La distruzione o il deterioramento di habitat in sito naturale protetto: la tutela penale tra rilievi comunitari e deficit di offensività.
SALVATORE RUBERTI
Introduzione
Il processo sul noto caso della nave “Concordia” ha segnato un significativo momento quando, durante l’udienza per l’incidente probatorio, il Pubblico Ministero ha formulato un nuovo capo d’accusa nei confronti del Comandante della nave e degli altri ufficiali di bordo.
L’ufficio dell’accusa ha ritenuto che ricorressero le circostanze per aggravare l’impianto accusatorio nei confronti degli indagati e per contestare agli stessi anche il reato ex art. 733bis cod. pen.
Gli indagati, adesso, dovranno rispondere anche di distruzione o deterioramento di habitat in sito naturale protetto in quanto l’azzardata manovra del natante ha rimosso via lo scoglio de “Le Scole” e ha danneggiato il fondale davanti al porto del Giglio.
Si tratta di una delle prime volte in cui l’illecito penale in oggetto viene contestato essendo, del resto, un reato relativamente nuovo introdotto con il D. Lgs n. 121 del 7 luglio 2011.
La nuova disposizione normativa rientra nel titolo II del libro III del Codice penale relativo alla contravvenzioni concernenti l’attività sociale della Pubblica amministrazione; la collocazione del nuovo articolo si spiega in ragione dell’interesse dello Stato al mantenimento dello stato di conservazione di un habitat.
Il nuovo articolo del codice penale tutela l’interesse della collettività a godere ed usufruire delle aree protette ed in particolare, degli habitat considerati nella loro piena integrità ed incontaminatezza.
Il legislatore delegato ha operato una scelta di fondo che apporta due novità nell’Ordinamento penale italiano: viene dilatato il numero dei reati contravvenzionali in materia ambientale e viene estesa la responsabilità penale degli enti ai reati ambientali e alla nuova fattispecie prevista dall’articolo 733bis cod. pen.
1. I riferimenti alla legislazione comunitaria
La determinazione dell’esatta portata della fattispecie penale comporta, per l’interprete, la definizione degli elementi costitutivi e descrittivi del reato; in primis, l’oggetto coperto da tutela penale ossia il concetto di “habitat all’interno di un sito protetto.”
Il Decreto legislativo n. 121 del 7 luglio 2011 rappresenta la trasposizione di principi e criteri dettati a livello comunitario; sono proprio i concetti e le definizioni statuiti dalla normativa comunitaria a rappresentare i fondamentali criteri dei quali deve avvalersi l’interprete per determinare la portata applicativa della disposizione ed il suo ambito di operatività; ma ciò non agevola necessariamente il compito dell’interprete perché alcuni problemi di fondo continuano a sussistere e non si prospetta una facile soluzione.
Procediamo, comunque, con ordine; il Decreto legislativo n. 121 del 7 luglio 2011 fornisce le prime essenziali indicazioni: il preambolo del Decreto richiama la direttiva 2008/99/CE titolata “sulla tutela penale dell’ambiente”.
Dai consideranda della suddetta direttiva emerge la posizione assunta dagli organi comunitari rispetto agli illeciti penali che offendono l’ambiente.1
Si può, quindi, affermare: che la Comunità europea è consapevole del grave problema dell’aumento e della diffusione, oltre i confini nazionali, dei reati ambientali; che la violazione dell’obbligo di agire in difesa dell’ambiente è equiparato ad un qualsiasi comportamento attivo che deturpa e danneggia l’ecosistema ed, infine, che la direttiva 2008/99/CEE obbliga (come si legge nel 10° consideranda) gli Stati membri ad inserire, nelle rispettive legislazioni nazionali, sanzioni di natura penale per punire le gravi violazioni delle disposizioni del diritto comunitario in materia di tutela dell’ambiente.
Il legislatore nazionale ha formulato il nuovo articolo del codice penale 733bis in evidente risposta all’esigenza di criminalizzazione della condotta indicata alla lettera h, articolo 3 direttiva 2008/99/CEE estendendone l’ambito applicativo anche alla distruzione (oltre che qualsiasi azione che provochi il significativo deterioramento di un habitat all’interno di un sito protetto).
Da un punto di vista dottrinale, si tratta di un caso di imposizione di criminalizzazione da parte dell’ordinamento comunitario; un tempo, ciò avrebbe sollevato problemi di incompatibilità con il principio di legalità.2
Questo perché gli unici atti legislativi di matrice comunitaria potevano imporre la criminalizzazione solo delle condotte offensive degli interessi comunitari inerenti alle materie un tempo facenti parte del cosiddetto terzo pilastro, ossia: terrorismo, tratta di essere umani, reati contro i minori, traffico di droga e armi, corruzione e frode.
Come si vede, però, non vi rientravano le tematiche ambientali quindi la “scusante” del terzo pilastro non avrebbe consentito di superare i rilievi di contrasto con il principio di legalità.
Sull’argomento è risultato provvidenziale l’intervento della la Corte di Giustizia che, con la sentenza del 13 settembre 2005 (C-176/03), ha messo in discussione il principio dell’ammissibilità di obblighi di criminalizzazione da parte dell’Unione europea solo nelle materie ex terzo pilastro.
I giudici comunitari, nell’annullare la Decisione quadro 2003/80/GAI (relativa alla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale), hanno stabilito che il diritto comunitario, pur non potendo essere fonte diretta di norme penali, può comunque emettere obblighi di natura penale per le materie di sua competenza.
La direttiva 2008/99/CE è “figlia” della sentenza della Corte di Giustizia del 13 settembre 2005 perché, con “l’approvazione” dei giudici comunitari, impone obblighi di criminalizzazione agli Stati membri per garantire l’attuazione ed il rispetto delle normative comunitarie.
