Dopo i referendum e la riforma dei servizi pubblici locali.
Anno: 2016 | Autore: PAOLA BRAMBILLA
IL SERVIZIO IDRICO INTEGRATO
Dopo i referendum e la riforma dei servizi pubblici locali
PAOLA BRAMBILLA*
1) La prima fase normativa.
Tra il 2010 e il 2011 il servizio idrico integrato è stato oggetto di profondi mutamenti normativi relativi alla sua gestione, tanto a livello nazionale, quanto a livello regionale, e ciò per effetto sia di interventi legislativi che a seguito del referendum del maggio di quest’anno: democrazia indiretta e diretta si sono scontrate, non casualmente, su un campo di battaglia cruciale, quello dei servizi pubblici locali che toccano le tematiche dei diritti fondamentali, dell’ambiente, della salute.
Non per nulla il diritto comunitario ha coniato la nozione di servizi di interesse economico generale, che combina in sé i due volti della concorrenza, ritenuta cardine per una sana competizione degli operatori a favore anche dell’utenza, e dell’accessibilità ed universalità del servizio, da garantire anche mediante deroghe ai rigidi principi concorrenziali, deroghe che legittimano anche l’eventuale concessione di aiuti di stato per realizzare gli obiettivi peculiari di interesse pubblico propri del singolo servizio.
La premessa è doverosa per affrontare, sia pure sinteticamente, il quadro dell’attuale configurazione del servizio idrico integrato.
Dobbiamo al riguardo prendere le mosse dalla legge 36/94, c.d. legge Galli, che delinea per prima il concetto di servizio idrico integrato – anni luce prima della direttiva quadro 2000/60 in materia di acque – come unione dei segmenti dell’acquedotto, della fognatura e della distribuzione, da gestire unitariamente, secondo criteri di efficienza ed efficacia ed apertura al privato, in una logica industriale, contemperata dall’adozione standard di servizio e da principi tariffari omogenei e regolati.
Alla normativa nazionale seguono gli innesti comunitari, legati al susseguirsi della disciplina europea in tema di tutela delle acque dall’inquinamento, poi della direttiva quadro in materia di acque; quest’ultima, in particolare, da un lato introduce aspetti economici di indiscusso rilevo, come il principio del full recovery cost (ovvero la copertura integrale del costo del ciclo dell’acqua, inteso però anche come captazione, protezione dell’acquifero, rinaturazione, tutela quali-quantitativa della risorsa), dall’altro impone la gestione della risorsa idrica per bacini idrografici e non per confini amministrativi; precetti ancora in gran parte inattuati sia a livello nazionale che regionale; come rimane inattuata la partecipazione alla pianificazione in materia di acque, ancora sconosciuta persino al pubblico dei tecnici, tanto che la relativa Guida è stata tradotta in italiano per la prima volta solo grazie al WWF Italia.
Il d.lgs. 152/06, c.d. codice dell’ambiente, che si occupa anche di acque, infine – pur non riuscendo nell’intento unificatore preteso dal titolo della normativa – regolamenta ex novo anche il servizio idrico integrato, con la previsione di una gestione per ambiti e di un’autorità d’ambito cui viene conferita personalità giuridica, deputata ad organizzare il servizio, a scegliere il modello di gestione, e ad affidare la gestione stessa a terzi.
2) La stretta neoliberista.
In questo scenario irrompe la normativa sui servizi pubblici locali di ispirazione più che liberista, centralista; falcidia infatti la rosa dei possibili modelli di gestione dei servizi pubblici delineata dagli articoli 113 e 113 bis del T.U.E.L. con il famigerato art. 23-bis del D.L. 112/2008, convertito in L. 133/08 e poi modificato dal D.L. 135/09, c.d. decreto Ronchi, convertito in L. 166/09 e seguito dal regolamento di attuazione di cui al D.P.R. 168/2010.
La riforma lascia spazio solo per la gara, o per l’affidamento a miste con socio privato scelto con gara (a doppio oggetto, ovvero anche per la concessione del servizio) e detentore di una quota almeno del 40% del capitale sociale, annichilendo ogni possibile aspirazione ad uno degli altri modelli legittimati dal diritto comunitario della concorrenza, e bandendo dunque – se non per casi eccezionali – l’affidamento in house e la possibilità per gli enti locali, diretti interessati alla gestione dell’acqua per le loro popolazioni, di governare questo servizio essenziale.
