Anno: 2015 | Autore: ANTONIO COGLIANDRO

 

 

Il mobbing nella pubblica amministrazione aspetti: sociali, psicologici e giuridici anche alla luce della recente sentenza della Cassazione n. 10037/2015. 

 di Antonio Cogliandro 
 
Definizione
Con il termine mobbing si suole generalmente far riferimento alle diverse forme di violenza psicologica esercitate nei confronti dei lavoratori sui luoghi di lavoro. Deriva dal verbo inglese ”to mob” che significa: accerchiare, circondare, assediare, attaccare, assalire in massa, fare ressa. In ambito lavorativo, la parola mobbing assume il significato di pratica vessatoria, persecutoria o più in generale, di violenza psicologica perpetrata dal datore di lavoro o dai colleghi nei confronti del lavoratore. I motivi della persecuzione possono essere i più svariati: invidia, competizione, paura di essere surclassato, una semplice antipatia nei confronti di un collega o subordinato, carrierismo sfrenato, razzismo, diversità religiosa o culturale rispetto al gruppo prevalente, o semplice gusto nel far del male ad un’altra persona. Spesso è proprio il datore di lavoro ad utilizzare tale metodo nei confronti di lavoratori scomodi. 
 
Gli elementi identificativi del mobbing sono:
– la presenza di almeno due soggetti, il mobber (parte attiva) ed il mobbizzato (parte passiva), che entrano in contrasto tra di loro;
– l’attività vessatoria continua e duratura;
– lo scopo di isolare la vittima sul posto di lavoro e/o di allontanarla definitivamente o comunque di impedirle di esercitare un ruolo attivo sul lavoro. 
 
Si suole generalmente distinguere tra mobbing verticale, nel quale l’attività vessatoria viene posta in essere da parte dello stesso datore di lavoro o da un superiore gerarchico o comunque un soggetto cui il mobbizzato è, nell’organizzazione del lavoro aziendale, subordinato; ed il mobbing orizzontale in cui la violenza psicologica proviene, invece, da parte di colleghi di lavoro o addirittura da soggetti subordinati gerarchicamente alla vittima. In realtà spesso accade che le due tipologie finiscono per intrecciarsi, in una comune strategia persecutoria che vede il datore di lavoro come “ispiratore” ed i colleghi come concreti “esecutori”.
 
Il mobbing, inoltre, si afferma come fenomeno sociale e riguarda i modi e le forme di inserimento del lavoratore all’interno dell’ambiente di lavoro. Non è un semplice conflitto non risolto sul luogo di lavoro, infatti, da quest’ultimo, se ne distingue per i suoi comportamenti sistematici e duraturi nel tempo. IL lavoratore diviene oggetto di chiacchiere e di calunnie, offeso e ridicolizzato, isolato dal contesto dei suoi compagni di lavoro, non più tenuto al corrente delle informazioni necessarie, gli vengono addossate colpe, viene privato degli strumenti necessari per svolgere il suo lavoro, oppure il suo lavoro viene continuamente criticato, svuotato di contenuti e vengono messe in dubbio le sue capacità professionali. Il fine di tutto ciò è quello di isolare il lavoratore, rendendogli la vita sul luogo frustante ed impossibile da indurlo ad andarsene.
 
E’ chiaro che nella maggior parte dei casi in cui si realizza il mobbing, l’ambiente di lavoro risulta problematico e non bene organizzato. 
 
Per essere etichettato come mobbing, il processo deve manifestarsi rispettivamente e regolarmente (es. settimanalmente) per un periodo di tempo (es. circa sei mesi). 
 
Le conseguenze per le vittime del mobbing possono essere notevoli. Sono stati riscontrati sintomi a carico della salute fisica, mentale e psicopatica: per esempio, stress, depressione, calo dell’autostima, fobie, disturbi del sonno, problemi digestivi. Tra le vittime del mobbing sono comuni anche disturbi da stress di carattere post-traumatico, simili ai sintomi che si manifestano dopo esperienze traumatiche di altra natura, quali disastri o aggressioni. Questi sintomi possono persistere per anni dopo gli avvenimenti che li hanno originati. A livello organizzativo, i costi del mobbing possono consistere in maggiore assenteismo e rotazione del personale, nonché minor efficacia e produttività, non soltanto per le vittime del mobbing, ma anche per gli altri colleghi, che risentono del clima psicosociale negativo dell’ambiente di lavoro. 
 
I primi in Europa a studiare questo fenomeno sono stati gli Svedesi, i quali hanno calcolato che circa il 15% dei suicidi in Svezia hanno come causa scatenante episodi di mobbing. Successivamente Germania, Gran Bretagna, Spagna, Svizzera e Francia hanno fatto studi di approfondimento sul problema. In quest’ultimo paese, in particolare, ad occuparsene per anni è stata la psicologa Marie France Hirigoyen.
 