Del resto, già in altre occasioni, la Corte di Giustizia aveva affermato la necessità che le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente fossero integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e delle azioni comunitarie; ciò rappresenta l’ulteriore conferma del carattere trasversale e fondamentale di tale obiettivo in linea con la consolidata giurisprudenza comunitaria per la quale è pacifico che la tutela dell’ambiente costituisca uno degli obiettivi essenziali della Comunità.3
Proseguendo nell’analisi delle direttive richiamate dal D.Lgs. n. 121 del 2001, il legislatore delegato ha operato la trasposizione, nell’ordinamento interno, delle finalità poste anche dalla direttiva 2009/123/CE.
Quest’ulteriore atto comunitario presenta un carattere di specialità in quanto posto a tutela degli ambienti marini dallo scarico di sostanze e liquidi inquinanti e nocivi derivanti, soprattutto, dalla navigazione marittima.
A differenza della direttiva 2008/99/CE (fattispecie di criminalizzazione imposta dell’ordinamento comunitario), la direttiva sulla tutela penale dell’ambiente marino costituisce una scelta di criminalizzazione indotta dal legislatore comunitario: la direttiva 2009/123/CE induce, gli Stati membri, ad emanare sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive in una data materia lasciando, comunque, all’autorità nazionale la decisione finale sul tipo di sanzione da introdurre se, cioè, amministrativa o penale.
La direttiva in oggetto se da un lato esorta lo Stato membro a sanzionare le condotte che arrecano nocumento agli ambienti acquatici, è pur vero, che dall’altro lato, “persuade” il legislatore nazionale sull’opportunità di ricorrere alla tutela penale ricordando che: Le sanzioni penali, che indicano una disapprovazione sociale qualitativamente diversa rispetto alle sanzioni amministrative, rafforzano il rispetto della normativa in vigore sull’inquinamento provocato dalle navi e dovrebbero rivelarsi sufficientemente severe da scoraggiare i potenziali inquinatori dal commettere qualsiasi violazione (6° consideranda).
La direttiva 2009/123/CE presenta un’altra importante caratteristica: la sua disciplina è retta dall’ulteriore principio “chi inquina paga” già codificato dal Trattato di Lisbona all’art. 191.
Sarebbe opportuno, afferma l’atto di diritto comunitario, condannare penalmente sia chi con un solo atto o omissione di evidente gravità provoca una distruzione o un’alterazione dell’habitat in zona protetta, ma dovrebbe essere penalmente punito anche chi commette reati di minore entità che si verificano ripetutamente e che provocano, non singolarmente bensì nel loro insieme, un deterioramento della qualità dell’acqua.
Abbiamo, dunque, assodato che la tecnica di prevenzione e contrasto dei reati ambientali adottata a livello comunitario beneficia del parere favorevole della Corte di Giustizia la quale fornisce un ulteriore elemento a supporto delle fattispecie incriminanti imposte o indotte dall’Unione europea agli Stati membri; infatti, l’ordinamento comunitario conosce anche il principio della “non discriminazione” ( o di assimilazione) creato dalla Corte di Giustizia e che rappresenta un naturale corollario del principio della leale collaborazione.4
È indubbio che sulla base delle argomentazioni della Corte di Giustizia in ordine al principio di non discriminazione appare più agevole legittimare anche l’imposizione di una fattispecie incriminatrice da parte dell’ordinamento comunitario.
Alla luce dei richiamati principi di leale collaborazione e di non discriminazione, gli Stati membri sono tenuti a tutelare un interesse di rilevanza comunitaria con le stesse misure afflittive con le quali si puniscono le condotte interne lesive dei medesimi interessi; se lo Stato italiano ricorre alla tutela penale per preservare e conservare l’ambiente naturale, paesaggistico e la flora e la fauna tipica, l’ordinamento italiano deve ricorrere alla sanzione penale anche per la tutela dei medesimi interessi e beni giuridici dei quali le varie direttive (Habitat e tutela penale dell’ambiente su tutte) ne determinano la valenza comunitaria.5
Esaurita l’argomentazione in merito ai richiami sugli aspetti generali della disciplina penale in oggetto, si può passare all’analisi degli aspetti costitutivi del reato ex art. 733bis cod. pen. sui quali si avverte, in misura ancora maggiore, l’influenza del diritto comunitario ed il necessario richiamo alle diverse direttive.
Tutto ciò rileva, in particolare, sulla definizione, da un punto di vista giuridico, del concetto di habitat.
Il riferimento indispensabile è la direttiva 92/43/CEE (direttiva Habitat) quale atto strumentale al raggiungimento di un giusto equilibrio tra le esigenze economiche e sociali e la conservazione delle biodiversità e degli ambienti specifici di determinate razze di animali o tipi di piante selvatiche.
La direttiva 92/43/CEE definisce gli habitat naturali come le zone terrestri o acquatiche che si distinguono in base alle loro caratteristiche geografiche, abiotiche e biotiche, interamente naturali o seminaturali; l’habitat di una specie animale corrisponde, invece, all’ambiente definito da fattori abiotici e biotici specifici in cui vive la specie in una delle fasi del suo ciclo biologico.
La distruzione dell’habitat configura il reato ex art. 733bis cod. pen.; cosa debba configurarsi con l’evento distruzione è un dato abbastanza pacifico ed attiene, sicuramente, ad un nocumento a causa del quale non è più possibile ripristinare la situazione ambientale iniziale.
Da un punto di vista scientifico, la distruzione dell’habitat rappresenta quel processo dinamico di origine antropica attraverso il quale un’area naturale subisce una suddivisone in frammenti più o meno disgiunti e progressivamente più piccoli ed isolati.
Ma l’illecito penale si consuma anche quando viene alterato lo stato di conservazione dell’habitat; si tratta di un accadimento che richiede una maggiore specificazione e descrizione: a tal fine, risulta maggiormente indispensabile il richiamo alla direttiva 92/43/CEE per l’individuazione dell’oggetto materiale sul quale ricadono gli effetti dannosi della condotta punita.