La riforma prevede inoltre, per evitare proroghe nel passaggio al regime della gestione pienamente concorrenziale dell’acqua, scadenze automatiche ope legis, a scaglioni, per gli affidamenti non conformi, di cui viene stabilita la cessazione di diritto a decorrere dal 31 dicembre 2010.
Questo sistema viene legittimato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 325 del 2010, che afferma il potere dello Stato di restringere i modelli gestionali dei servizi pubblici rispetto al paradigma comunitario. La pronuncia esclude che possa spettare agli enti locali la decisione di stabilire se classificare i servizi pubblici come dotati di rilevanza economica o meno, e riafferma trattarsi di servizi di interesse generale, riallacciandosi alla nozione datane dalla Commissione europea nel Libro verde sui servizi di interesse generale del 21 maggio 2003.
In particolare, secondo le indicazioni fornite dalla giurisprudenza comunitaria e dalla Commissione europea, per «interesse economico generale» si intende un interesse che attiene a prestazioni dirette a soddisfare i bisogni di una indifferenziata generalità di utenti e, al tempo stesso, si riferisce a prestazioni da rendere nell’esercizio di un’attività economica, cioè di una «qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato», anche potenziale (sentenza Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, causa C-35/96, Commissione c. Italia, e Libro verde sui servizi di interesse generale del 21 maggio 2003, 2.3, punto 44) e, quindi, secondo un metodo economico, finalizzato a raggiungere, entro un determinato lasso di tempo, quantomeno la copertura dei costi. Si tratta dunque, per la Corte, di una nozione oggettiva di interesse economico, riferita alla possibilità di immettere una specifica attività nel mercato corrispondente, reale o potenziale.
Così chiarito l’ambito concorrenziale della disciplina, e la competenza esclusiva dello Stato al riguardo, la Corte Costituzionale afferma l’adeguatezza della disciplina, anche sotto il profilo della tempistica delle scadenze imposte alle gestioni esistenti, in quanto: a) si innesta in un sistema normativo interno in cui già vige il divieto della gestione diretta mediante azienda speciale o in economia, e in cui l’affidamento in house ha natura eccezionale; b) l’ordinamento comunitario, in tema di affidamento della gestione dei servizi pubblici, costituisce solo un minimo inderogabile per i legislatori degli Stati membri e, pertanto, non osta a che la legislazione interna disciplini più rigorosamente, nel senso di favorire l’assetto concorrenziale di un mercato, le modalità di tale affidamento; c) quando non ricorrano le condizioni per l’affidamento diretto, l’ente pubblico ha comunque la facoltà di partecipare alle gare ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione del servizio.
La sentenza chiude dunque ogni spazio ad una configurazione del servizio idrico integrato, a livello regionale, diversa da quella concorrenziale e liberista varata dal legislatore nazionale.
Legislatore che, nel frattempo, ha anche provveduto ad abrogare le Autorità d’ambito di cui all’art. 148 del codice dell’ambiente, prima con la finanziaria del 2008 e poi con la L. 42 del 2010 che inserisce un art. 2, comma 186-bis, nella L. 191 del 2009.
Anche tale previsione viene giudicata corretta a livello costituzionale dalla Consulta con la sentenza n. 128 del 2011, in cui si riconduce la scelta alle materie della tutela della concorrenza e della tutela dell’ambiente e quindi all’esclusiva competenza statale. Viene inoltre sottolineato in questa sede come la norma preveda comunque che la riattribuzione delle competenze avvenga in base a criteri di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, proprio per tener conto dei diversi enti coinvolti dalla gestione della risorsa idrica.
3) I referendum e la recente riforma.
La democrazia diretta risponde però a questo quadro normativo, non condiviso, in modo assolutamente univoco e corale, con la conseguente abrogazione dell’art. 23-bis e del regolamento attuativo, sancita dal D.P.R. n. 113 del 2011.
Che cosa rimane dunque a regolare l’affidamento della gestione del S.I.I.?
La prima risposta viene dritta dritta da una delle pronunce con cui la Corte ha dichiarato l’ammissibilità dei quesiti referendari, e precisamente dalla n. 24 del 2001: vi si legge che all’abrogazione dell’art. 23-bis, da un lato non conseguirebbe alcuna reviviscenza delle norme abrogate da tale articolo (cfr. sentenze n. 31 del 2000 e n. 40 del 1997); dall’altro, che conseguirebbe l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum) relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica.
