Breve nota di commento alla sentenza del Consiglio di Stato, sezione V, n. 3486 del 8.6.2018.
Anno: 2018 | Autore: ELENA CONTE
IL DIRITTO DI ACCESSO DEL CONSIGLIERE COMUNALE ALLE CREDENZIALI DI ACCESSO DEL PROGRAMMA DI CONTABILITÀ
Breve nota di commento alla sentenza del Consiglio di Stato, sezione V, n. 3486 del 8.6.2018
di ELENA CONTE
La sentenza in commento affronta in chiave nuova il tema del diritto del consigliere comunale ad ottenere il rilascio delle credenziali di accesso al programma contabile dell’Ente.
Prendendo le mosse dai consolidati approdi giurisprudenziali sul diritto di accesso dei consiglieri comunali, il Supremo consesso di Giustizia amministrativa fornisce una lettura nuova dello strumento giuridico, in chiave “digitale”, argomentando sulla base delle previsioni del codice dell’amministrazione digitale e, in particolare, “della duplice direttiva” emergente dall’art. 2 comma D.Lgs. n. 82/2005 del “doveroso approntamento” e del “costante adeguamento” delle tecnologie disponibili, ai fini di un migliore, efficace e funzionale accesso ai dati.
L’enunciazione delle citate “direttive” costituisce un’importante novità, suscettibile di interessanti sviluppi ed applicazioni future.
Il diritto di accesso del consigliere comunale.
Il diritto di accesso ed il diritto di informazione dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina specifica nell’art. 43 del d.lgs. n. 267/2000, che riconosce ai consiglieri comunali e provinciali il “diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del Comune e della Provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato”.
Dal contenuto della citata norma si evince il riconoscimento in capo al consigliere comunale di un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10, T.U. Enti locali) sia, più in generale, nei confronti della P.A. quale disciplinato dalla legge n. 241/90.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata (a maggior ragione, per ovvie considerazioni, qualora il consigliere comunale appartenga alla minoranza, istituzionalmente deputata allo svolgimento di compiti di controllo e verifica dell’operato della maggioranza).
In tale solco, la giurisprudenza amministrativa ha più volte ribadito che i consiglieri comunali possono accedere a tutti gli atti (pure di tipo contabile) la cui conoscenza si riveli utile (art. 43, d.lgs. n. 267/2000) per un migliore espletamento del loro mandato elettorale[1], per cui, nel loro caso, il titolo all’accesso si configura come corredato da un’ulteriore connotazione rispetto a quello riconosciuto alla generalità dei cittadini, potendo esso legittimamente sostenersi sull’esigenza di assumere anche solo semplici informazioni non contenute in formali documenti o di natura riservata, fermo restando il vincolo del segreto al quale sono tenuti i consiglieri comunali[2].
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali, quindi, si atteggia quale latissimo diritto all’informazione al quale si contrappone l’obbligo degli uffici di fornire ai richiedenti tutte le notizie e informazioni in loro possesso, fermo il divieto di perseguire interessi personali o di tenere condotte emulative.
La fattispecie oggetto di esame.
La vicenda oggetto della sentenza in commento trae origine dall’istanza di una neo consigliera comunale, che, nell’esercizio del proprio mandato, richiedeva il rilascio di una password per l’accesso al programma di contabilità dell’Ente.
La particolarità della questione sta nella circostanza che l’Amministrazione comunale in questione aveva precedentemente adottato una deliberazione della Giunta comunale con cui aveva istituito una postazione all’interno degli uffici, presso la quale, a determinati orari e con modalità prestabilite, i consiglieri avrebbero potuto collegarsi al programma di contabilità dell’Ente.
Tale strumento era stato istituito dalla Giunta comunale in asserita esecuzione di uno specifico parere della commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, che si era pronunciata su una richiesta pregressa di altro consigliere comunale.
Sulla richiesta della password da parte della consigliera comunale, l’amministrazione rimaneva dapprima silente, per poi tardivamente adottare un formale provvedimento di diniego, non notificato alla destinataria. Da qui la proposizione del ricorso ex art. 116 del codice del processo amministrativo, avverso il diniego formatosi per silentium.