In primis, la suddetta direttiva serve a definire il concetto di “conservazione” inteso, dal legislatore comunitario, non come un concetto statico bensì come un agere, ossia…un complesso di misure necessarie per mantenere o ripristinare gli habitat naturali e le popolazioni di specie di fauna e flora selvatiche in uno stato soddisfacente (articolo 1, direttiva 92/43/CEE).
Definito il concetto di “conservazione” la direttiva “Habitat” specifica l’ulteriore concetto di “stato di conservazione” definito come l’effetto della somma dei fattori che influiscono sull’habitat naturale in causa, nonché sulle specie tipiche che in esso si trovano, che possono alterare a lunga scadenza la sua ripartizione naturale, la sua struttura e le sue funzioni, nonché la sopravvivenza delle sue specie tipiche nel territorio (l’articolo 1, lettera e, direttiva 92/43/CEE).
Lo stato di conservazione deve essere “sufficiente;” la sufficienza rappresenta una sorta di soglia al di sotto della quale si può configurare uno stato di alterazione.
Ai sensi della direttiva “Habitat,” lo stato di conservazione non è più sufficiente quando la sua area di ripartizione naturale e le superfici che comprende subiscono una contrazione spaziale rispetto alla situazione normale; oppure, quando vengono meno la struttura e le funzioni specifiche necessarie al suo mantenimento o quando non è più possibile garantire la loro esistenza in un futuro prevedibile.
La casistica, a riguardo, può essere ampia: si pensi al caso di un’opera di bonifica di una zona paludosa o la costruzione, a monte, di una diga che riduca drasticamente l’approvvigionamento idrico a valle.6
Infine, con riferimento in particolare alla fauna tipica, lo stato di conservazione di un habitat è deteriorato e compromesso quando la popolazione animale comincia a diminuire di numero e a non rappresentare più un elemento vitale dell’habitat naturale a cui appartiene; si assiste al declino dell’area di ripartizione naturale della specie tipica del luogo e non è più garantito, per il futuro, un habitat sufficiente affinché le popolazioni animali si mantengano a lungo termine.
Il legislatore nazionale ha previsto che l’habitat sia ubicato all’interno di un sito protetto.
I siti qualificati come zone speciali di conservazione sono indicati e designati dagli Stati membri ai sensi dell’articolo 4 della direttiva 92/43/CEE; in taluni casi straordinari (come il mantenimento di un tipo di habitat naturale prioritario, la necessità di garantire la sopravvivenza di una specie prioritaria; l’inerzia dello Stato membro) sono autorità comunitarie ad individuare i siti da proteggere.7
Appare evidente che si tratta di zone dove l’intervento dell’uomo è, a priori, alquanto limitato, e circoscritto ai soli interventi necessari per la tutela del luogo; comunque, qualsiasi attività umana potrà essere esperita solo dopo una valutazione sull’impatto ambientale che la stessa comporta.
La Corte di Giustizia è stata categorica nell’affermare che l’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva 92/43/CEE deve essere interpretato nel senso che non consente a un’autorità nazionale, sia pure legislativa, di autorizzare un piano o un progetto senza aver avuto la certezza che esso non pregiudicherà l’integrità del sito in causa.8
2. gli elementi costitutivi del reato
2.1 il soggetto attivo
Qualsiasi soggetto è potenzialmente idoneo a commettere una condotta che configuri un reato ex art. 733bis cod. pen.
Il D.Lgs. 121 del 2011 estendendo la responsabilità degli enti anche ai reati ambientali, ha di fatto previsto che del medesimo reato ne possano rispondere anche i complessi societari(art. 2, comma II, lettera b, D.Lgs. n. 121/2001).9
Quindi, tutte le persone, sia fisiche che giuridiche, sono potenziali centri di imputazione della capacità penale in ordine al reato di distruzione o deterioramento di habitat in sito naturale protetto.
L’estensione della responsabilità penale degli enti anche in ordine ai reati ambientali e al reato di cui all’articolo 733bis cod. pen. rappresenta un notevole passo in avanti verso la tutela dell’ambiente, degli ecosistemi e delle biodiversità.
Prevalgono, anche in questa sede, i richiami di natura comunitaria: la direttiva 2008/99/CEE, fattispecie di criminalizzazione imposta dall’ordinamento comunitario, prevede che gli Stati membri si attivino per configurare la responsabilità delle persone giuridiche (leggi: enti) per i reati già richiamati dalla direttiva quando il soggetto attivo dell’illecito penale coincida con una persona che occupa una posizione preminente (leggi: apicale) e abbia agito nell’interesse della persona giuridica (articoli 6 e 7 direttiva 2008/99/CEE).
L’ordinamento italiano già prevedeva la disciplina della responsabilità penale degli enti; il legislatore delegato, dopo aver formulato il nuovo articolo 733bis cod. pen. ( in ottemperanza all’obbligo di criminalizzazione della figura di reato ex lettera h, articolo 3 direttiva 2008/99/CEE) ha esteso la responsabilità degli enti alla nuova figura di illecito penale (oltre agli altri reati ambientali).
Il D.Lgs. n. 231 del 2001, articolo 5 richiede che il reato sia commesso nell’interesse dell’ente o che dall’illecito penale la società ricavi un vantaggio.
In altre parole, interesse e vantaggio si devono intendere con un indiretta conseguenza della condotta dell’autore del reato che si proietta su un soggetto diverso dal colpevole.10
Bisogna quindi distinguere due casi: la distruzione o deterioramento di habitat in sito naturale protetto può avvenire nell’interesse dell’ente ma senza che lo stesso tragga un vantaggio; oppure, l’autore del reato agisce per un proprio interesse che, se realizzato, è fonte di un vantaggio per la persona giuridica.
Ci si può chiedere se nel caso della commissione del reato ex articolo 733bis cod. pen. si possano configurare tutte e due le questioni.
