Detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura e cattività dei richiami vivi per finalità venatorie: verso l’erosione di una deroga?
DAVIDE BRUMANA*
Con la pronuncia del 17 gennaio 2013, n. 2341, la Cassazione penale, sez. III, ha stabilito che il detenere uccelli destinati come richiami vivi in gabbie anguste pieni di escrementi, rilevando peraltro che l’inadeguata dimensione delle gabbie era attestata dal fatto che gli uccelli avevano le ali sanguinanti, avendole certamente sbattute contro la gabbia in vani tentativi di volo; e, alla luce del fatto che nulla più dell’assoluta impossibilità del volo è incompatibile con la natura degli uccelli, tutto ciò integra la violazione di cui all’art. 727, comma 2, Codice penale, ovvero la detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze.
Ma procediamo con ordine. Si deve innanzitutto definire con puntualità la norma che nella fattispecie sopra riportata si considera violata, e precisamente, l’art. 544-ter C.P., che sanziona il “maltrattamento di animali”, oppure il comma 2, dell’art. 727 C.P., per “detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura”? La presente controversia non deve ritenersi meramente dottrinale, poiché sotto il profilo sanzionatorio, l’art. 544-ter C.P. prevede quale sanzione la reclusione da 1 a 3 anni o la multa da 3.000 a 15.000 Euro, mentre l’art. 727 C.P. sanziona il trasgressore con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da 1.000 a 10.000 Euro.
Nelle diverse sentenze che hanno impegnato la Cassazione penale e hanno interessato parte della dottrina, per casi non dissimili da quello in cui si dibatte, si è sempre contestata al trasgressore la violazione dell’art. 727, comma 2, C.P. anche se in termini letterali si è contestualmente parlato della sussistenza del reato di maltrattamento di animali. Tuttavia, è necessario evidenziare come la S.C. ha precisato che nel caso in cui la sofferenza agli uccelli sia provocata dalla dimensione ristretta delle gabbie in cui sono stabulati trova applicazione la contravvenzione di cui all’art. 727 C.P. e non l’art. 544-ter C.P. (Cass. pen. sez. III, n. 6656/2010), optando per la fattispecie contravvenzionale, a discapito di quella delittuosa contemplata dall’art. 544-ter C.P.
Entrando nel vivo della legislazione specifica della questione, si deve osservare che ormai da più di vent’anni, l’art. 5 della Legge quadro sull’attività venatoria (L. n. 157/1992) consente la pratica della caccia (cd. da appostamento) mediante l’utilizzo di richiami vivi detenuti in apposite gabbie. Si deve osservare che nel contempo però, l’eventuale individuazione delle dimensioni delle stesse gabbie è rimandata indirettamente alla potestà normativa delle singole Regioni: di fatto sul territorio nazionale non esiste una misura standardizzata delle gabbie destinate a tale scopo. Infine, l’art. 21 della citata Legge, vieta a chiunque di usare richiami vivi, al di fuori dei casi previsti dall’articolo 5 (lett. p), nonché di usare a fini di richiamo uccelli vivi accecati o mutilati ovvero legati per le ali (lett. r).
In ambito penalistico, con la modifica del menzionato art. 727 C.P., intervenuta con la Legge n. 473 del 1993, il legislatore ha deciso di sanzionare, oltre all’abbandono di animali, la detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura.
Dopo aver delineato il panorama normativo, non si può non rilevare come la Suprema Corte di Cassazione sia intervenuta più volte sui diversi aspetti che caratterizzano questa materia.
In merito alle dimensioni delle gabbie, sempre la Cassazione penale ha precisato che nel caso di uccelli detenuti in gabbie e destinati alla cessione per fini di richiamo, la misura delle gabbie non può ritenersi troppo ristretta, e quindi idonea a di per sé a causare inutili sofferenze agli uccelli e, di conseguenza, ad integrare il reato di maltrattamento di animali, quando le gabbie siano conformi alle misure stabilite dall’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica (INFS, ora ISPRA) (cfr. Cass. pen., sez. III, n. 601/1997 cit.).
In relazione ai rapporti tra la normativa sull’attività venatoria e il reato di maltrattamento di animali, la giurisprudenza della Cassazione ha stabilito che in riferimento a comportamenti ascrivibili alle pratiche venatorie, occorre tener conto, oltre che della norma di cui all’art. 727 C.P. anche delle disposizioni di cui alla L. 157/1992.
E ciò non perché le norme della medesima Legge si pongono in rapporto di specialità con le norme del Codice penale, giacché diversa è la loro oggettività giuridica, ma perché un comportamento venatorio consentito dalla stessa Legge quadro sulla caccia, quindi considerato lecito, non può integrare il reato di maltrattamento degli animali, anche se idoneo a cagionare sofferenze agli stessi (cfr. Cass. pen., sez. III, n. 601/1997).
Tuttavia, la richiamata L. n. 157/1992, sebbene consenta l’uso di richiami vivi, vieta che ad esseri viventi, dotati di sensibilità psico-fisica, siano arrecate ingiustificate sofferenze con offesa al comune sentimento di pietà verso gli animali (cfr. Cass. pen., sez. III, n. 5868/1998).