Considerata la rilevanza del fenomeno, anche il Parlamento europeo ha cominciato ad interessarsene e il 20 settembre 2001 ha emanato la risoluzione A5-0283/2001 nella quale evidenzia come, dal sondaggio svolto dalla Fondazione Europea per il miglioramento delle condizioni di vita e del lavoro (Fondazione di Dublino), nei dodici mesi precedenti alla risoluzione l’8% dei lavoratori dell’Unione Europea, cioè 12 milioni di persone, è stato vittima di mobbing sul posto di lavoro e che la percentuale maggiore di persone che subiscono il mobbing è localizzata nell’amministrazione pubblica. Il Parlamento ha ritenuto tra l’altro che il dato dell’8% sia di gran lunga sottostimato. 
 
In Italia, dai dati contenuti in studi dell’associazione Prima e della Clinica del lavoro di Milano, risulta che circa un milione e mezzo di persone soffrono per il mobbing, percentuale che si calcola arrivi a circa cinque milioni di persone se si considerano anche coloro che, come ad esempio i familiari, ne subiscono indirettamente le conseguenze. Il fenomeno sta assumendo dimensioni allarmanti soprattutto nel settore pubblico. A conferma di ciò una relazione dell’ISPELS (Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro) evidenzia che il 71% delle denunce relative al mobbing riguarda i dipendenti del pubblico impiego, e in particolare le donne. Questi dati sono stati inoltre confermati dal CESAL (Centro Studi Europei su Sanità Ambiente e Lavoro). 
 
 
Il mobbing nella sociologia e psicologia del lavoro
Il mobbing prima di assumere rilevanza giuridica, è stato oggetto di ampi studi in ambito medico da parte di sociologi e psicologi del lavoro che ne hanno analizzato soprattutto le conseguenze psicofisiche sulla vittima. 
 
Le prime ricerche in materia sono appannaggio di un noto studioso tedesco, Heinz Leymann, il quale definisce il mobbing come” una forma di terrorismo psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica da uno o più soggetti, di solito nei confronti di un unico individuo che, a causa di tale persecuzione, si viene a trovare in una condizione indifesa e diventa oggetto di continue attività vessatorie e persecutorie che ricorrono con una frequenza sistematica e nell’arco di un periodo di tempo non breve, causandogli considerevoli sofferenze mentali, psicopatiche e sociali”. Ai fini dell’identificazione del fenomeno, non sarebbero dunque rilevanti le situazioni di conflitto solo “temporaneo”, frequentemente presenti nelle relazioni interpersonali nei luoghi di lavoro, ma solo quelle particolari situazioni con riguardo alle quali la frequente ricorrenza, pressoché giornaliera, la durata e l’intensità delle condotte vessatorie poste in essere nei confronti della vittima, determinano un’insostenibilità psicologica che può portare ad un crollo dell’equilibrio psico-fisico del soggetto mobbizzato, con la comparsa di vere e proprie patologie dal punto di vista psichiatrico o psicosomatico. 
 
Leymann distingue tra “normale conflitto” tra colleghi o con i superiori gerarchici ed il vero e proprio mobbing, che si verifica solo quando l’attività vessatoria o persecutoria assume carattere sistematico e duraturo (almeno sei mesi). Letteralmente Leymann afferma che la differenza va ricercata non tanto nel tipo di comportamento adottato dal vessatore, quanto nella frequenza e nella durata del comportamento stesso. 
 
Per Leymann, inoltre, il mobbing non va confuso con il “bullismo” studentesco o il “nonnismo” militare, perché mentre queste ultime forme di aggressione sono fortemente caratterizzate da atti di violenza o minaccia fisica, il mobbing sul posto di lavoro raramente sfocia in violenza fisica, ma è caratterizzato da “comportamenti subdoli e molto più sofisticati”, che mirano ad intaccare l’equilibrio psico-fisico della vittima. 
 
Una definizione ufficiale sul mobbing è stata formulata dalla associazione tedesca contro lo Stress Psico-sociale ed il Mobbing fondata nel 1993, secondo cui il mobbing consiste in una comunicazione conflittuale sul posto di lavoro tra colleghi o tra superiori e dipendenti, nella quale la persona attaccata viene posta in una posizione di debolezza e aggredita direttamente o/e per lungo tempo con lo scopo e/o la conseguenza della sua estromissione dal mondo del lavoro. Si tratterebbe cioè di una forma negativa di comunicazione tipica dei luoghi di lavoro, dovuta alla convivenza obbligatoria e forzata con soggetti non scelti ma imposti dalla organizzazione lavorativa. 
 
A queste definizioni si riallaccia anche Harald Ege, fondatore dell’associazione Prima. Questi , oltre ad essere stato il primo in Italia a fare ricerca sul mobbing, è stato colui che maggiormente ha affrontato e studiato il problema. Infatti, in uno dei suoi libri: Stress e Mobbing ed. Pitagora, ha scritto che: il mobbing consiste essenzialmente in un problema di comunicazione, in un conflitto routinario, vale a dire in un atteggiamento ostile nei confronti di una o più persone che, come tale, si caratterizza per la durata e la frequenza. Egli ritiene che alcuni lavoratori abbiano dentro di sé la cultura del conflitto e del litigio, che può manifestarsi all’esterno a certe condizioni, ad esempio quando uno dei due lavoratori riesce ad imporre, per una qualsiasi ragione, una certa scelta di lavoro all’altro, determinando cosi’, soprattutto se la scelta operata non viene sufficientemente spiegata o comunque non viene capita, la nascita di sentimenti di rivalsa. 
 