Si consideri il caso di un vantaggio per l’ente; sicuramente il riferimento primo è a un vantaggio di natura finanziaria come: i risparmi economici che l’organizzazione societaria può conseguire smaltendo rifiuti pericolosi in modo illegale; la mancata adozione delle opportune misure anti inquinamento (dovute per legge) che consente di tagliare spese rilevanti per la società a fronte dell’incontrollata immissione di sostanze inquinanti nell’atmosfera e nel sottosuolo mettendo a rischio di disastro ambientale habitat collocati anche a diversi chilometri di distanza da dove sono ubicati gli impianti societari.
Il vantaggio può realizzarsi anche non provvedendo alle spese dovute per l’adeguamento dei sistemi di depurazione o di controllo delle immissioni, si pensi ai filtri delle ciminiere che se non adeguati o non collocati in modo opportuno non riescono a bloccare o contenere il rilascio in dosi pericolose di sostanze come la diossina.
Quindi, è evidente che nel reato ex art. 733bis cod. pen. il concetto di “vantaggio” si articola, più che in un profitto, in uno specifico abbattimento dei costi di produzione.
Se si accetta la tesi per cui interesse e vantaggio sono sinonimi non ne deriverebbero problemi interpretativi ma, in tal caso, la scelta del legislatore di configurare il privilegio conseguito dall’ente sotto un doppio ma medesimo aspetto non avrebbe senso.
Comunque, rifacendosi al testo normativo, emerge che l’aver agito nell’esclusivo interesse proprio o di terzi non comporta alcun addebito per l’ente; quindi, si potrebbe ipotizzare una scale gerarchica tra “interesse” e “vantaggio:” se l’autore ha agito nell’interesse dell’ente, il complesso societario ne risponde anche in assenza di un concreto vantaggio; diversamente, se la persona fisica rea dell’illecito ha operato per interesse suo o di terzi (ma non dell’ente) la persona giuridica non ne risponderà penalmente anche se dalla consumazione del reato ne è scaturito un vantaggio.
Ma la questione è tutt’altro che pacifica perché sorge il problema di coordinare il caso di esclusione della responsabilità societaria, ex art. 5 D.Lgs. n. 231 del 2001, con la lettera a del comma 1, articolo 12 del medesimo decreto legislativo.
Secondo quest’ultima disposizione, la sanzione è ridotta della metà se l’autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo.
Resta, comunque, la possibilità per l’ente di non incorrere in sanzioni penali adottando modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire il reato ex art. 733bis cod. pen. e garantendone l’applicazione e la costante vigilanza.
Senza pretese di completamento, si può comunque accennare a quelle che possono essere i criteri direttivi per l’adattamento o la configurazione di un modello aziendale ex art. 6 del d.L.gs n. 231 del 2001 idoneo alla prevenzione dei reati ambientali compreso l’illecito ex art. 733bis cod. pen.
In primis, l’ente deve individuare quei rami d’azienda o quelle attività che potenzialmente possono portare alla distruzione o al deterioramento di un habitat.
All’interno di tali attività, il modello potrebbe indicare, a titolo esemplificativo e non tassativo, esempi di condotte che, se attuate possono avere le ripercussioni sull’habitat vietate dall’articolo 733bis cod. pen.
Tali valutazioni possono anche basarsi su esperienze pregresse o su casi riguardanti altri complessi aziendali simili.
Una precisa valutazione pregressa dell’impatto ambientale di ogni attività dell’ente, fornirà le ultime utili informazioni per l’organismo di vigilanza e per l’attuazione delle dovute attività di controllo e di monitoraggio.
2.2 la condotta
Le condotte punite sono quelle che presentano gli adeguati connotati per configurarsi come un’azione che provochi il significativo deterioramento di un habitat all’interno di un sito protetto (art. 3, lett. h), direttiva 2008/99/CE.
Ai fini della configurabilità del reato in esame, può essere utile richiamare la disposizione contenuta
nell’art. 302 del Decreto legislativo n. 152 del 2006 (norme in materia ambientale), secondo cui …Lo stato di conservazione di un habitat naturale è considerato favorevole quando: a) la sua area naturale e le zone in essa racchiuse sono stabili o in aumento; b) le strutture e le funzioni specifiche
necessarie per il suo mantenimento a lungo termine esistono e continueranno verosimilmente a esistere in un futuro prevedibile; e c) lo stato di conservazione delle sue specie tipiche è favorevole, ai sensi del comma 1”11
Il richiamo della direttiva 92/43/CEE ad un concetto di conservazione “dinamico” (adozione delle misure e delle opere necessarie per la tutela del sito protetto) codifica l’osservanza dell’obbligo dell’integrità e della conservazione degli habitat delle zone tutelate; ciò rappresenta l’evidente assunto che il reato può configurarsi sia tramite un’azione sia come conseguenza di una condotta omissiva (ad esempio, mancata vigilanza o mancato intervento).
A tale riguardo, La Cassazione penale, in un caso che riguardava l’art. 733 cod. pen. inserito del medesimo titolo del reato di distruzione o deterioramento di habitat all’interno di un sito protetto, ha espresso e specificato un concetto che può risultare compatibile con una condotta che configuri il reato ex art. 733bis cod. pen.; la Suprema Corte ha, infatti, ravvisato che l’evento lesivo dell’oggetto materiale può verificarsi sia attraverso un solo atto, istantaneamente, sia attraverso un comportamento continuo e prolungato, attivo o inerte, come per esempio il persistente stato di abbandono, tale da lasciare il bene materiale privo di ogni tutela da aggressioni umane (cosiddetto vandalismo) o da elementi chimico fisici.12
A questo punto è necessaria una precisazione in merito all’opera del legislatore nazionale di trasposizione della normativa comunitaria nell’ordinamento interno.
Il legislatore italiano ha trovato difficoltà nell’adottare il concetto di “significativo deterioramento” previsto dalla normativa comunitaria.
Per questo motivo, nell’elaborazione del nuovo articolo 733bis del codice penale, è stato eliminato (su richiesta dalle competenti Commissioni parlamentari in sede di espressione del prescritto parere sul testo) il riferimento ad una distruzione o deterioramento “significativo” dell’habitat in quanto non erano sufficientemente garantiti i principi di tassatività e determinatezza della fattispecie penale.