In esito alla consultazione referendaria, pertanto, si applica la disciplina comunitaria in materia di servizi di interesse economico generale e rivive per gli enti locali la facoltà di utilizzare proprie strutture per la gestione dei servizi pubblici locali, fermo restando il rispetto delle condizioni poste dalla giurisprudenza comunitaria in tema.
E ancora, non rivive la normativa precedente all’art. 23-bis.
Infine, restano ferme le scadenze già verificatesi degli affidamenti non conformi al previgente quadro normativo.
Non si salvano, in definitiva, gli affidamenti in house non conformi in essere alla data del 31 dicembre 2010 (su 63 affidamenti in house erano 24, in base ai dati dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici quelli non conformi al 24 marzo 2010), le società miste non conformi a quella data, gli affidamenti disposti in base a contratti scaduti, e le proroghe illegittime di contratti scaduti, conformemente all’art. 57 del codice degli appalti, come ricorda da ultimo Consiglio di Stato, con sentenza n. 2151 del 2011.
Quali gestioni preesistenti si salvano? Quelle affidate in house conformemente ai criteri delineati dalla giurisprudenza comunitaria – su cui si tornerà dopo – e gli affidamenti corretti a società miste, per le quali cade l’obbligo per le quotate di ridurre la quota pubblica entro il 31 dicembre 2015 al 30 %; cade altresì l’obbligo per le non quotate di cedere entro il 31 dicembre 2011 almeno il 40 % ai privati.
4) Le nuove competenze.
Nel nuovo quadro post referendario, in cui oltretutto l’Autorità d’ambito è stata sostituita da un ente responsabile, generalmente la Provincia, a quest’ultimo spetta l’affidamento del S.I.I. al gestore, beninteso con il coinvolgimento dei Comuni dell’ambito, che rimangono corresponsabili e contitolari della risorsa, come si dirà anche in seguito.
Ai Comuni continua inoltre a spettare l’affidamento transitorio della gestione dei segmenti del S.I.I., in tutti quei casi in cui il Piano d’ambito non sia stato ancora approvato o affidato.
I modelli che i Comuni hanno a disposizione, ancora una volta, sono quelli conformi all’ordinamento comunitario, funzionali per gestire la manutenzione e il controllo dei segmenti del S.I.I. ove lo stesso non è stato ancora unitariamente affidato, come conferma Consiglio di Stato, n. 552 del 2011.
Nelle more dell’individuazione del gestore unico del servizio idrico integrato, permane pertanto la gestione preesistente alla costituzione dell’ente d’ambito, i singoli comuni continuano ad espletare il servizio attraverso le forme di gestione preesistenti e possono appaltare all’esterno servizi già svolti da ditte esterne, come pure appaltare lavori di straordinaria manutenzione di cui le reti idrica e fognaria necessitino (Consiglio di Stato, n. 299 del 2010).
La ratio di questa perdurante, anche se interinale, competenza discende dal fatto che la previsione delle competenze in materia di servizio idrico all’ATO non spoglia i Comuni dei propri poteri di controllo sulle matrici ambientali di interesse diretto della propria popolazione, perché gli ATO sono funzionali ad una delega di esercizio del potere, la cui titolarità viene sempre mantenuta in capo ai Comuni (legittimati alla tutela e quindi alla relativa azione in giudizio, dei diritti e degli interessi che attengono all’uso delle risorse idriche).
Infatti, l’art. 148 del D.Lgs. 152/06 che ha istituito l’Autorità d’ambito, ha attribuito a tale organismo il solo “esercizio” del servizio idrico integrato, mantenendone i costi di funzionamento integralmente, in capo ai Comuni che sono chiamati a farne parte, in quanto titolari della responsabilità sull’uso delle risorse (TAR Sicilia, n. 2241 del 2008).
Neppure l’abrogazione dell’Autorità d’ambito, va ribadito, spoglia i Comuni di detti poteri, in quanto all’ente responsabile dell’ATO è trasferito ancora l’esercizio del S.I.I. e non la sua titolarità, ciò che si evince anche dal fatto che esso è sempre vincolato dalla regola della collegialità e della sussidiarietà, come emerge anche dai primi modelli regionali (così, ad esempio, i riformati articoli 2, 48 e 49 della L.R. Lombardia n. 26 del 2003) con cui si è configurata la nuova figura dell’ente responsabile dell’ambito. Naturalmente il potere gestionale dei Comuni sui segmenti del S.I.I., in attesa del suo affidamento a livello d’ambito, va esercitato avendo cura di fare salve le successive determinazioni dell’ente responsabile dell’ambito, alla cui assunzione ogni diversa gestione frammentaria cade, con consegna in uso di reti e quant’altro al gestore.