L’antefatto si riverberava nel processo ove emergevano le contrapposte tesi delle parti: da un lato, l’Amministrazione comunale, che deduceva l’adozione della delibera di giunta comunale disciplinante le modalità di accesso ai documenti amministrativi ed al sistema informatico di contabilità da parte dei consiglieri comunali, con la quale veniva prevista – al dichiarato fine di massimizzare la facilità dell’accesso secondo modalità tecniche compatibili con le risorse dell’ente – l’istituzione, all’interno della casa comunale, di una postazione telematica certificata per l’accesso ai dati contabili, come tale agevolmente consultabile da tutti i consiglieri.
Dall’altro lato, la consigliera comunale ricorrente, che assumeva l’insufficienza delle ridette modalità organizzative, rivendicando la concessione della facoltà di accesso anche da autonome postazioni remote, mediante rilascio di apposite credenziali (user id e password) e, per tal via, senza la limitazione riconnessa al necessario ricorso alla postazione fisica predisposta nei locali comunali.
In particolare, nel ricorso introduttivo del giudizio veniva valorizzata, a fondamento della pretesa (non concernente l’an, ma esclusivamente il quomodo dell’ostensione), la direttiva emergente dalla complessiva digitalizzazione dei dati amministrativi (ex d. lgs. n. 82/2005) e la correlativa logica della massima semplificazione ed agevolazione delle modalità del relativo accesso, alla luce della miglior tecnologia disponibile.
I giudici di primo grado respingevano il gravame, sul complessivo assunto che l’istituzione di una apposita postazione informatica per la consultazione dei dati contabili dell’Ente non frapponesse significativi ostacoli (non prefigurando, come tale, una preclusione di tipo assoluto) al soddisfacimento delle valorizzate esigenze ostensive.
La sentenza di appello e l’affermazione della duplice direttiva del “doveroso approntamento” e del “costante adeguamento” delle tecnologie disponibili applicata al diritto di accesso agli atti del Consigliere comunale.
Il Consiglio di Stato, dopo aver esattamente ricostruito la fattispecie oggetto di causa e il quadro normativo di riferimento, accoglie il gravame, soffermandosi, in particolare, sull’esegesi dell’art. 2 del d.lgs. n. 82/2005, di cui valorizza le enunciazioni in relazione al caso in esame. Ed in questo è la novità, nella rilettura del tradizionale istituto del diritto di accesso del consigliere comunale alla luce del codice dell’amministrazione digitale.
Ma procediamo con ordine.
Come riferisce il Giudice d’appello, la sentenza di primo grado veniva gravata avuto complessivo riguardo al difettoso apprezzamento degli allegati precedenti giurisprudenziali in subiecta materia, alla erronea acquisizione della nozione di accesso c.d. da remoto, alla direttiva di cui all’art. 82 del d.lgs. 82/2005, in tema di c.d. amministrazione digitale, alla sostanziale irragionevolezza della compressione delle modalità di accesso al sistema telematico, legate alla imposizione della postazione informatica unica.
Preliminarmente, il Collegio giudicante si fa carico di esaminare una eccezione preliminare di inammissibilità sollevata dall’appellato, correlata alla mancata impugnazione della ridetta delibera istitutiva di postazione fissa, con cui era stato disciplinato e regolamentato il diritto di accesso agli atti, rigettandola. Il giudizio in materia di accesso – riferisce – si atteggia come impugnatorio nella fase della proposizione del ricorso, in quanto rivolto contro l’atto di diniego o avverso il silenzio-diniego formatosi sulla relativa istanza ed il ricorso, da esperire nel termine perentorio di trenta giorni, è sostanzialmente rivolto all’accertamento la sussistenza o meno del titolo all’accesso nella specifica situazione alla luce dei parametri normativi, indipendentemente dalla maggiore o minore correttezza delle ragioni addotte dall’amministrazione per giustificarne il diniego (cfr., ex multis, Cons. Stato, V, 7 novembre 2008, n. 5573). Se ne desume che la mancata impugnazione delle disposizioni regolamentari (per giunta, suscettibili, in quanto tali di disapplicazione: cfr. Cons. Stato, IV, 23 febbraio 2009, n. 1074), non costituisce per definizione ragione di inammissibilità del ricorso.