La versione ultima del nuovo articolo, però, non supera tutti i dubbi e le incertezze in ordine all’individuazione precisa del reato; permangono, in particolare, i dubbi circa il livello di offensività (della condotta) richiesto.
Per essere più precisi, ciò che pone legittimi dubbi agli interpreti, non riguarda il principio di offensività in astratto che trova espressione nel secondo comma dell’articolo 25 della Costituzione.
Il principio di offensività così inteso, infatti, esige che vengano punite quelle condotte che sono caratterizzate da un particolare disvalore ossia quello di ledere o mettere in pericolo un bene costituzionalmente garantito; la tutela dell’ambiente, come è pacificamente ammesso in dottrina e giurisprudenza, è garantito e tutelato dall’articolo 9 della Costituzione e rappresenta, inoltre, un interesse di rilevanza comunitaria.
I rilievi di criticità si concentrano, quindi, sull’offensività intesa in senso concreto: è necessario che l’offesa sia ravvisabile almeno in un “grado minimo” nella condotta dell’agente; non si è in presenza, se manca un grado minimo e concreto di offensività, di alcuna questione di rilevanza costituzionale ma implica un giudizio di merito rimesso al giudice il quale, (è abbastanza palese) non ha a disposizione adeguati e idonei criteri per svolgere quell’attività interpretativa – applicativa che gli compete.13
È evidente, a questo punto che il legislatore delegato ha tentato di rendere, perlomeno, più ampio e chiaro possibile l’ambito di applicazione del nuovo articolo del codice penale specificando (art. 1, comma III, D.Lgs. n. 121 del 2011) che… Ai fini dell’applicazione dell’articolo 733-bis del codice penale per “habitat all’interno di un sito protetto” si intende qualsiasi habitat di specie per le quali una zona sia classificata come zona a tutela speciale a norma dell’articolo 4, paragrafi 1 o 2, della direttiva 2009/147/CE, o qualsiasi habitat naturale o un habitat di specie per cui un sito sia designato come zona speciale di conservazione a norma dell’art. 4, paragrafo 4, della direttiva 92/43/CE.
Per quanto riguarda il tipo di reato, l’illecito penale ex art. 733bis cod. pen. sicuramente può essere un reato istantaneo: l’offesa al bene giuridico titolato coincide e si esaurisce con l’azione del soggetto.
Secondo il principio “chi inquina paga” richiamato soprattutto dalla direttiva 2009/123/CE la distruzione o il deterioramento di un habitat in zona protetta può avvenire con un solo atto come anche con diverse azioni (o omissioni) perpetrate nel tempo ad intervalli più o meno regolari; così lo sversamento di una certa quantità di una sostanza tossica, ad esempio, in un lago potrebbe non comportare alcun danno o un’offesa tale da configurare un reato ma se la stessa quantità di agente inquinante viene sistematicamente riversata nell’acqua è evidente che con il tempo ben si potrebbe comportare una distruzione o l’alterazione dell’habitat ex art. 733bis cod. pen.14
Si ritiene che il reato in oggetto ben si può qualificare, quindi, anche come reato permanente in quanto si può configurare con il protrarsi nel tempo dell’offesa al bene giuridico e la persistente condotta volontaria del reo il quale preserva il pieno potere di interrompere la situazione antigiuridica.
Magari è un rilievo non adatto al caso di distruzione dell’habitat ma ben si può adattare al caso di deterioramento o compromissione dello stato di conservazione che si configura con il ripetersi di azioni o omissioni volontarie compatibili con la condotta richiesta dalla norma incriminatrice.
2.3 la scriminante
La persona fisica o giuridica alle quali sono riconducibili condotte che configurino un reato ex art. 733bis cod. pen. risponde del reato solo qualora tali comportamenti siano attuati…al di fuori dei casi consentiti.
Si è in presenza di una scriminate o causa di giustificazione: una condotta ascrivibile alla fattispecie ex art. 733bis cod. pen. sarà considerata ab origine lecita perché vi sono delle disposizioni di legge che autorizzano o impongo (i casi consentiti, appunto) la realizzazione di un fatto penalmente rilevante.
Più precisamente, si tratta di una causa di giustificazione speciale perché riferita alla singola fattispecie di reato della distruzione o deterioramento di habitat in sito naturale protetto.
Nell’orientamento dottrinale maggioritario (che, nel qualificare le scriminanti ricorre alla cosiddetta teoria del modello esplicativo di tipo pluralistico) la causa di giustificazione in oggetto va ricondotta al cosiddetto principio dell’interesse prevalente: esso si concretizza in una comparazione tra l’interesse tutelato dalla norma penale e quello posto alla base della scriminante.
La questione assume, come meglio si può evincere dalle successive argomentazioni, una diversa valenza perché più che di contrasto tra due principi si potrebbe parlare di coincidenza tra i due principi o, meglio, dell’esigenza di tutela di un bene giuridico che potrebbe anche dover comportare un’attività offensiva o invasiva sul bene stesso.
L’inciso “fuori dai casi consentiti” non deve, perciò, lasciare dubbi interpretativi a fronte dell’importanza del bene giuridico tutelato.
A parere di chi scrive, non appare logico prospettare un caso consentito di distruzione di un habitat ubicato, per giunta, in una zona protetta; a dire il vero, non appare configurabile nessuna azione legittimamente autorizzata o giustificata che si configuri come la condotta incriminata dall’art. 733bis cod. pen.