Leymann, delinea il mobbing, come un fenomeno dinamico progressivo articolato in varie fasi che va dai primi segnali premonitori ad una fase conclamata, in cui la vittima subisce attacchi continui da parte del superiore e/o colleghi, quindi ad un a fase in cui il caso viene “ufficializzato” con l’apertura di una inchiesta interna, che spesso però conduce ad un’ulteriore aggravamento della posizione della vittima, che diventa oggetto di sanzioni disciplinari da parte dell’ufficio del personale ed, infine, ad una fase “terminale” in cui il mobbing raggiunge il suo scopo ed il lavoratore viene allontanato dal lavoro. 
Il modello di mobbing a quattro fasi di Leymann è stato rivisitato ed adattato alla situazione italiana da Harald Ege, il quale ha proposto una versione a sei fasi del mobbing, più una sorta di pre-fase, detta condizione zero, che ancora non è mobbing, ma che ne costituisce l’indispensabile presupposto. 
 
Il mobbing secondo Ege si suddivide nelle seguenti fasi:
– la condizione zero: è riscontrabile solo nel sistema italiano e si caratterizza per la presenza negli ambienti di lavoro di condizioni favorevoli allo sviluppo del mobbing e consistente in un clima ostile di tensione determinato, tra l’altro, da un clima particolarmente sfavorevole del mercato del lavoro , o dall’ambizione di alcuno, o dalla concorrenza tra i lavoratori, 
– la fase uno si caratterizza per l’individuazione della vittima, ossia del soggetto su cui verranno riversate le ostilità dell’ambiente di lavoro, quella che fungerà da “capro espiatorio” per ogni problema aziendale e/o dei singoli lavoratori;
– la fase due, nella quale il fenomeno mobbing prende piede e si afferma la cosciente volontà di alcuni di colpire il capro espiatorio il quale peraltro, pur percependo l’inasprimento delle relazioni con i colleghi, ancora non presenta sintomi o malattie di tipo psico-somatico;
– la fase tre, nella quale la vittima comincia ad avvertire i primi sintomi psicosomatici, che si manifestano con un senso di ansia, insicurezza, insonnia, disturbi digestivi;
– la fase quattro che si caratterizza per l’oggettività e la pubblicità del fenomeno mobbing che diviene di dominio pubblico ed oggetto di valutazione da parte dell’ufficio personale;
– la fase cinque in cui si registra, da una parte, un serio peggioramento nelle condizioni di salute della vittima che comincia a soffrire di forme depressive più o meno gravi e a far uso di psicofarmaci e terapie con scarso risultato e, dall’altro, l’azienda adotta azioni disciplinari che aggravano ulteriormente le condizioni della vittima;
– la fase sei che realizza l’esclusione della vittima dal mondo del lavoro tramite dimissioni volontarie, licenziamento, o addirittura con gli atti estremi dell’omicidio o del suicidio. 
 
Gli studi più recenti sul mobbing si sono concentrati in particolare sull’individuazione delle categorie di soggetti a rischio, nonché nella ricerca delle cause e delle possibili soluzioni da approntare contro il fenomeno. In tale direzione si rivela particolarmente importante l’attività svolta dal CDL (Centro Disadattamento Lavorativo) della Clinica del Lavoro di Milano, che è un centro interdisciplinare istituito nell’aprile 1996, al fine di svolgere attività clinico-diagnostica e preventivo riabilitativa su pazienti con sospetto di malattia legata a condizioni di stress e di disagio lavorativo. Il centro è costituito da medici del lavoro, psichiatri , psicologi, psicoterapeuti, che da anni si occupano dei casi di mobbing e che hanno contribuito a sviluppare la conoscenza e sensibilizzazione sociale al problema nel nostro paese. Da tali ricerche emerge, tra l’altro, che il mobbing interessa in particolare quattro grosse tipologie di soggetti (i c. d. soggetti a rischio): – i “creativi”, gli “onesti”, i “disabili”, i c.d. “superflui”. 
 
Si tratta per lo più di persone che, per un motivo o per altro, si differenziano rispetto all’ambiente lavorativo in cui si trovano ad operare e proprio per tale loro intrinseca diversità vengono emarginati o allontanati dal lavoro. 
 
