. Tale vizio della decisione potrà essere fatto rilevare esclusivamente mediante lo strumento "ordinario" del ricorso innanzi la Corte di Cassazione, ex art. 606 c.p.p..
 
Nessun contrasto è comunque rinvenibile nel caso di specie, essendosi il giudice di secondo grado limitato a precisare che la sentenza di primo grado relativa all’estinzione del reato, per l’intervenuta autorizzazione n. 7106 del 15.1.2014, poteva attenere esclusivamente al reato di cui all’art. 44, D.P.R. n. 380/2001, mentre nessun effetto estintivo poteva ritenersi realizzato in relazione alle contravvenzioni di cui agli artt. 1161 cod. nav. (atteso che la concessione demaniale, rilasciata nell’agosto del 2013, non determinava il venire meno dell’illiceità della condotta alla stessa precedente, essendo l’occupazione dello spazio demaniale arbitraria quando non sia legittimata da un titolo concessorio valido ed efficace rilasciato in precedenza al soggetto) e all’art. 181 D.Lgs. n. 42/2004 (in termini, tra le tante: Sez. 7, n. 11254 del 20/10/2017 – dep. 13/03/2018, Franchino e altri, Rv. 272546).
 
15. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 
P.Q.M.
 
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 5 aprile 2019

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