Quindi, per trovare un senso giuridico all’espressione in oggetto appare opportuno richiamarsi al quel concetto comunitario “dinamico” di stato di conservazione inerente a quel complesso di misure necessarie per mantenere o ripristinare gli habitat naturali e le popolazioni di specie di fauna e flora selvatiche in uno stato soddisfacente (articolo 1, direttiva 92/43/CEE).15
Alla luce di questo concetto, diventa più agevole dipanare la questione: i casi consentiti, innanzitutto, devono essere quelli previsti per legge e non possono concretizzarsi in condotte poste dal di fuori delle azioni necessarie per la tutela dell’habitat stesso.16
Viene in rilievo l’articolo 16 della direttiva 92/43/CEE: la disposizione consente delle deroghe ai divieti imposti dai precedenti articoli della direttiva purché siano soddisfatte tre condizioni: 1) non è possibile ricorrere ad azioni diverse e non invasive; 2) non venga alterato il grado di sufficienza dello stato di conservazione; 3) si agisca per uno dei motivi indicati nel comma I dell’articolo 16 direttiva 92/43/CEE.
A scopo illustrativo si richiamano: motivi di tutela della fauna e della flora per proteggere l’integrità dell’habitat; azioni di prevenzione di gravi danni, segnatamente alle colture, all’allevamento, ai boschi, al patrimonio ittico e alle acque e ad altre forme di proprietà (il contenimento, ad esempio, del numero di specie animali il cui numero sovrabbondante induce le bestie a devastare le coltivazioni in cerca di sostentamento); motivi di sicurezza pubblica e per motivi sanitari o per altri interessi di rilevo pubblico (su tutte le azioni di profilassi degli animali contro malattie infettive e pericolose per l’uomo come la rabbia); per finalità didattiche, infine, potrebbe esser consentito la cattura e la selezione di piante ed animali ma sempre con l’imperativo scopo di tutela e di ripristino delle condizioni ambientali (si pensi all’indispensabile ripopolamento di alcune aree gravemente compromesse da sregolate battute di caccia).17
Un altro caso consentito che agisce da scriminante è codificato dalla direttiva 2008/99/CE articolo 3, lettera f che introduce, invero, un nuovo concetto che comporta ulteriori problemi interpretativi e rilievi di contestazione in ordine alla tassatività e determinatezza della fattispecie penale.
La disposizione in questione afferma che non si incorre in sanzioni penali qualora l’uccisione, la distruzione, il possesso o il prelievo di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette, salvo i casi in cui l’azione riguardi una quantità trascurabile di tali esemplari e abbia un impatto trascurabile sullo stato di conservazione della specie.
I concetti di “quantità” e di “impatto” “trascurabile” non sono criteri di facile definizione e di incontrovertibile applicazione.
Ad esempio, il concetto di quantità trascurabile è un concetto relativo sia in ordine alle diverse specie animali e vegetali sia rispetto alle diverse aree sottoposte a tutela e vincoli.
Inoltre, anche valutare la trascurabilità dell’impatto che un azione o omissione potrebbe avere su di un habitat è allo stesso modo un ulteriore ostacolo per un’interpretazione soddisfacente della fattispecie penale;la funzione dell’autorità giudicante potrebbe risultare di non facile espletamento.
Considerazioni conclusive
Una nave da crociera di una delle più prestigiose società di navigazione entra in collisione con un scoglio di fronte ad una delle più suggestive isole italiane nel tentativo maldestro di “fare l’inchino” quale gesto di omaggio alla popolazione costiera.
Il tragico evento segna l’esordio, nelle aule di tribunale, di una nuova figura di reato introdotta con D.Lgs. n. 121 del 2001: la distruzione o deterioramento di habitat all’interno di un sito protetto ex art. 733bis cod. pen.
Le bellezze naturali e le biodiversità sviluppate nei loro diversi habitat ricevono una più rafforzata tutela con la nuova fattispecie penale che, inoltre, estende anche la responsabilità penale degli enti per i reati ambientali ad una nuova fattispecie delittuosa.
Il (relativamente) nuovo reato appare decisamente interessante sotto l’aspetto dottrinale perché rappresenta la trasposizione nell’ordinamento italiano di un esteso numero di principi di natura comunitaria sanciti da tre direttive.
La prima direttiva è la n. 2008/99/CE titolata “sulla tutela penale dell’ambiente”; l’atto legislativo dell’Unione europea costituisce un caso di imposizione di criminalizzazione da parte dell’ordinamento comunitario che non poteva sfuggire a rilievi di contestazione in ordine alla sua evidente incompatibilità con il principio di legalità.
La questione avrebbe avuto lunghi strascichi già prima dell’entrata in vigore del reato ex art. 733bis cod. pen. in quanto la materia penale non rientrava nel cosiddetto terzo pilastro.
Si è così reso indispensabile l’intervento della Corte di Giustizia che con la sentenza del 13 settembre 2005 (C-176/03) ha sancito il potere degli organi comunitari di imporre criminalizzazioni qualora ciò sia indispensabile per assicurare il rispetto delle normative dell’Unione europea nelle materie di valenza comunitaria (e non solo quelle che rientravano nell’ormai rimosso terzo pilastro).
Nessun problema in ordine alla trasposizione della seconda direttiva che viene in rilievo, la direttiva n. 2009/123/CEE che da un lato rappresenta una scelta di criminalizzazione che rimette al legislatore nazionale la decisione finale in ordine alla natura della sanzione da adottare, se cioè penale o amministrativa e dall’altro sancisce e consente di trasportare negli ordinamenti nazionali il principio “chi inquina paga”.
la cosiddetta direttiva “Habitat” n. 92/43/CEE rappresenta, invece, il giusto riferimento per la definizione degli aspetti costitutivi ed essenziali della fattispecie che, come visto, però per quanto estesa ed analitica non risolve alcuni essenziali quesiti in ordine soprattutto alla “quantità” di offesa a cui l’habitat deve essere esposto perché ricorra la necessaria tutela penale.
La definizione esatta degli elementi descrittivi della condotta comporta non pochi problemi ed evidenzia quegli aspetti della disciplina in oggetto dove la successiva giurisprudenza ed eventuali interventi correttivi del legislatore, dovranno necessariamente segnare i criteri netti e precisi onde definire l’esatta portata e significato del reato ex art. 733bis cod. pen.