E’ doveroso sottolineare che il CDL della Clinica suddetta, per anni è stata l’unica struttura clinica di riferimento sul territorio nazionale per questa tipologia di disturbi stress correlati. Inoltre, si ricorda il ruolo informativo e di sostegno ai pazienti svolto in questi anni dall’ISPEL che ha istituito in Roma il Centro di ascolto per il mobbing con larga utenza nazionale. Infine, più recentemente anche i Sindacati, mediante i loro centri di ascolto, svolgono una funzione di informazione e di orientamento alle vittime del mobbing
 
Ai fini della qualificazione del mobbing, tutti gli studi psicologici e sociologici presi in esame, concordano nel ritenere poco rilevante la tipologia del comportamento vessatorio ed affermano, piuttosto, l’essenzialità della sua frequenza e ripetitività nel tempo. Tuttavia occorre rilevare che il fenomeno si manifesta sotto forme rituali di comportamento abbastanza ricorrenti, le cui modalità di persecuzione psicologica del lavoratore sono tendenzialmente infinite, quali ad esempio: aggressioni verbali, isolamento fisico del dipendente, attraverso ad esempio il trasferimento di ufficio in sede distaccata; iniziative volte ad impedire al lavoratore di mantenere contatti sociali con altri colleghi; attacchi alla reputazione morale e familiare della vittima (diffusione di dicerie e pettegolezzi vari volti a ridicolizzare la vittima); molestie sessuali; dequalificazione e demansionamento professionale, oppure al contrario sovraccarico di lavoro; ossessivi controlli e critiche fonti di contestazioni e sanzioni disciplinari pretestuose; revoca dei benefits (auto, telefonino, segreteria, ufficio di ampie dimensioni, etc.); revoca o diniego di permessi e ferie; continue visite fiscali di controllo alle prime assenze per malattie. 
Da precisare che Leymann, ad esempio, ha individuato ben 45 tipologie di comportamenti raggruppati in cinque categorie diverse: attacchi alla possibilità di comunicare; attacchi alle relazioni sociali; attacchi all’immagine sociale; attacchi alla qualità della situazione professionale e privata; attacchi alla salute. 
Per Harald Ege, invece, i comportamenti riconducibili al mobbing, si suddividono in: negazione degli atti umani (impedendo alla vittima di comunicare con i colleghi di lavoro); isolamento sistematico (ponendo la vittima lontano dai colleghi o negazione di colloqui); demansionamento o privazione assoluta di qualsiasi mansione; attacchi alla reputazione della persona (con riguardo alle opinioni politiche o alla vita privata); violenza o molestie sessuali. 
 
 
Aspetti Giuridici del mobbing nel lavoro pubblico
Allo stato attuale, in Italia il fenomeno del mobbing non ha ancora ricevuto una specifica attenzione legislativa. Tuttavia, nel nostro ordinamento si possono individuare strumenti legislativi idonei a garantire la difesa della salute fisica e psicologica dei lavoratori. Tra l’altro, anche il datore di lavoro pubblico è tenuto ad adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale del prestatore di lavoro (ex art. 2087 c. c.) ed è responsabile anche per il fatto illecito dei propri dipendenti. Peraltro, è noto che, in seguito all’intervenuta privatizzazione del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (d. Lgs. n. 29/93), il lavoratore pubblico gode delle medesime prerogative ed ha le medesime tutele del lavoratore privato. Cosi’, ove vengono violate le disposizioni del testo unico in materia di pubblico impiego e/o del codice civile, lo Stato o l’ente pubblico datore di lavoro è responsabile dei danni causati al lavoratore al pari del datore di lavoro privato. 
 
In questi casi la responsabilità dello Stato e/o dell’ente pubblico concorre con quella personale e diretta del dipendente autore del comportamento illecito, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 28 Costituzione, secondo il quale: “i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità si estende allo Stato ed agli enti pubblici”. 
 
Ciò implica, peraltro, che l’amministrazione può rivalersi, azionando apposito giudizio innanzi alla Corte dei Conti, nei confronti dell’amministratore o dipendente pubblico che determini, in sede civile, con il suo comportamento, la condanna della stessa amministrazione al risarcimento del danno a favore del privato. In questo caso, il giudice contabile deve ricercare la colpa grave dell’agente pubblico e valutare il vantaggio comunque conseguito dall’amministrazione o dalla comunità di riferimento, con il comportamento, pur per altri versi dannoso, tenuto dallo stesso agente. Non è da escludersi che il giudice contabile possa giungere a pronunce diverse da quelle prese del giudice ordinario, salvo in questo caso l’obbligo di motivarle adeguatamente e puntualmente (Corte dei Conti sentenza del 25/10/2005 n. 623). 
 
L’eventuale accertamento di responsabilità dell’agente pubblico potrà determinare nei suoi confronti anche l’applicazione di sanzioni disciplinari e in alcuni casi addirittura la revoca dell’incarico. 
 
Il ripetersi di episodi di mobbing nell’ambito delle Pubbliche Amministrazioni, ha indotto gli enti a prevedere, anche in sede di contrattazione collettiva la costituzione di comitati paritetici e di osservatori. Inoltre, il comportamento mobbizzante è stato ritenuto suscettibile dell’applicazione di sanzioni disciplinari. Infatti, l’art. 8 del CCNL/2004 del contratto collettivo del comparto degli Enti Locali, prevede l’istituzione presso ciascun Ente di comitati paritetici sul fenomeno del mobbing, inteso come violenza. Ad oggi, purtroppo è amaro constatare che non tutti gli Enti Locali hanno ottemperato, malgrado, da studi effettuati, i comunali, risultano fra i dipendenti della Pubblica Amministrazione quelli maggiormente colpiti dal fenomeno. 
 