Sempre sotto questo profilo, nella fattispecie in cui per il solo fatto che nelle gabbie si potesse determinare l’abrasione del piumaggio dei volatili, la S.C. ha sentenziato che lo stato di cattività nel quale vengono tenuti i volatili per l’utilizzazione venatoria non costituisce, per sé solo, un’ipotesi di maltrattamento degli stessi ai sensi dell’art. 727 C.P., infatti, tale contravvenzione è ravvisabile soltanto se la detenzione dei volatili sia connotata da modalità tali da comportare crudeltà, fatica eccessiva, o condizioni che danneggino lo stato di salute dell’animale, compromettendone la possibilità di espletare le funzioni fisiologiche essenziali, con l’eccezione del volo (cfr. Cass. pen., sez. III, n. 3283/1998).
Ma per definire con una certa precisione la sussistenza del reato di maltrattamento di animali o detenzione in condizioni incompatibili con la natura degli stessi, per il caso dei richiami vivi non esiste un parametro riconosciuto, se non in termini generali, ci si rifà al concetto di “benessere animale”. In quest’ottica, si devono registrare, da un punto di vista strettamente zootecnico, i risultati ottenuti sulla base di uno studio, effettuato su dieci esemplari adulti di richiami vivi per ogni specie di avifauna selvatica di cui all’art. 5 della L. 157/1992 (tordo bottaccio, tordo sassello, merlo e cesena), detenuti in gabbi di diverse dimensioni, dopo due mesi di adattamento alla cattività, per un intero anno gli animali sono stati giornalmente seguiti e mensilmente controllati per quanto riguarda l’aspetto morfologico (peso, stato di impiumagione, eventuali lesioni traumatiche, ectoparassiti), le endo-ectoparassitosi (parassiti ematici ed enterici), la mortalità.
Ad ogni controllo mensile è stato effettuato un prelievo ematico a tutti i soggetti per la valutazione degli emiparassiti.
In conclusione, le differenti dimensioni delle gabbie nelle quali sono stati mantenuti i soggetti non sembrano avere influito sui parametri controllati ad anche lo scadente stato di impiumagione, elemento immediatamente percettibile e impressionante, è stato costante nei soggetti. Entrambi i tipi di gabbie di dimensioni differenti saggiate hanno presentato vantaggi ed inconvenienti a seconda delle specie ospitate ed in particolare non sono risultate idonee a salvaguardare l’integrità della livrea, che è l’aspetto di maggiore impatto emotivo relativamente alla questione “benessere”. (cfr. GALLAZZI D., GRILLI G., CONCINA E., RIPEPI P., GRANATA R., VIGORITA V. Valutazione dello stato sanitario di turdidi da richiamo in gabbie di dimensioni tradizionali o maggiori. parte i: aspetti morfologici, parassitologici e mortalità, in J. Mt. Ecol., 7 (Suppl.):2003).
In definitiva, aggirando le questioni scientifiche inerenti al benessere animale, e limitandosi all’interpretazione letterale della norma, l’orientamento giurisprudenziale consolidatosi sul tema può essere così sintetizzato: la detenzione in gabbia di uccelli utilizzati per fini di richiamo in ambito venatorio è una deroga alle contravvenzione di detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura, prevista dall’art. 727 C.P. In tal senso, finora la giurisprudenza si era limitata a condannare i contravventori alle prescrizioni che integrano il reato di detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura, per l’insufficiente dimensione delle gabbie, per la scarsa igiene delle medesime, o per le lesioni presenti sui soggetti detenuti.
Con la pronuncia in commento, nel constatare che: le gabbie erano in condizioni igieniche precarie, anguste, e ciò ha provocato lesioni alle ali dei richiami, la S.C. non solo in questo ha ravvisato la sussistenza della violazione di cui all’art. 727, comma 2, C.P. – e fin qui nulla di nuovo – ma ha altresì esteso la fattispecie contravvenzionale in parola, semplicemente nel rilevare che nulla più dell’assoluta impossibilità del volo è incompatibile con la natura degli uccelli. La potenziale spinta protezionistica, in termini di tutela per specie appartenenti alla fauna selvatica quali i richiami vivi, è indubbia, ma bisogna altresì tenere presente che la sentenza è stata pronunciata in relazione a specie selvatiche cacciabili, ma non ci si sofferma nel chiarire la loro provenienza, se di “cattura” o di allevamento. Infatti, se si affermasse il principio che la negazione del volo alle specie di avifauna fosse sufficiente per integrare il reato di detenzione di animali incompatibili con la loro natura, in termini astratti, la legislazione penale prevaricherebbe tutte le eccezioni consentite da altre disposizioni normative che consentono di detenere esemplari di uccelli in gabbia.
Di conseguenza sarebbe a rischio di legittimità la detenzione di ogni specie di uccello in cattività, in presenza degli elementi che concretano la fattispecie di cui all’art. 727 C.P.
Per concludere: la pronuncia in commento aprirà certamente dei nuovi scenari in relazione alla protezione degli animali ed alle questioni legati al benessere degli stessi, nonché alla loro detenzione in cattività, in particolar modo delle specie ornitiche; attività venatorie e zootecniche che fino ad oggi la normativa consente e la giurisprudenza, se praticate nel rispetto delle specifiche discipline, ha sempre giudicato come legittime.
Stiamo assistendo ai primi passi verso l’erosione di una deroga? Staremo a vedere.
* Master II livello in diritto dell’ambiente.