Uno dei primi problemi che si è prospettato al legislatore delegato ha riguardato l’esatta trasposizione del concetto di “significativo deterioramento.”
La soluzione adottata è stata quella di eliminare il riferimento al suddetto assunto onde evitare che la fattispecie penale prospettasse carenze sotto l’aspetto della tassatività e della determinatezza.
Questo, però, non ha portato ad una soluzione ottimale perché se da un lato si è cercato di definire la condotta in modo preciso e tassativo dall’altro lato il reato ha perso,o meglio, è diventato carente sotto l’aspetto dell’offensività concreta (non rilevando problemi sotto l’ulteriore elemento dell’offensività in astratto perché è ben individuato il bene giuridico costituzionalmente riconosciuto e tutelato dall’articolo 9 della Carta costituzionale).
Per concludere, appare opportuno evidenziare l’aspetto sicuramente più problematico della disciplina: la scriminante definita in modo molto generico del “al di fuori dei casi consentiti”.
Appare evidente che il riferimento è, necessariamente, rimandato alle disposizioni di legge la quali pur consentendo un’azione invasiva dell’uomo nelle aree protette legittima l’intervento umano solo se perpetrato con finalità ben precise: o per preservare e ricostituire le condizioni ottimali per la sopravvivenza dell’habitat; o per motivi di ordine pubblico e di sicurezza sanitaria.
Un discorso a parte mertia l’ulteriore discriminante prevista dalla direttiva 2008/99/CE articolo 3, lettera f .
La disposizione comunitaria pone nuovamente problemi interpretativi quando esclude la punibilità di condotte per l’uccisione, la distruzione, il possesso o il prelievo di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette, solo se la l’azione ricede su “quantità trascurabile” di tali esemplari e abbia un “impatto trascurabile” sullo stato di conservazione della specie.
Valgono gli stessi rilievi evidenziati in ordine al grado di offensività al quale deve essere soggetto l’habitat perché scatti l’applicazione della sanzione penale; in questo caso il punto di vista è “rovesciato” perché ciò che l’interprete si deve preoccupare di definire riguarda quel concetto di trascurabilità che opera di scriminante nei confronti della condotta.
Oltre alla difficile definizione dei concetti di “quantità” e di “impatto” “trascurabile” bisogna anche tener presente la loro natura relativa sia in ragione delle specie faunistiche e vegetali considerate sia in relazione alle diverse condizioni dei vari habitat dislocati sul territorio.
In realtà, il problemi legati all’affermazione del principio di offensività nella fattispecie penale ex art. 733bis cod. pen. sono due aspetti della stessa medaglia che evidenziano come l’applicazione ed il corretto funzionamento ( in chiave tutelare per gli habitat) della fattispecie penale in questione non può assolutamente prescindere da una determinazione adeguata del grado di offesa, danno e pericolo al quale il giudice deve rifarsi onde configurare la sussistenza o meno del reato ex art. 733bis cod. pen.
Il contributo della dottrina e della giurisprudenza risulterà fondamentale e, per il futuro, è proprio su questo aspetto essenziale della condotta (la quantità di aggressione al bene giuridico) che le autorità giudiziarie e gli esperti di settore dovranno concentrare i loro sforzi interpretativi ed applicativi.
1 Per un’esaustiva definizione della politica dell’Unione europea in materia ambientale vanno segnalati gli obiettivi fissati dall’articolo 191 del Trattato di Lisbona dai quali emerge l’elevato livello di tutela ambientale comunitaria fondata anche sul fondamentale principio del “chi inquina paga”.
2 Dagli atti dell’Unione discendono infatti non solo obblighi di criminalizzazione di determinate condotte, ma addirittura vincoli spesso dettagliati sulla concreta conformazione dei precetti, e persino sulla natura e misura delle sanzioni penali che lo Stato è tenuto ad adottare. Da questi strumenti non deriva, invero, alcun effetto diretto per il cittadino che potrà essere assoggettato a sanzione penale soltanto laddove una legge nazionale preveda come reato un fatto da lui commesso; ma non si può fare a meno di rilevare come gli Stati membri tendano in larghissima misura a conformarsi agli obblighi derivanti dal diritto dell’UE, ed in particolare ad adempiere agi obblighi di penalizzazione, anche per evitare le specifiche sanzioni apprestate dall’ordinamento comunitario. G. MARINUCCI, E. DOLCINI, Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, 2012.
3 Vedi sentenze 7 febbraio 1985, causa 240/83, ADBHU, punto 13; 20 settembre 1988, causa 302/86, Commissione/Danimarca, punto 8, e 2 aprile 1998, causa C‑213/96, Outokumpu, punto 32
4 Un esempio di affermazione del principio di assimilazione è contenuto nella sentenza della Corte di Giustizia del 15 gennaio 2004, (C-231/01) dove i giudici comunitari hanno statuito che le violazioni di norme comunitarie devono avere come conseguenza, negli Stati membri, l’applicazione di sanzioni simili a quelle previste per le violazioni di diritto interno simili per natura e gravità.
5 La Corte di Giustizia è giunta ad affermare che in capo agli Stati membri è configurabile un vero e proprio “obbligo “ di sanzionare le violazioni del diritto comunitario in condizioni sostanziali e processuali analoghe a quelle applicabili alle violazioni del diritto interno di natura ed importanza similari, prevedendo anche sanzioni penali se necessarie per garantire l’effettivo rispetto degli interessi comunitari. F. CARINGELLA, F. DELLA VALLE, M. DE PALMA, Manuale di Diritto Penale, parte generale, 2011
6 Alquanto interessante, risulta essere il concetto “corridoio ecologico” elaborato dalla Corte di Giustizia la quale ha condannato la Repubblica italiana per essere venuta meno agli obblighi che ad essa incombono in forza della direttiva 92/43 perché non aveva impedito il progetto di un complesso residenziale in zona protetta che, di fatto, comprometteva il collegamento tra due pinete. Il progetto di per sé poteva anche essere valido ma la struttura non garantiva il mantenimento di un “corridoio ecologico” tra le parti estreme della zona. Concedendo l’autorizzazione alla costruzione del complesso residenziale, consegue che la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi che ad essa incombono in forza della direttiva «habitat» non avendo adottato…misure idonee a proteggere l’interesse ecologico del sito proposto ed è venuta meno agli obblighi che ad essa incombono in forza dell’art. 6, n. 2, della medesima direttiva non avendo adottato… misure appropriate al fine di evitare il degrado degli habitat naturali per i quali il sito è stato designato. Corte di Giustizia, sent. del 10 giugno 2010, C- 491/08.