Anche il CCNL personale del comparto Ministeri quadriennio normativo 2002/05 e biennio economico 2002-2003 all’art. 6, dispone l’istituzione di comitati paritetici sul mobbing, al fine di verificare l’esistenza di condizioni di lavoro che possono determinare l’insorgere di situazioni persecutorie e di violenza morale. 
 
Sotto il profilo della tutela di rango costituzionale, infatti l’art. 32 della Costituzione dispone il diritto inviolabile alla salute dell’individuo e della collettività; il successivo art. 41 prevedendo, poi, il principio della libertà di iniziativa economica privata, stabilisce che la stessa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. 
 
La Corte Costituzionale, nella sentenza del 19/12/2003 n. 359, si esprime nel seguente modo sul fenomeno mobbing: “è noto che la sociologia ha mutuato il termine mobbing da una branca dell’etologia per disegnare un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo…” “…per quanto riguarda il soggetto passivo si pongono principalmente problemi di individuazione e valutazione delle conseguenze e dei comportamenti medesimi. Tali conseguenze, secondo le attuali acquisizioni, possono essere di ordine diverso. Infatti, la serie di condotte in cui dal lato attivo si concretizza il mobbing può determinare: l’insorgenza nel destinatario di disturbi di vario tipo e, a volte, di patologie psicotiche, complessivamente indicati come sindrome da stress postraumatico; il compimento, da parte del soggetto passivo medesimo o nei suoi confronti, di atti che portano alla cessazione del rapporto di lavoro, anche indipendentemente dall’esistenza dei disturbi di tipo psicologico o medico di cui si è detto sopra; l’adozione, da parte della vittima, di altre condotte giuridicamente rilevanti, ed eventualmente illecite, come reazione alla persecuzione ed emarginazione” (Corte Costituzionale, 2003). 
 
Dal punto civilistico, il mobbing risulta già preso in considerazione dalla giurisprudenza civile quale titolo risarcitorio, sia nell’ipotesi in cui l’autore del mobbing è il datore di lavoro, sia da quelle in cui comportamenti persecutori vengono posti da un collega della vittima. In questa seconda ipotesi, l’autore delle violenze psicologiche potrà essere chiamato a rispondere per responsabilità extracontrattuale: che ricorre nel caso in cui una persona provoca un danno ingiusto ad altra persona (ex art. 2043 c. c.). Quando invece l’autore delle violenze psicologiche è il datore di lavoro, quest’ultimo risponderà per inadempimento del contratto di lavoro. L’imprenditore, (ex art. 2087 c. c. ) è tenuto ad adottare nell’impresa tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore. Per essere risarcito il lavoratore dovrà provare la condotta illegittima.
 
Il mobbing può provocare anche un danno alla professionalità, quando il lavoratore non ricopre l’incarico per il quale era stato assunto. Il lavoratore assegnato a mansioni inferiori o lasciato del tutto inattivo può, infatti, chiedere al giudice del lavoro (ex art. 2103 c. c.), non solo di accertare l’illecito e di dichiarare la nullità dell’atto datoriale invalido, ma anche di essere reintegrato nelle mansioni precedentemente svolte o in mansioni equivalenti, ai sensi dell’art. 52 del d. lgs. n. 165/2001. 
 
Anche l’Inail, dopo uno studio durato due anni da parte di un apposito comitato scientifico, con circolare del 17/12/2003 emanata dalla Direzione Generale, ha considerato il mobbing come malattia professionale, infatti è stato inserito nella categoria delle malattie professionali non tabellari, cioè non comprese nelle tabelle. Conseguentemente, il lavoratore potrà chiedere il risarcimento del danno anche al suddetto istituto. Successivamente, con decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali datato 27/4/2004, è stato approvato l’elenco delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia, ai sensi e per gli effetti dell’art. 139 del testo unico, approvato con D. P. R. n. 1124 del 30/6/1965 e s. m. i. (G. U. n. 134 del 10/6/2004). Nella lista II di detto elenco, sono compresi vari disturbi, con indicazione delle principali situazioni negative di lavoro già riportate nel documento INAIL. 
 
Da ricordare che anche la Presidenza del Consiglio dei Ministri della Funzione Pubblica ha istituito una commissione di analisi e studio sulle politiche di gestione delle risorse umane e sulle cause e le conseguenze dei comportamenti vessatori nei confronti dei lavoratori. A conclusione della propria attività, detta Commissione ha presentato una proposta di legge nella quale il mobbing viene cosi definito: ”atti, atteggiamenti o comportamenti di violenza morale o psichica in occasione di lavoro, ripetuti nel tempo in modo sistematico o abituale, che portano ad un degrado delle condizioni di lavoro idoneo a compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore” (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della Funzione Pubblica, 2003). 
 
