La qualificazione giuridica della “marmettola” alla luce delle recenti novelle normative: alcuni risvolti applicativi
MARIAGRAZIA ALABRESE* – ANDREA MARCHETTI**
1. Premessa: il riferimento alla disciplina ambientale in materia di rifiuti
Il presente contributo muove dall’intento di offrire una breve riflessione sulla discussa questione della qualificazione giuridica del materiale lapideo residuo della lavorazione di marmi, graniti, pietre, ecc., definito comunemente «marmettola». L’esito di tale inquadramento giuridico, comprensibilmente, non è di poco conto, considerati gli aspetti pratici legati all’uso che di tali materiali è consentito e alle connesse condizioni di utilizzo dei medesimi.
Nel quadro della legislazione nazionale in materia di rifiuti, contenuta nella parte IV, D.lgs. n. 152/2006 (T.U. in materia ambientale), emerge – seppure non esplicitata in questi termini – la suddivisione, dalla quale occorre partire nell’argomento che ci occupa, tra due fattispecie differentemente disciplinate: ci si riferisce ai rifiuti e ai residui. La distinzione è molto rilevante per il soggetto che operi nel settore lapideo poiché, il fatto di non includere una sostanza nell’ambito di applicazione della nozione di rifiuto, comporta, per il detentore, il notevole vantaggio di non essere soggetto alle restrittive regole concernenti la gestione dei rifiuti. Si pensi alle fasi di produzione, trasporto e deposito nel sito finale e alle procedure autorizzative necessarie per l’eventuale utilizzo dei rifiuti.
In merito a tali ultimi aspetti, tuttavia, conviene anche osservare fin da subito che il legislatore si è dimostrato abbastanza attento alle peculiarità di alcune tipologie di materiali. Quanto alle questioni autorizzative, infatti, occorre considerare che molte sostanze provenienti da «attività di lavorazione di materiali lapidei» (All. 1, suball. 7.2.1) godono di semplificazioni notevoli quanto alle procedure di recupero dal momento che possono annoverarsi tra i «rifiuti non pericolosi» ai termini e alle condizioni di cui al D.M. 5 febbraio 1998.
Se il suddetto decreto ministeriale contiene la disciplina, di favore, riservata alla marmettola-rifiuto, è evidente che l’esclusione dalla qualificazione come rifiuto di questi materiali conduce alla completa disapplicazione della normativa in materia di rifiuti e alla considerazione di essi, sotto molti profili, alla stregua di un qualsiasi prodotto.
Il problema si pone dunque, in modo particolare, in relazione alla qualificazione della marmettola-residuo.
L’art. 183, d.lgs. n. 152/2006 definisce rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi». Da tale definizione emerge, dunque, come la importante distinzione operata dal legislatore (anche in sede europea) tra rifiuti e non-rifiuti si articoli anche sul profilo soggettivo legato alla nozione di «disfarsi» .
Per rifiuto, dunque, ai sensi della vigente normativa nazionale e dell’Ue, deve intendersi quella sostanza od oggetto a cui si connetta il fatto, la volontà o l’obbligo di «disfarsi», restando irrilevante se ciò avvenga attraverso lo smaltimento o il recupero (attraverso, ad es., la procedura semplificata di cui al d.m. 5 febbraio 1998) della res. In termini molto semplici, questa circostanza comporta la conseguenza che non è sufficiente la destinazione del materiale di cui ci stiamo occupando alla creazione, ad esempio, di sottofondi stradali poiché ciò potrebbe semplicemente costituire una tipologia di recupero, non sottraendo, tuttavia, come si è detto sopra, il materiale avviato a tale recupero al novero dei rifiuti.
Chiarito in via preliminare che la medesima sostanza potrebbe, in contesti differenti, essere qualificata, o non, come rifiuto, vediamo quali sono le possibilità fornite dalla disciplina attuale contenuta nel T.U. ambientale per la esclusione di un materiale, la marmettola-residuo nel nostro caso, dalla imposizione della normativa sui rifiuti e le applicazioni che la giurisprudenza ne ha fatto.
Le disposizioni alle quali deve farsi ricorso sono contenute nell’art. 184 bis che esclude espressamente dalla nozione di rifiuto le sostanze o oggetti, qualificabili come sottoprodotti, che soddisfano tutte le condizioni ivi previste. Si tratta di una norma che, come si vedrà, ha subito molteplici modifiche e integrazioni, circostanza che ha reso spesso poco chiara la sua applicazione.
L’art. 183, comma 1, lett. qq) definisce «sottoprodotto: qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa le condizioni di cui all’articolo 184-bis, comma 1, o che rispetta i criteri stabiliti in base all’articolo 184-bis, comma 2». Tale ultima norma recita:
«1. È un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.