Ciò è stato del resto chiarito in due distinte sedi, tanto al TAR (Lombardia, Brescia, n. 2238 del 2009) quanto al TSAP (n. 153 del 2010, questa a nostro avviso sede elettiva della materia) con pronunce che affermano come le determinazioni dell’Autorità d’ambito, secondo le regole della collegialità elaborate dalla Regione, assumano portata vincolante sull’intero territorio, talchè la singola amministrazione locale non può intraprendere percorsi autonomi e scegliere modalità di gestione diverse da quelle individuate dall’autorità. Torniamo però per un attimo alle competenze dei Comuni ante affidamento d’ambito, ed esaminiamo quali scelte possono in concreto essere le più frequenti: la prima è senz’altro quella della proroga, che però, per essere legittima, non cozzare contro il divieto di proroghe e rinnovi, e non precludere all’affidataria la partecipazione ad altre gare, deve essere disposta con ordinanza extra ordinem, che motivi sulla necessità di non causare interruzioni ad un servizio pubblico essenziale nelle more dell’affidamento d’ambito. Tale soluzione ha ricevuto l’avallo della giurisprudenza, che però ha chiarito come si debba prevedere quanto meno l’adeguamento delle tariffe all’inflazione, a pena del possibile ricorso della concessionaria (cfr. TAR Veneto, n. 2906 del 2010, TAR Napoli, n. 2232 del 2011, TAR Sicilia, n. 859 del 2011).
Ed ancora, come si diceva, sarà possibile una gara dall’oggetto limitato temporalmente sino all’affidamento del S.I.I. disposto dall’ATO. Infine si discute se sia ancora possibile ipotizzare una gestione in economia o con altre forme; per la prima, parrebbe di sì, per le altre, ad esempio l’azienda speciale, vi sono invece dubbi legati alla consolidata modifica del 113 e del 133-bis del T.U.E.L.
5) I criteri attuali per l’affidamento in house.
Per gli ATO che debbano ancora affidare il S.I.I., a questo punto ritornano attuali i criteri stabiliti per l’affidamento in house da quegli orientamenti giurisprudenziali comunitari e nazionali oramai consolidati, che pare opportuno ripercorrere nei tratti fondamentali.
Il primo criterio è quello della partecipazione pubblica totalitaria della stazione appaltante al capitale della società affidataria (C-26/03, Stadt Halle; C-295/05, Transformación Agraria SA (Tragsa); Cons. St., Sez. V, n. 7345/2005); condizione necessaria, ma non sufficiente (cfr., ex multis, Causa C-340/04, Carbotermo; Cons. St., Ad. Plen., n. 1/2008; Cons. St., Sez. VI, nn. 2932/2007 e 1514/2007).
Il secondo criterio è quello del c.d. controllo analogo: la società aggiudicataria deve essere soggetta ad un controllo analogo a quello che quest’ultima esercita sui propri servizi, per influenzare in modo determinante le decisioni concernenti sia gli obiettivi strategici sia le decisioni importanti della stessa società affidataria (cfr. Causa C-458/03, Parking Brixen e Causa C-371/05; Cons. St., Sez. V, n. 5/2007; Deliberazioni AVCP n. 12/2011 e nn. 46 e 54 del 2010; Corte Conti Lazio n. 327/11).
Il terzo criterio è quello dell’esclusione di vocazione commerciale: l’impresa non deve aver “acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo” da parte dell’ente pubblico, come invece si avrebbe nei casi, di ampliamento dell’oggetto sociale, o di espansione territoriale dell’attività della società (cfr. ex multis: C-458/03, Parking Brixen GmbH e C-29/04, Mödling o Commissione c/ Austria). A tal riguardo devono essere considerati, in particolare, l’ambito di riferimento materiale e geografico delle attività della società in house e le sue opportunità di stabilire relazioni con imprese private (AVCP 6/7/11).