Per quanto attiene, invece, la tutela e la responsabilità penale, il mobbing non ha una specifica collocazione nel diritto quale autonoma e precipua fattispecie criminosa, dal momento che la legislazione vigente non prevede alcuna ipotesi di reato a carico del datore di lavoro per le condotte di vessazione morale e di dequalificazione professionale da lui tenute nell’ambiente di lavoro in danno del lavoratore, sebbene da varie parti, anche mediante la presentazione di alcuni progetti di legge, se ne chiede l’introduzione. 
 
Di conseguenza, la condotta costituente mobbing viene fatta rientrare, di volta in volta, in fattispecie diverse, che tuttavia non sempre sembrano adeguate a disciplinare appieno il fenomeno. 
 
In tal senso, si è altresì espressa la Corte di Cassazione sottolineando “la difficoltà di inquadrare la fattispecie in una precisa figura incriminatrice, mancando in seno al codice penale questa tipicizzazione”(cass. sez. V 9 luglio 2007, n. 33624). 
 
Allo stato attuale, quindi, i fatti di mobbing possono assumere specifica rilevanza solo ove la condotta vessatoria integri gli estremi di specifici reati, quali: ingiuria (art. 594 c. p.), diffamazione(art. 595 c. p.), molestia o disturbo alle persone (art. 660 c. p.), violenza privata (art. 610 c. p.), violenza sessuale (art. 609-bis c. p. e seguenti), abuso d’ufficio (art. 323 c. p.), lesioni (artt. 582-583 c. p.) maltrattamenti (art. 572 c. p.). 
 
In considerazione di ciò, come si è già detto, allo stato attuale non esiste una fattispecie penale precisa e onnicomprensiva del mobbing, di conseguenza, fare rientrare la condotta qualificante mobbing in una fattispecie penalmente rilevante incontra, infatti, non poche difficoltà, con particolare riferimento al rispetto del principio di legalità e tassatività del reato, enunciato agli artt. 25, comma 2 Cost. e 1 c. p. , che impone una puntuale formulazione, da parte del legislatore, delle fattispecie legali cui il precetto si applica. Non sempre, infatti, appare possibile fare rientrare il comportamento costituente mobbing nelle norme incriminatrici esistenti. 
 
Inoltre, in relazione al profilo soggettivo di imputazione del fatto, infatti trasferendo i principi di diritto penale al mobbing, occorre conseguenzialmente valutare se la compromissione dell’integrità psicofisica del lavoratore sia riconducibile ad una condotta colposa del datore di lavoro, derivante da negligenza, imprudenza, imperizia o da violazione di specifiche norme. 
 
Al riguardo, anche in base alle indicazioni della giurisprudenza (Cass. pen. sez. I 28 gennaio 1991), il criterio di imputazione della responsabilità non può prescindere dall’analisi delle modalità estrinseche di concreta manifestazione della condotta criminosa, e da un attenta valutazione di ogni profilo circostanziale del fatto. 
 
Nel marzo 2006 la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 6572/06, ha riconosciuto il danno esistenziale come un autonoma e legittima categoria dogmatica giuridica in seno all’art. 2059 c. c. In pratica, con questa pronuncia i Giudici della Suprema Corte, hanno rivoluzionato quello che era il pensiero ed i metodi di lavoro comunemente accettati in ambito di danno esistenziale, stabilendo che esso non si consegue più in senso “automatico” dalla prova dell’evento dannoso, bensì occorre valutare il riflesso negativo che l’evento traumatico ha provocato all’interno delle relazioni interpersonali del soggetto danneggiato. 
 
Ed ancora, sulla quantificazione del danno da mobbing, molti Tribunali del lavoro (Agrigento sent. del 1/2/2005, La Spezia sent. del 4/7/2005, Sondrio sent. del 31/3/2008), hanno seguito ed applicato il metodo H. Hege. Quest’ultimo, a tal proposito, ha pubblicato sull’argomento un libro dal titolo: La valutazione peritale del danno da mobbing, edito da Giuffrè
 
Con differenti decisioni, la Cassazione (sez. VI 7 novembre 2007 n. 40891) si è altresì pronunciata sulla rilevanza penale del mobbing all’interno della Pubblica Amministrazione. Trattando un caso di mobbing, ha individuato la ricorrenza di tale elemento richiesto dall’art. 323 c. p. (abuso di ufficio) nel demansionamento del dipendente pubblico, se adottato dal dirigente in evidente violazione di disposti normativi o di previsioni contenute nei contratti collettivi nazionali (vedasi D. lgs. n. 29 del 1993 art. 56 sui dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni). Tuttavia, la legge subordina la punibilità dell’abuso di ufficio (previsto e punito dall’art. 323 c. p.) al fatto che codesto avvenga con modalità tipiche, vale a dire “in violazione di norme di legge o di regolamento”. 
 