2. Sulla base delle condizioni previste al comma 1, possono essere adottate misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti. All’adozione di tali criteri si provvede con uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, in conformità a quanto previsto dalla disciplina comunitaria» .
Come si è più volte accennato finora, ciò che è sottoprodotto non diviene rifiuto: si tratta dunque di una definizione estremamente importante per delimitare i confini tra le due nozioni. Per tale ragione il sottoprodotto è stato ed è tuttora al centro di un dibattito dottrinario e giurisprudenziale molto acceso.
Già nel 2007, la Commissione Europea evidenziava come «l’evolversi della giurisprudenza e la relativa assenza di chiarezza giuridica [… avessero] talvolta reso difficile l’applicazione della definizione di rifiuto, sia per le autorità competenti che per gli operatori economici. […] Un’interpretazione troppo ampia della definizione di rifiuto impone alle aziende costi superflui, rendendo meno interessante un materiale che avrebbe potuto invece rientrare nel circuito economico. Un’interpretazione troppo restrittiva, al contrario, può tradursi in danni ambientali e pregiudicare l’efficacia della legislazione e delle norme comunitarie in materia di rifiuti.»1
Prima di tentare di chiarire la portata dei singoli criteri previsti dall’art. 184 bis, occorre evidenziare che, per essere in presenza di un sottoprodotto, il materiale o la sostanza di cui si tratta deve integrare tutte le condizioni elencate al comma 1, non potendo ritenersi le stesse alternative tra loro.
La prima delle condizioni, secondo la quale «la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto», attiene al rapporto della sostanza o oggetto con il processo produttivo primario. In altre parole, il sottoprodotto deve essere generato da un processo di produzione e non da un processo di consumo mentre non è rilevante che origini da un’attività professionale o da un’attività privata.
La creazione del residuo, inoltre, deve essere parte integrante del processo produttivo e non deve costituirne lo scopo primario. Ciò nel senso che, se sussiste la volontà del produttore di creare la sostanza o il materiale dal medesimo processo finalizzato alla produzione di un altro bene, non si è in presenza di un residuo, eventualmente qualificabile come sottoprodotto, ma di un vero prodotto “secondario” della produzione.
La seconda condizione è rappresentata dalla certezza dell’utilizzo che potrà avvenire nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione. Tale condizione dovrà essere dimostrata di volta in volta ex ante attraverso elementi ritenuti idonei (si pensi ad un contratto di fornitura di lunga durata). Si chiarisce inoltre che non rileva l’identità soggettiva tra il soggetto che produce il residuo e il soggetto che lo riutilizza.
A proposito della certezza del riutilizzo, già sotto la previgente formulazione della disciplina dei sottoprodotti, la giurisprudenza osservava che «il residuo del processo produttivo non viene abbandonato ma gestito come sottoprodotto se il detentore o il produttore di sostanze ricavate da un processo produttivo destinato principalmente ad altre produzioni riceve un vantaggio economico anche dall’utilizzo dei residui. Ovviamente il vantaggio economico non esclude la certezza dell’utilizzazione, anzi la presuppone. Sia per la dottrina che per la stessa giurisprudenza il vantaggio economico fornisce un elevato grado di probabilità di riutilizzo del residuo e ridimensiona drasticamente le stesse ragioni logiche giuridiche che giustificano l’applicazione della disciplina sui rifiuti».
Come è stato notato, infatti, «la “certezza” cui la norma si riferisce, come è del resto ragionevole, ha dunque carattere relativo: trattandosi di qualcosa che necessariamente dovrà avvenire in futuro […] e che riguarda rapporti fra più di un soggetto, è chiaro che non potrebbe discutersi di certezza in senso assoluto. Per questa ragione, l’impegno delle parti è considerato sufficiente a soddisfare […] il requisito della ragionevole certezza. Tale requisito si pone in maniera speculare rispetto alla definizione di rifiuto: sussistendo la ragionevole certezza del reimpiego, sarà altrettanto ragionevolmente certo che della sostanza il suo detentore non avrà intenzione di disfarsi» (TAR Piemonte, 5 giugno 2009, n. 1563).
Il terzo requisito è costituito dalla possibilità di utilizzo diretto del residuo senza alcun trattamento ulteriore e diverso rispetto alla normale pratica industriale. Questa formulazione da un lato non richiede più, come avveniva in passato, che il residuo debba necessariamente essere utilizzato tal quale. D’altra parte, tuttavia, utilizza una formulazione molto vaga, quale quella della “normale pratica industriale” nell’ambito della quale potrebbero farsi rientrare, secondo alcuni commentatori, operazioni di conservazione, ma anche di trasformazione quali, ad esempio, la frantumazione.