7 L’art. 4, n. 2, primo comma, della direttiva del Consiglio 21 maggio 1992, 92/43/CEE, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, come modificata dalla direttiva del Consiglio 20 novembre 2006, 2006/105/CE, deve essere interpretato nel senso che esso non consente ad uno Stato membro di non approvare, per motivi diversi da quello di tutela dell’ambiente, l’inclusione di uno o più siti nel progetto di elenco dei siti di importanza comunitaria elaborato dalla Commissione europea. Corte di Giustizia, sentenza 14 gennaio 2010, C-226/08.
8 Corte di Giustizia, sentenza del 16 febbraio 2012, C-182/10
9 L’art. 25 undecies del D. Lgsn. 231 del 2001 è stato introdotto con il D.lgs 7 luglio 2011 n. 121. (entrato in vigore il 16 agosto 2011). I reati presupposto di cui all’art. 25 undecies del Decreto, tranne il traffico illecito di rifiuti e l’inquinamento ambientale, sono contravvenzioni caratterizzate, sotto il profilo soggettivo, tanto dal dolo che dalla colpa.
10 Il trasferimento di responsabilità dalla persona fisica all’ente può avvenire solamente ove il fatto sia stato commesso “nell’interesse o a vantaggio dell’ente”,mentre la responsabilità cessa se il fatto sia stato commesso “nell’esclusivo interesse proprio o di terzi”, ossia per un fine che non deve avvantaggiare in alcun modo l’ente stesso. Cassazione penale, sentenza n. 40380 del 15 ottobre 2012.
11 Ai sensi dell’articolo 300, comma I del d. lgs. n. 152/2006, la responsabilità ambientale presuppone un deterioramento significativo e misurabile di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima. La nozione di risorsa naturale non è lasciata all’interprete ma è fornita dallo stesso legislatore, ch fa riferimento a “specie e habitat protetti, acqua e terreno” (art. 302, comma 10, del d. lgs. 152/2006). S. GRASSI, Problemi di diritto costituzionale dell’ambiente, 2012.
12 Cassazione penale, sez. III, sent. n. 6199 del 12 maggio 1993.
13 Si è poi ribadito che una previsione accettabile dell’astratta pericolosità di una condotta ha come presupposto necessario una distinzione dell’abito materiale sul quale incide il comportamento descritto, al fine di restringere e rendere più concreta la base di giudizio. Il legislatore dovrebbe, pertanto, tutelare separatamente le diverse componenti materiali dell’ambiente, acqua, aria, terra e suolo e giudicare, in relazione a ciascuna di esse, distintamente, l’incidenza lesiva del fatto preso in considerazione. Una standardizzazione normativa delle fonti di pericolo che guardi all’ambiente in modo omnicomprensivo, infatti, rischia di peccare di eccessiva vaghezza, con inevitabili ricadute sul piano del contrasto tra tipicità ed offensività. E ciò in quanto, comportamenti recettori per il corpo recettore acquatico non lo sono necessariamente altrettanto per il corpo recettore aereo o terrestre. L. SIRACUSA, La tutela penale dell’ambiente: bene giuridico e tecniche di incriminazione, 2007.
14 Il principio “chi inquina paga” impone che coloro che causano danni all’ambiente devono sostenere i costi per ripararli ovvero rimborsare tali danni. Corollario di tale principio è che nella maggior parte dei casi, la politica ambientale non deve essere finanziata da interventi pubblici ma dagli stessi responsabili dell’inquinamento quando essi siano identificabili. L. PRATI, Il danno ambientale e la bonifica dei siti inquinati, 2008.
15 Si badi che le scriminanti possono trarsi dall’intero ordinamento giuridico sia nazionale sia comunitario in quanto le norme che le prevedono non hanno carattere esclusivamente penale; di conseguenza, non si presenta per le cause di giustificazione alcun problema in ordine alla riserva di legge e al divieto di analogia che sono due principi cardine del diritto penale.
16 Anche azioni apparentemente consentite come, ad esempio, misure di manutenzione di un canale navigabile dell’estuario, le quali non siano direttamente connesse o necessarie alla gestione del sito devono essere assoggettate, nella misura in cui esse costituiscono un progetto e possono avere incidenze significative sul sito interessato, ad una valutazione del loro impatto su tale sito. Corte di Giustizia, sentenza del 14 gennaio 2010, C-226/08. Ma il dato incontrovertibile che emerge dalla copiosa giurisprudenza comunitaria, è che la preventiva valutazione dell’impatto ambientale di un piano, programma o progetto è condizione indispensabile in assenza della quale si configura la violazione degli obblighi imposti dalla direttiva Habitat. Corte di Giustizia, sentenza 28 febbraio 2012, C-48/11; 16 febbraio 2012 -182/10; 26 maggio 2011 C-538/09.
17 In un caso portato innanzi alla Corte di Giustizia, si è dibattuto sui sistemi di vigilanza e sulle altre opportune misure da adottare affinché le morti accidentali di esemplari protetti ( in questo caso si parlava dell’uccisione di esemplari di lince iberica i quali, non incontrando adeguati ostacoli, finivano per invadere un arteria stradale della Spagna e finivano per essere investite dai veicoli in corsa con rischi per gli stessi automobilisti) non avessero un impatto negativo rispetto all’obiettivo di cui all’art. 12, n. 4, della direttiva “Habitat” C-308/08.