Anche il TAR Puglia Bari Sezione 1 sentenza n. 528 del 31/3/2011 si è occupato della materia, a seguito di un ricorso presentato da un dipendente comunale, con una sentenza in cui dice che la condotta di mobbing dell’Amministrazione pubblica datrice di lavoro, consistente in comportamenti materiali o provvedimentali contraddistinti da finalità di persecuzione e di discriminazione, deve essere provata dal dipendente ed in ogni caso determinati comportamenti non possono essere qualificati come mobbing, se è dimostrato che vi è una ragionevole e alternativa spiegazione.
 
Con la recente sentenza del Consiglio di Stato del 4/11/2014, la Sesta sezione ha ritenuto di confermare le coordinate giurisprudenziali formatesi in materia a tenore delle quali: per mobbing, in assenza di una definizione normativa, si intende normalmente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo. In particolare nel lavoro pubblico, per configurarsi una condotta da mobbing, è necessario un disegno persecutorio tale da rendere tutti gli atti dell’amministrazione, compiuti in esecuzione di tale sovrastante disegno, non funzionali all’interesse generale a cui sono normalmente diretti (sez. IV 19 marzo 2013 n. 1609); – la ricorrenza di una ipotesi di condotta mobbizzante deve essere esclusa quelle volte in cui la valutazione complessiva dell’insieme di circostanze addotte, pur se idonea a palesare, singolarmente, elementi od episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di ordinaria verosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo, del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro. Segue da ciò che, nel verificare l’integrazione del mobbing è necessario, anche in ragione della indeterminatezza normativa della figura, attendere ad una valutazione complessiva ed unitaria degli episodi lamentati dal lavoratore, da apprezzare per accertare tra l’altro, da un lato, l’idoneità offensiva della condotta datoriale e, dall’altro, la connotazione emulativa e pretestuosa della condotta (sez. VI 17 febbraio 2012 n. 856); – non si può addebitare un disegno persecutorio qualora non sia possibile desumere elementi di prova dalla illegittimità dei provvedimenti, non essendo stati, tali atti, impugnati, e non siano state provate condotte personali dei superiori del dipendente tali da manifestare il connotato delle minacce, della violenza e delle ingiurie. Di conseguenza, la domanda di risarcimento dei danni discendenti da illecito demansionamento e mobbing non può essere accolta qualora il lavoratore non abbia tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi, adottati dall’Amministrazione nell’ambito della sua attività gestionale, da cui è derivata l’asserita modifica peggiorativa del rapporto lavorativo (Sez. V, 27 maggio 2008, n. 2515). 
 
La Suprema Corte, qualche anno addietro, in una controversia promossa da una dipendente comunale, ha confermato che il mobbing presuppone l’esistenza, e, quindi, l’allegazione specifica di una serie di atti vessatori teologicamente collegati al fine dell’emarginazione del soggetto passivo. In altri termini, ai fini della deduzione del mobbing, è necessaria anche l’allegazione di una preordinazione finalizzata all’emarginazione del dipendente (Cassazione n. 7985 del 2/4/13). 
 
Anche la Corte dei Conti della Sicilia, con sentenza del 23 maggio 2011, ha visto soccombere un dirigente di una amministrazione comunale condannato a ripagare parzialmente la somma che l’ente locale aveva dovuto impegnare per risarcire un dipendente mobbizzato dal dirigente. Già la Corte di Cassazione aveva stabilito, con sentenza n. 22858 del 11/9/2008, che la condotta persecutoria deve manifestarsi nell’arco temporale di almeno un semestre. Nel caso specifico il dirigente è stato punito per il suo comportamento che aveva impedito la promozione di un impiegato. A tal fine si può configurare l’azione persecutoria con la dequalificazione lavorativa prolungata. E a tal proposito i giudici contabili, riferendosi alla sentenza della Corte di Cassazione n. 18262 del 29/8/2007, hanno affermato che la giurisprudenza civilistica “riconosce spesso la responsabilità per condotta mobbizzante del datore di lavoro, non solo quale soggetto agente direttamente, ma anche per non essersi lo stesso personalmente attivato per far cessare i comportamenti scorretti dei dipendenti”. 
 
Per ultimo, i giudici di legittimità, con la recentissima sentenza n. 10037 del 15/5/2015, offrono il metodo certo per scoprire se il lavoratore ricorrente ha diritto a ottenere un risarcimento da parte del proprio datore di lavoro. In sostanza si tratta del riconoscimento da parte della giurisprudenza di un già noto metodo scientifico di valutazione del danno lavorativo.
 