L’ultima condizione ne contiene in realtà tre: infatti in primo luogo l’ulteriore utilizzo deve essere legale, vale a dire non contrario alla legge. In secondo luogo il sottoprodotto deve soddisfare, nell’ambito dell’utilizzo specifico che si intenda farne, tutti i requisiti pertinenti a tale destinazione, riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente. In terzo luogo, l’impiego del residuo non deve generare impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana, cioè deve trattarsi di un impatto già ricompreso nella valutazione effettuata, ad esempio, per il rilascio dell’autorizzazione relativo all’impianto di destinazione del sottoprodotto.
Un altro aspetto interessante, preso in esame dalla giurisprudenza, connesso in qualche modo alla distinzione tra rifiuto e sottoprodotto attiene alla fase dello stoccaggio del materiale prima del riutilizzo. Si tratta di una fase che ha in effetti notevole rilevanza pratica dal momento che il deposito dei residui di produzione potrebbe, a seconda dei casi, provocare l’intervento delle autorità competenti qualora venisse valutato come una situazione di apparente abbandono.
In ordine a tale dato la Corte di Cassazione penale osserva che «il deposito dei residui di produzione nel luogo dove gli stessi vengono prodotti o nelle vicinanze o in altro luogo non costituisce di per sé elemento univoco per qualificarli come rifiuti se dalle modalità del deposito, dalla sua durata e da altre circostanze non può desumersi con certezza una situazione di effettivo abbandono» (Cass. pen. Sez. III, 12 settembre 2008, n. 35235). Sul punto i giudici amministrativi hanno specificato recentemente che il materiale depositato in quantitativi eccessivi rispetto al fabbisogno del proprio ciclo produttivo non può conservare la natura di sottoprodotto, ma rappresenta uno stoccaggio di rifiuti (Tar Lombardia 10 agosto 2012, n. 2182).
2. Le novità normative introdotte dal decreto ministeriale 10 agosto 2012, n. 161 per l’utilizzazione delle terre e rocce da scavo
Con riferimento specifico al materiale di cui ci stiamo occupando, a chiarire in gran parte la qualificazione giuridica e il conseguente possibile utilizzo della c.d. “marmettola” è intervenuto di recente il decreto ministeriale 10 agosto 2012, n. 161 del Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, denominato “Regolamento recante la disciplina dell’utilizzazione delle terre e rocce da scavo” (d’ora in poi il “decreto”).
Per espressa scelta regolamentare la disciplina ivi contenuta è stata estesa anche ai residui di lavorazione di materiali lapidei (vedi art. 1, comma 1, lett. b). Tale ultima scelta, se pur apprezzabile per la volontà di colmare una lacuna legislativa altrimenti difficilmente superabile, pare essere il frutto di una decisione poco ponderata tale da porre in evidenza, come avremo modo di analizzare, alcune criticità legate soprattutto al mancato coordinamento del testo e alle difficoltà applicative della disciplina. L’intero articolato risulta, infatti, prevalentemente incentrato sulla disciplina del materiale di scavo, trascurando i più specifici (e necessari) riferimenti alle peculiarità del materiale lapideo.
Al di là di tali problematiche, in virtù di questa novella normativa, sono stati stabiliti a livello nazionale i criteri qualitativi che, più in generale, devono essere soddisfatti affinché i materiali di scavo possano essere considerati sottoprodotti e non rifiuti e dunque essere destinati ad ulteriori processi di produzione o di utilizzazione.
Il citato decreto costituisce il regolamento di attuazione dell’art. 49 del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1 (c.d. “D.L. Liberalizzazioni”, convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 2012, n. 27), con il quale il Ministro dell’Ambiente, di concerto con il Ministro delle Infrastrutture, è stato incaricato di adottare il nuovo regolamento nazionale per l’utilizzo delle terre e rocce da scavo, stabilendo in particolare «le condizioni alle quali le terre e rocce da scavo sono considerate sottoprodotti ai sensi dell’articolo 184-bis del D.lgs n. 152 del 2006».
Come previsto dallo stesso art. 49, comma 1 ter, del citato D.L., con l’entrata in vigore del nuovo decreto è divenuta efficace anche l’abrogazione dell’articolo 186 del D.lgs. n. 152/2006 che ha rappresentato negli ultimi anni la normativa “speciale” di riferimento per le terre e rocce da scavo nell’ambito del Codice dell’ambiente.
Prima di entrare nel merito della nuova disciplina introdotta dal neo-emanato regolamento, occorre brevemente premettere come già la normativa pregressa, dettata per l’appunto dal citato art. 186 del Codice dell’ambiente, prevedesse, al suo comma 7 ter, l’assimilazione dei residui delle attività di lavorazione di pietre e marmi (tra i quali certamente rientra anche la c.d. “marmettola”), purché rispondenti alle caratteristiche di cui all’art. 184 bis, alla disciplina delle terre e rocce da scavo, escludendole dunque dall’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti.