E ancora, altro criterio è quello della prevalenza dell’attività con l’ente o con gli enti pubblici che controllano l’affidataria; quest’ultima infatti è istituzionalmente destinata in modo assorbente a operazioni a favore dell’ente concedente (TAR Campania, Sez. I, 30/3/2005, n. 2784; C-26/03, Stadt Halle). Per stabilire quando si realizzi tale prevalenza, si può fare ricorso analogico alle disposizioni comunitarie (art. 23 della direttiva 2004/17/CE) e di diritto interno derivato (art. 8, D.Lgs. n. 158/1995, di recepimento dell’art. 13 della precedente direttiva 93/38/CEE), che nei settori c.d. esclusi o speciali consentono alle amministrazioni aggiudicatrici di affidare direttamente appalti a imprese collegate a condizione che almeno l’80% del fatturato di dette imprese provenga da servizi, prodotti o forniture alle amministrazioni a cui sono collegate.
Infine vengono i criteri quali-quantitativi: quello del fatturato determinante, rappresentato da quello che l’impresa in questione realizza in virtù di decisioni di affidamento adottate dall’ente locale controllante. Non sono peraltro ammesse rigide predeterminazioni connesse all’indicazione della misura percentuale di fatturato rilevante; e ancora, a detti criteri appartengono tanto la valutazione delle risorse economiche impiegate, quanto quegli aspetti di natura qualitativa idonei a fare desumere, ad esempio, la propensione dell’impresa ad effettuare determinati investimenti di risorse economiche in altri mercati – anche non contigui – in vista di una eventuale espansione in settori diversi da quelli rilevanti per l’ente pubblico conferente (C. Cost. n. 439/08).
Da ultimo, ruolo cruciale assume la struttura organizzativa dell’affidataria, che deve consentire all’ente pubblico di esercitare la più totale ingerenza e controllo sulla sua gestione nonché sull’andamento economico-finanziario e gestionale, in considerazione della composizione e nomina degli organi sociali. Ciò si realizza, ad esempio, nei casi in cui sia prevista un’assemblea – cui spetta il potere di approvare il bilancio e la nota integrativa, di decidere sulla destinazione degli utili sociali nonché sullo scioglimento e sulla liquidazione della società – costituita dalla universalità dei soci, in modo che l’ente può controllare interamente la gestione societaria; un consiglio di amministrazione in cui spetta all’ente la nomina del Presidente (che ha la rappresentanza della società ed il potere di presiedere l’assemblea dei soci) nonché di uno o due componenti (qualora l’organo sia costituito da tre o cinque membri), garantendogli così la maggioranza; un collegio sindacale in cui lo statuto riserva al Comune la nomina di due componenti effettivi su tre, oltre di un membro supplente.
6) I limiti posti dalla nuova riforma anche al S.I.I.
L’effetto abrogativo del referendum sull’art. 23-bis ha avuto un impatto però non solo sul S.I.I.; ma su tutti i servizi pubblici locali, ragion per cui si è reso necessario procedere all’introduzione di una nuova disciplina sostitutiva delle disposizioni caducate; naturalmente eccezion fatta per il S.I.I. A ciò ha provveduto il D.L. 138/11, convertito in L. 148 del 2011, all’art. 4, che in una molteplicità di commi configura nuovamente il sistema di gestione dei servizi pubblici locali, aprendo un limitatissimo spazio all’affidamento in house, pur mantenendo un favor generale per la gara.
Tali disposizioni non si applicano al S.I.I., nel rispetto del contenuto dei quesiti referendari, ad eccezione dei commi da 19 a 27, che dettano – anche per il settore in esame – una serie di rigide incompatibilità per amministratori, dirigenti, responsabili degli uffici o dei servizi, consulenti dell’ente locale, e loro parenti, estesa al triennio, come pure incompatibilità ed esclusioni per i componenti della commissione di gara per l’affidamento della gestione di servizi pubblici locali. Sono disposizioni quanto mai opportune poiché volte ad evitare opportunamente, specie nel caso di affidamento in house, commistioni e prese di interesse che non rispondano ad esigenze statutarie.
Occorre infine tenere presente che dovrà essere fatta particolare attenzione, nella costituzione di società pubbliche destinatarie dell’affidamento in house del S.I.I., ovvero nell’utilizzo di altri soggetti pubblici già esistenti, ai limiti previsti dal c.d. decreto Bersani che è stato stabilito, dalla recente Adunanza Plenaria n. 17 del 2011, applicarsi anche alle società di terzo grado, controllate da società strumentali e costituite con capitale di queste ultime per la partecipazione a gare ad evidenza pubblica altrimenti precluse alla controllata in quanto dotata di una posizione di vantaggio sul mercato.
* Avvocato in Bergamo