I parametri che, secondo l’autorevole pronuncia, devono essere provati dal soggetto che si dice mobbizzato concernano puntualmente i seguenti aspetti:
– l’ambiente di lavoro (nel senso che le vessazioni devono avvenire sul luogo di lavoro);
– la durata (con contrasti avvenuti in un congruo periodo di tempo);
– la frequenza (le provate attività vessatorie devono essere reiterate e molteplici nel tempo);
– tipo di azioni ostili (le azioni poste in essere devono rientrare in almeno due delle categorie di azioni ostili riconosciute: attacchi alla possibilità di comunicare; isolamento sistematico; cambiamenti delle mansioni lavorative; attacchi alla reputazione; violenze o minacce);
– dislivello tra gli antagonisti (provando l’inferiorità del soggetto mobbizzato);
– andamento secondo fasi successive (almeno alcune tra, conflitto mirato, inizio del mobbing, sintomi psicopatici, errori e abusi, aggravamento salute, esclusione dal mondo del lavoro ecc.);
– intento persecutorio (ossia la prova di un disegno vessatorio coerente). 
 
Queste linee guida certe per riconoscere il mobbing, sono state dettate, come già riferito, con la recentissima sentenza della Cassazione Civile sez. lavoro n. 10037 del 15/5/2015, che nella vicenda lavorativa di una dipendente comunale aveva riscontrato tutti e sette i sopracitati parametri tassativi di riconoscimento del mobbing
 
 
Conclusioni
A mio avviso, la prevenzione del mobbing è un elemento chiave se si vuole migliorare la vita lavorativa ed evitare l’emarginazione sociale. Decisivo è intervenire tempestivamente contro un ambiente di lavoro devastante. Un ruolo determinante nella prevenzione al fenomeno del mobbing, può essere svolto dagli uffici preposti alla gestione delle risorse umane ed in particolare dai dirigenti capaci di operare sui dati relativi al personale e che riguardano la formazione, la comunicazione interna, i codici di comportamento, la motivazione. Dunque, assume un importanza crescente la cultura dell’organizzazione, dell’attenzione all’ambiente di lavoro. I dirigenti non devono aspettare che siano le vittime a lamentarsi. 
 
Inoltre, per risolvere o limitare il problema del mobbing, è necessario fare corretta informazione. A tal proposito, l’azione dei sindacati è fondamentale per quanto riguarda l’informazione, la divulgazione e la raccolta dei casi di mobbing, nonché ovviamente la messa a punto di strategie sindacali di intervento a difesa delle vittime. Ebbene precisare, che ad oggi, non tutti i Sindacati hanno assolto tale compito, che deve essere prima di ascolto e poi di intervento a difesa del lavoratore. 
 
Anche a livello giudiziario è necessario intervenire, facilitando il lavoro del Giudice, tramite l’assistenza da parte di esperti. A differenza di altri paesi, come per esempio il Canada, l’Australia e l’Inghiterra, non è diffusa ancora in Italia la figura dello psicologico “giuridico”, nel senso di esperto psicologico, che lavora a tempo pieno ed esclusivamente per la Corte nei casi, sia penali che civili, che coinvolgono aspetti psicologici. Naturalmente, l’istituzione di un gruppo di esperti stabilmente inseriti negli uffici giudiziari richiede lo stanziamento di fondi pubblici e coinvolge, quindi, valutazioni di natura politica. Va considerato, tuttavia, che gli elevati costi sociali del mobbing per la comunità potrebbero essere molto ridotti attraverso una iniziativa di questo tipo. 
 
E’ necessario altresì istruire e preparare le forze dell’ordine, tramite corsi specifici sulle diversificate e complesse dinamiche del fenomeno, al fine di rendere più efficace la loro risposta. 
 
Inoltre è auspicabile l’introduzione di una normativa ad hoc, perché come già detto, la responsabilità penale dell’autore di mobbing risulta, infatti, ancora difficilmente dimostrabile. Al momento in Europa, solo Francia e San Marino, sono gli unici paesi, che finora hanno provveduto ad introdurre un reato specifico per reprimere le vessazioni sul lavoro. In Francia trattasi del reato di harcelement moral. San Marino invece con l’art. 13 della legge n. 97 del 2008, ha introdotto, nel codice penale sanmarinese il nuovo reato di atti persecutori (art. 181 bis c. p. ). 
 
La Repubblica di San Marino e la Francia, offrono, dunque, al nostro Paese un valido strumento di comparazione per l’introduzione nel nostro ordinamento di una analoga fattispecie penale. Allo stato attuale, infatti, l’evidenziato lavoro operato dai giudici, sia di merito che di legittimità, si sta configurando sostanzialmente come suppletivo di quello del legislatore. Ad eccezione dei due paesi sopracitati, tutti gli altri risultano inadempienti ad una direttiva del Parlamento Europeo addirittura del 2002. 
 
E’, quindi, sperabile che presto venga emanata una legge che recepisca gli orientamenti internazionali e nazionali su questo tema molto delicato. A tal proposito, la dottrina in merito all’opportunità di introdurre un reato apposito che sanzioni le vessazioni sul lavoro, dopo aver analizzato i diversi disegni di legge presentati in Parlamento nel corso degli ultimi anni, ha proposto la possibilità anche di ricorrere a strumenti alternativi di tutela, come ad esempio, la responsabilità amministrativa da reato e l’adozione di un modello di tipo ingiunzionale. 
 
 
 
Bibliografia
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