Già ai sensi del predetto art. 186, comma 1, era infatti previsto l’utilizzo di tale materiale per reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati purché fossero rispettati i requisiti espressamente indicati al medesimo comma 1 (cfr. da lett. a a lett. g). L’intervento del nuovo regolamento ministeriale non fa altro, dunque, che confermare un regime di favor, già adottato nel Codice dell’ambiente, nei confronti dei materiali da scavo (e in ragione dell’assimilazione richiamata per i residui di lavorazione dei materiali lapidei) prevedendo per gli stessi una disciplina in grado di sottrarli dalla normativa sui rifiuti e conseguentemente consentirne un utilizzo che superi l’obbligo del conferimento in discarica. Confermando la scelta già consacrata nel previgente art. 186 del Codice, il legislatore si è tuttavia premurato di adottare una disciplina più completa che fosse in grado di regolare in maniera più puntuale le forme, i casi e il procedimento per l’utilizzo dei materiali di scavo.
Al fine di chiarire l’ambito di applicazione e gli effetti della disciplina de qua il regolamento provvede a fornire una serie di definizioni.
Innanzitutto l’art. 1, comma 1, lett. b, definisce i “materiali da scavo” come «suolo o sottosuolo, con eventuali presenze di riporto, derivanti dalla realizzazione di un’opera» tra i quali, a titolo esemplificativo, sono anche inseriti «i residui di lavorazione di materiali lapidei (marmi, graniti, pietre, ecc.) anche non connessi alla realizzazione di un’opera e non contenenti sostanze pericolose».
Quanto alla definizione di “opera”, invece, essa si considera come «il risultato di un insieme di lavori di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro, manutenzione, che di per sé esplichi una funzione economica o tecnica ai sensi dell’articolo 3, comma 8, del D.lgs. 12 aprile 2006, n. 163».
Entrando nel merito della disciplina, occorre peraltro osservare come l’art. 4 del decreto costituisca il primo esempio di attuazione dell’art. 184 bis, comma 2, del Codice dell’ambiente, il quale, come sopra detto, rinvia a successivi decreti del Ministero dell’Ambiente per l’individuazione dei criteri quantitativi o qualitativi per definire tipologie di prodotti o sostanze alla stregua di sottoprodotti.
Tale disposizione rappresenta certamente la parte più significativa del decreto e sulla base della quale si sviluppa l’intera disciplina regolamentare. L’art. 4, comma 1, detta infatti le condizioni affinché le terre e rocce da scavo (e in base alla definizione di cui all’art. 1, comma 1, lett. b, anche i residui di lavorazione di materiali lapidei) possano essere considerate sottoprodotti.
Tale equiparazione può dirsi operante quando sono soddisfatte le seguenti condizioni:
«a) il materiale da scavo è generato durante la realizzazione di un’opera, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale materiale;
b) il materiale da scavo è utilizzato, in conformità al Piano di Utilizzo:
1) nel corso dell’esecuzione della stessa opera, nel quale è stato generato, o di un’opera diversa, per la realizzazione di reinterri, riempimenti, rimodellazioni, rilevati, ripascimenti, interventi a mare, miglioramenti fondiari o viari oppure altre forme di ripristini e miglioramenti ambientali;
2) in processi produttivi, in sostituzione di materiali di cava;
c) il materiale da scavo è idoneo ad essere utilizzato direttamente, ossia senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale secondo i criteri di cui all’allegato 3;
d) il materiale da scavo, per le modalità di utilizzo specifico di cui alla precedente lettera b), soddisfa i requisiti di qualità ambientale di cui all’allegato 4».
2.1 (segue) e la riconducibilità dei materiali lapidei alla categoria dei sottoprodotti: le lacune del regolamento
Richiamati i requisiti generali previsti dal regolamento con riferimento alle terre e rocce da scavo occorre tuttavia subito scontrarsi con il sopra menzionato mancato coordinamento del testo rispetto alla disciplina delle attività di lavorazione dei materiali lapidei. Si rammenta, infatti, come l’art. 1, comma 1, lett. b del decreto assimili ai materiali da scavo anche i residui di lavorazione di materiali lapidei che non siano connessi alla realizzazione di un’opera con ciò rendendo l’art. 4 del medesimo decreto in parte non confacente al nostro caso (in particolare per il requisitio di cui alla lett. a) in base al quale «il materiale da scavo è generato durante la realizzazione di un’opera, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale materiale»). Tale mancanza, anticipando quanto dinnanzi sosterremo, non costituisce tuttavia una limitazione alla possibile qualificazione come sottoprodotto di tali materiali.