Superata l’eccezione preliminare, il Collegio passa all’esame delle disposizioni legislative di riferimento.
Anzitutto viene riaffermato il diritto contenuto nell’art. 43, comma 2 del d. lgs. n. 267/2000, secondo cui i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato.
Al fine di garantire l’espletamento del diritto di accesso, viene in rilievo l’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 82/2005, secondo cui le amministrazioni “assicurano la disponibilità, la gestione, l’accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell’informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate e nel modo più adeguato al soddisfacimento degli interessi degli utenti le tecnologie dell’informazione e della comunicazione”.
Dalla riportata disposizione, il Giudice d’appello enuncia due importanti “direttive”: a) che la fruibilità dei dati e delle informazioni in modalità digitale debba essere garantita con modalità adeguate (alla precipua finalità informativa) ed appropriate (alla tecnologia disponibile); b) che – secondo un corrispondente e sotteso canone di proporzionalità – grava sull’amministrazione l’approntamento e la valorizzazione di idonee risorse tecnologiche, che – senza gravare eccessivamente sulle risorse pubbliche – appaiano in grado di ottimizzare, in una logica di bilanciamento, le esigenze della trasparenza amministrativa.
Tali premesse conducono i Giudici di Palazzo Spada a discostarsi dalla valutazione sul punto espressa in primo grado, ritenendo che la emergente e duplice direttiva del doveroso approntamento e del costante adeguamento delle tecnologie disponibili, ai fini di un migliore, efficace e funzionale accesso ai dati, militi per il riconoscimento del carattere indebitamente compressivo della limitazione di fatto frapposta alla pretesa ostensiva della ricorrente.
Nella motivazione, quindi, assume un ruolo centrale e determinante la valorizzazione delle previsioni del codice dell’amministrazione digitale, in adesione alla specifica impugnazione sul punto proposta dalla ricorrente.
In tale ottica, le direttive enunciate non sono più, come pure avvenuto in precedenza, mera argomentazione a supporto, ma costituiscono chiave di lettura nuova dell’esercizio del diritto.
In altre parole, l’attuazione del d. lgs. n. 82/2005 non è solo risparmio di carta[3], effetto collaterale, ma è effettiva applicazione del principio del digital first, il che vuol dire trasformare il digitale nello strumento principale di relazione con l’amministrazione.
La sentenza in commento, trovando il proprio fulcro motivazionale nel codice dell’amministrazione digitale, costituisce un importante tassello nella effettiva promozione della cultura digitale, che rivela una delle sue declinazioni nella nuova frontiera dell’accesso agli atti digitale.
Al Comune il ragionevole termine di sessanta giorni per attivarsi ed adeguarsi, rilasciando le credenziali.
[1] cfr. C.d.S., sezione V, sent. n. 5264/2007, sent. n. 5020/2007 e sentenza n. 5058/2011.
[2] Orientamento espresso anche dalla Commissione per l’accesso incardinata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (cfr. pareri 3 febbraio 2009, 16 marzo 2010 e 16 aprile 2015).
[3] Già nei precedenti venivano, “da ultimo”, menzionate, quale argomentazione a supporto del rilascio della password, le previsioni normative contenute nel d.lgs. n. 82/2005, in chiave di digitalizzazione del p.a. In tale quadro veniva ritenuto impensabile non incentivare l’utilizzo degli strumenti telematici, capaci sortire plurimi effetti, tutti positivi: consentono un minor impiego della carta, sollevano gli uffici dagli adempimenti relativi all’evasione delle istanze, alleggeriscono il carico di lavoro gravante sulla struttura, rendono effettivo e di celere realizzazione il diritto di accesso dei consiglieri comunali. Diversamente dal richiamato precedente, nella sentenza in commento la digitalizzazione della p.a. diventa argomentazione centrale, con l’enunciazione della duplice direttiva.
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PUBBLICATO SU AMBIENTEDIRITTO.IT – 5 LUGLIO 2018 – ANNO XVIII
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