Con riferimento al requisito di cui alla lett. c) sopra riportata, quanto alla nozione di “normale pratica industriale”, si tratta di un termine già utilizzato nel Codice dell’ambiente all’art. 184 bis e che l’allegato 3 del decreto così definisce: «costituiscono un trattamento di normale pratica industriale quelle operazioni, anche condotte non singolarmente, alle quali può essere sottoposto il materiale da scavo, finalizzate al miglioramento delle sue caratteristiche merceologiche per renderne l’utilizzo maggiormente produttivo e tecnicamente efficace. Tali operazioni in ogni caso devono fare salvo il rispetto dei requisiti previsti per i sottoprodotti, dei requisiti di qualità ambientale e garantire l’utilizzo del materiale da scavo conformemente ai criteri tecnici stabiliti dal progetto». Più nello specifico, l’allegato presenta un elenco meramente esemplificativo delle operazioni più comunemente effettuate, che rientrano tra le operazioni di normale pratica industriale (delle terre da scavo). Tra queste, peraltro, «la riduzione della presenza nel materiale da scavo degli elementi/materiali antropici (ivi inclusi, a titolo esemplificativo, frammenti di vetroresina, cementiti, bentoniti), eseguita sia a mano che con mezzi meccanici». Tali definizioni non ostano dunque in alcun modo alla riconducibilità dei residui di lavorazione dei materiali lapidei alla categoria dei sottoprodotti essendo questi il più delle volte utilizzati senza alcun ulteriore trattamento.
L’allegato in questione conclude inoltre stabilendo che «mantiene la caratteristica di sottoprodotto quel materiale di scavo anche qualora contenga la presenza di pezzature eterogenee di natura antropica non inquinante, purché rispondente ai requisiti tecnici/prestazionali per l’utilizzo delle terre nelle costruzioni, se tecnicamente fattibile ed economicamente sostenibile», estendendo in tal modo ancora di più la possibilità di un’effettiva assimilazione dei materiali da scavo e dei residui di lavorazione dei materiali lapidei alla categoria dei sottoprodotti.
Si tenga peraltro conto sin d’ora come per espressa previsione regolamentare, i materiali da scavo possano contenere, senza che ciò possa inficiare la loro qualificazione in termini di sottoprodotto, calcestruzzo, bentonite, polivinilcloruro (PVC), vetroresina, miscele cementizie e additivi per scavo meccanizzato, «sempreché la composizione media dell’intera massa non presenti concentrazioni di inquinanti superiori ai limiti massimi previsti dal presente regolamento» (cfr. art. 1. comma 1, lett. b, del decreto).
Ne consegue pertanto un quadro normativo di indubbia chiarezza quanto alla possibile utilizzazione dei residui di lavorazione di materiali lapidei quali sottoprodotti ai sensi dell’art. 184 bis del Codice dell’ambiente. Laddove siano rispettati i requisiti di cui all’art. 4, comma 1, del decreto non vi è alcuna ragione giuridicamente fondata per poter sostenere la qualifica di tali materiali in termini di rifiuti. Non vi è dubbio alcuno inoltre come la novella normativa possa pacificamente applicarsi ai processi di lavorazione dei materiali lapidei (tra i quali segatura, taglio, lucidatura, ecc.) da cui derivi, quale residuo degli stessi, la c.d. marmettola. Né a tale qualificazione osta l’eventuale utilizzo, nel corso del processo di lavorazione del materiale lapideo, di sostanze chimiche, additivi, prodotti di lavorazione purché essi non inficino i requisiti di qualità ambientale del residuo secondo quanto disposto dall’allegato 4 del decreto.
3. Profili applicativi relativi al procedimento per l’approvazione del Piano di Utilizzo
Chiarito l’ambito di applicazione del regolamento ed individuati i termini per la riconducibilità dei materiali lapidei alla categoria dei sottoprodotti occorre prendere in esame i contenuti del regolamento relativi al procedimento inerente alla presentazione e successiva approvazione del Piano di Utilizzo2.
L’art. 5, comma 2, del decreto dispone che la sussistenza delle condizioni stabilite dall’articolo 4, comma 1, (per le quali vedi supra) venga attestata dall’interessato mediante una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, poi comprovata dallo stesso tramite il Piano di Utilizzo del materiale da scavo, il quale deve essere presentato almeno 90 giorni prima dell’inizio dei lavori di realizzazione dell’opera che si intende compiere. L’art. 5, comma 1, fa comunque salva la possibilità che il proponente presenti il Piano in fase di approvazione del progetto definitivo dell’opera.
Il decreto pone quale unico requisito per la proponibilità del Piano all’autorità competente all’autorizzazione della realizzazione dell’opera, oltre alla sussistenza delle condizioni sopra citate e indicate all’art. 4, il rispetto da parte del materiale da scavo di alcune condizioni ambientali. Nel caso in cui si dimostri, infatti, che per il materiale da scavo (ma lo stesso dicasi per i residui di lavorazione dei materiali lapidei) le concentrazioni di elementi e composti di cui alla tabella 1, Parte A, dell’allegato 4 del decreto non superino le Concentrazioni Soglia di Contaminazione di cui alle colonne A e B, Tabella 1, allegato 5 al titolo V parte IV del Codice dell’ambiente, con riferimento alla specifica destinazione d’uso urbanistica del sito di produzione e di quello di destinazione – e dunque sia stato documentato il rispetto dei requisiti di qualità ambientale di cui all’articolo 184-bis del D.lgs. 152/2006 per l’utilizzo dei materiali da scavo come sottoprodotti – l’Autorità competente entro 90 giorni dalla presentazione del Piano dovrà esprimersi per l’approvazione o il rigetto del Piano.
Decorsi inutilmente i 90 giorni il proponente può comunque procedere ad utilizzare il materiale da scavo nel rispetto del Piano salvo gli obblighi previsti per la realizzazione dell’opera.
Per quanto più specificamente concerne i contenuti del Piano di Utilizzo, si ricorda come esso debba essere redatto, per espressa previsione di cui all’art. 5, comma 2, del decreto, in conformità a quanto stabilito dall’allegato 5, in particolare indicando:
1) l’ubicazione dei siti di produzione e di utilizzo;
2) l’individuazione dei processi industriali di impiego del materiale;
3) le eventuali operazioni di normale pratica industriale praticate sul materiale;
4) le modalità di esecuzione e la caratterizzazione ambientale dei materiali (sulla base dei contenuti richiesti dagli allegati 2 e 4);
5) l’ubicazione degli eventuali siti di deposito intermedio in attesa di utilizzo, nonché dei relativi tempi;
6) l’individuazione dei percorsi e delle modalità di trasporto del materiale da scavo tra le diverse aree interessate nel processo di gestione (sito di produzione, sito di deposito, sito di utilizzo…);
7) per ciascun sito interessato dalla produzione alla destinazione l’inquadramento dell’operazione a livello territoriale, urbanistico, geologico ed idrogeologico;
8) la descrizione delle attività svolte sul sito;
9) il piano di campionamento e analisi.
Il Piano definisce infine la propria durata di validità, al termine della quale esso cessa di produrre effetti facendo venire meno, conseguentemente, la qualifica di sottoprodotto del materiale escavato o ad esso assimilato. Viene in ogni caso fatta salva la facoltà di presentare, entro i due mesi antecedenti alla scadenza, un nuovo Piano di Utilizzo dalla durata massima di un anno.
Dai contenuti richiesti dall’allegato 5 si intuisce facilmente come il decreto faccia riferimento in maniera privilegiata all’utilizzo del materiale da scavo trascurando di fatto, deve ritenersi per mera omissione e non per diversa volontà di esclusione, l’ipotesi di utilizzo dei residui di lavorazione dei materiali lapidei. Emerge in altre parole nuovamente il problema del mancato coordinamento del testo rispetto alla questione dei materiali non prettamente “da scavo”, quanto piuttosto il frutto di residui di lavorazione di marmi, graniti e pietre.
Ciononostante deve radicalmente escludersi come la mancata previsione nel richiamato allegato 5 di un “modulo” specifico per l’utilizzo dei residui di lavorazione di materiali lapidei possa costituire un ostacolo all’utilizzo quale sottoprodotto del medesimo materiale residuo. Tale ipotesi, oltre a costituire un’illogica (nonché errata) interpretazione del decreto, rappresenterebbe una grave compromissione del diritto dell’interessato a poter utilizzare il materiale come sottoprodotto, in forza dell’art. 184 bis del Codice dell’ambiente. Ne deriverebbe in altre parole un’indiretta violazione di una disposizione di legge. In termini pratici la questione potrà risolversi dunque concordando con l’amministrazione competente – quella a cui dovrà essere presentato il Piano di Utilizzo – i contenuti da esplicitare all’interno di esso, rendendo note, comunque sia, tutte quelle informazioni utili e documentabili relative al materiale utilizzato e al sito di destinazione dell’opera.
Con riguardo dunque alla concreta attività di redazione del Piano di Utilizzo dei residui di lavorazione di materiali lapidei deve ritenersi che dovrà essere indicato il sito in cui il residuo di lavorazione è stato generato e non l’ubicazione del luogo di estrazione del marmo o della pietra.
3.1 (segue) e gli ulteriori adempiementi prescritti dal decreto ai fini del trasporto e deposito del materiale
Oltre alla presentazione del Piano di Utilizzo, ai sensi dell’art. 9 del decreto, il proponente del Piano deve comunicare all’amministrazione competente, prima dell’inizio dei lavori di realizzazione dell’opera, il nominativo dell’esecutore il quale da quel momento diviene responsabile della corretta attuazione del Piano assumendosi peraltro l’incarico di redigere la modulistica necessaria a garantire la tracciabilità del materiale attraverso il documento di trasporto (di cui all’allegato 6) e la dichiarazione di avvenuto utilizzo (di cui all’allegato 7).
Il decreto interviene, infatti, anche in merito al deposito e al trasporto del materiale escavato in attesa del suo utilizzo. Il deposito può avvenire, ai sensi dell’art. 10, soltanto all’interno del sito di produzione, degli eventuali siti di deposito intermedio (anch’essi da indicarsi nel Piano di Utilizzo) o dei siti di destinazione. Il deposito di tale materiale deve essere peraltro fisicamente separato dagli altri rifiuti eventualmente presenti nel sito, che devono anche essere gestiti in maniera autonoma, nonché da altri depositi di materiale escavati (o ad essi assimilati) oggetto di differenti piani di utilizzo. La durata del deposito non può ovviamente avere una durata superiore alla durata del Piano di Utilizzo. Al termine di esso, infatti, come già evidenziato, viene meno la qualifica di sottoprodotto del materiale il quale pertanto dovrà essere trattato come rifiuto (anche se pure in questo caso rimane sempre salva la facoltà di presentare un nuovo Piano). In tutte le fasi successive all’uscita del materiale dal sito di produzione, ai sensi dell’art. 11, comma 1, del decreto, il trasporto del materiale escavato (o ad esso assimilato) deve essere accompagnato dalla documentazione prevista all’allegato 6, che va predisposta in triplice (esecutore, trasportatore e destinatario) o quadrupla copia (quando il proponente e l’esecutore sono diversi).
Preventivamente al trasporto del materiale da scavo, deve essere inviata all’Autorità competente una comunicazione in cui sono indicate le generalità:
1) della stazione appaltante dei lavori di scavo;
2) della ditta appaltatrice dei lavori di scavo;
3) della ditta che trasporta il materiale;
4) della ditta che riceve il materiale e del luogo di destinazione;
5) del mezzo utilizzato per il trasporto, del sito di provenienza e la tipologia del materiale trasportato.
In particolare, all’interno del citato allegato è stato inoltre predisposto il modulo necessario (documento di trasporto), ai sensi dell’art. 11, comma 1, del decreto, per il regolare trasporto del materiale in cui sono specificate: l’anagrafica del sito di origine; l’anagrafica del sito di destinazione; l’anagrafica del sito di deposito provvisorio; l’anagrafica della ditta che effettua il trasporto; le generalità dell’autista dell’automezzo.
Con riferimento invece alla dichiarazione di avvenuto utilizzo questa, ai sensi dell’art. 12 del decreto, ha la funzione di attestare l’utilizzo del materiale di scavo in conformità al Piano di Utilizzo, mediante una dichiarazione alla P.A. sostitutiva dell’atto di notorietà, secondo il modello di cui all’allegato 7, che deve essere resa all’amministrazione entro il termine di validità dello stesso Piano, pena la cessazione della qualifica di sottoprodotto del materiale.
In entrambi i due casi, da un’analisi dei due citati allegati del decreto, emerge ancora una volta il difetto di coordinamento della disciplina regolamentare risultando assai ardua una piena adattabilità dei moduli predisposti e dei relativi requisiti richiesti al trattamento dei residui di lavorazione dei materiali lapidei, mancando per altro verso una modulistica o una disciplina specifica per tali prodotti. Per quanto riguarda la comunicazione inerente al trasporto del materiale, pertanto, è evidente come ogni riferimento ad una peraltro inesistente attività di scavo non potrà essere soddisfatta, dovendo questa invece premurarsi di indicare le generalità della ditta che esegue i lavori sul materiale lapideo e della ditta che trasporta il materiale verso il luogo di deposito o di destinazione; la qualità e quantità del materiale trasportato; l’ubicazione dei siti di provenienza e destinazione. Il documento di trasporto potrà invece essere compilato indicando quale sito di produzione il luogo di generazione del residuo di lavorazione del materiale lapideo.
Considerazioni del tutto analoghe valgono per la dichiarazione di avvenuto utilizzo.
Preme infine sottolineare, quale ultima considerazione in merito alla documentazione richiesta ai sensi del decreto, come al di là delle singole ipotesi di utilizzo e delle possibili forme di generazione dei residui di lavorazione dei materiali lapidei debba lasciarsi al buon senso del soggetto proponente e a quello dell’amministrazione competente interpretare i requisiti di contenuto richiesti per ciascuno dei documenti (Piano di Utilizzo, comunicazione di trasporto e documento di trasporto, dichiarazione di fine utilizzo) in modo che ciò non possa minimamente intralciare il possibile e lecito utilizzo del materiale lapideo in qualità di sottoprodotto. A fronte di un’evidente lacuna della normativa regolamentare sarà dunque cura del proponente, con la fattiva collaborazione dell’amministrazione competente, provvedere alla compilazione della documentazione richiesta dal decreto in una forma tale da poter essere adattata ai necessari riferimenti all’utilizzo dei residui di lavorazione dei materiali lapidei.
Una volta analizzate le procedure relative alla presentazione della documentazione necessaria per l’approvazione del Piano e per il trasporto resta da analizzare quale utilizzo sia possibile fare, in concreto, di tali materiali da scavo e dei residui di lavorazione dei materiali lapidei a questi assimilati. Sulla base di quanto disposto all’allegato 4 del decreto, i materiali da scavo possono essere utilizzati ai fini previsti dall’articolo 4, comma 1 (tra cui reinterri, riempimenti, rilevati, sottofondi nonché nel corso di processi di produzione industriale):
a) se la concentrazione di inquinanti rientra nei limiti di cui alla colonna A (siti a uso verde pubblico, privato e residenziale), in qualsiasi sito a prescindere dalla sua destinazione;
b) se la concentrazione di inquinanti è compresa fra i limiti di cui alle colonne A e B (siti a uso commerciale e industriale), in siti a destinazione produttiva (commerciale e industriale). In questo secondo caso, il riutilizzo in impianti industriali dei materiali da scavo è possibile solo nel caso in cui dal processo industriale di destinazione esitino prodotti o manufatti merceologicamente ben distinti dai materiali da scavo, con modifica sostanziale delle caratteristiche chimico-fisiche iniziali.
Si tenga tuttavia presente, quale considerazione conclusiva, come la qualifica di sottoprodotto delle terre da scavo (e dei materiali ad esse assimilate) venga meno, per espressa previsione regolamentare, in tre casi:
a) alla scadenza del termine di validità del Piano (art. 5, comma 7);
b) in caso di violazione del Piano (art. 5, comma 8);
c) in caso di violazione delle altre condizioni stabilite dal regolamento (art. 5, comma 8).
4. Conclusioni
Con riferimento alla novella normativa introdotta con il decreto in questione si deve pertanto concludere come la qualifica di sottoprodotto per i residui di lavorazione di materiali lapidei (e dunque anche della c.d. “marmettola”) sussista sempre purché siano soddisfatte le condizioni di cui all’art. 4, comma 1, del regolamento. È doveroso tuttavia precisare come il tenore dell’art. 4 comma 1 del decreto non sembri escludere peraltro la possibile qualificazione dei residui di lavorazione lapidei quale sottoprodotto anche in casi diversi da quelli in esso contemplati o per usi diversi da quelli previsti (si pensi, ad esempio, all’uso della marmettola in cosmetica). La lettera dell’art. 4, comma 1, stabilisce infatti che il materiale da scavo è un sottoprodotto «se sono soddisfatte tutte» le condizioni in esso elencate, non pregiudicando in alcun modo la possibilità che tale assimilazione possa essere condotta, inoltre, anche sulla base della disciplina legislativa di cui all’art. 184 bis la quale, oltre a costituire una fonte di rango superiore rispetto al regolamento de quo, rappresenta la normativa di riferimento per la questione in oggetto. In altri termini, in un rapporto di genere a specie, il decreto non rappresenta che una mera specificazione del contenuto normativo primario di cui al Codice dell’ambiente, il quale, pertanto, pare che possa continuare a costituire il principale punto di riferimento normativo per la qualificazione dei sottoprodotti.
* Ricercatore di Diritto Agrario alla Scuola Superiore Sant’Anna di Studi Universitari e di Perfezionamento – Istituto Dirpolis.
**Assegnista di ricerca in Diritto Amministrativo alla Scuola Superiore Sant’Anna di Studi Universitari e di Perfezionamento – Istituto Dirpolis.
Il presente contributo è nato dalle comuni riflessioni dei due autori. Tuttavia il paragrafo 1 è il frutto del lavoro di M. Alabrese; i paragrafi 2, 2.1, 3, 3.1 e 4 di A. Marchetti.
1 Cfr. la Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti, COM (2007) 59 def., p. 5.
2 Ai fini di una più comprensibile ricostruzione del procedimento di presentazione e approvazione del Piano che di seguito verrà illustrato, si rinvia anche al diagramma di flusso rappresentato in A. Geremei, Terre, rocce e “materiali” da scavo, proviamo (nuovamente) a fare il punto, in www. reteambiente.it (18 ottobre 2012).