La Corte di Giustizia UE chiarisce l’ambito di applicazione della Direttiva 93/13/UE.
Anno: 2016 | Autore: VALERIO CELLENTANI
La Corte di Giustizia UE chiarisce l’ambito di applicazione della Direttiva 93/13/UE (sulle cd. “clausole abusive”)
nei contratti accessori di garanzia e nel procedimento d’ingiunzione.
di Valerio Cellentani
La Direttiva 93/13/Ce è uno dei cardini della disciplina consumeristica, in quanto ha introdotto per la prima volta “regole che incidono sulla disciplina generale del contratto” (Salvatore Mazzamuto, Il contratto di Diritto Europeo, Giappichelli, 2015, 191), in cui rientra la disciplina delle clausole abusive, richiedendo in generale che, al di là di alcune specifiche ipotesi in cui l’abusività della clausola è presunta (art. 33, c. 2 e art. 36, c. 2 d.lgs. 206/2005) le clausole, non oggetto di trattativa, di un contratto in cui una delle parti rivesta la qualifica di consumatore “non siano caratterizzate un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi” (art. 33, c. 1 d.lgs. 206/2005), squilibrio che richiede una specifica attività di accertamento da parte del giudice (art. 34 d.lgs. 206/2005). La direttiva, il cui ambito di applicazione è stato ampliato recentemente in attuazione della Direttiva 2011/83/UE dal decreto legislativo 21 febbraio 2014, n. 21, prevede a tutela del consumatore, in presenza di clausole abusive, il rimedio della cd. “nullità di protezione (art. 36, c. 1, d.lgs. 206/2005), forma di invalidità del contratto che produce l’inefficacia della clausola dichiarata dal giudice (o qualificata dalla legge) abusiva senza che possa causare la nullità del contratto, potendo essere rilevata d’ufficio nel solo interesse del consumatore (S. Mazzamuto, ibidem, 253).
La Corte di Giustizia dell’UE ha emesso in data 19 novembre 2015 e 18 febbraio 2016 due importanti pronunce in tema di applicabilità della Direttiva 93/13/CE (“Dir. 93/13”, trasposta in Italia negli articoli 33 e seguenti del d.lgs. 206/2005, cd. “codice del consumo”) in ipotesi di contratti di garanzia accessori (nel caso di specie, di una fideiussione e di una garanzia immobiliare, ipoteca, a favore dell’istituto di credito) ad un’apertura di credito stipulata tra un istituto di credito ed una società unipersonale con finalità imprenditoriale, nel caso in cui il garante non abbia un collegamento funzionale che lo leghi a detto ente (Ordinanza CGUE, 19 novembre 2015, Causa C-74/15), nonché in materia di rilevabilità delle clausole abusive nel procedimento d’ingiunzione in assenza di opposizione dell’ingiunto (Corte di Giustizia UE, Sezione, sentenza 18 febbraio, causa C-49/14), nell’ambito di un contratto di credito al consumo.
La prima decisione (CGUE Causa C-74/15) statuisce che i contratti di garanzia per un finanziamento a un professionista, pur nella loro natura di contratti accessori, se posti in essere da consumatori nell’interesse esclusivo del beneficiario e per scopi che esulano dall’attività professionale dei garanti, sono assoggettati al regime consumeristico e non a quello del contratto principale, mentre nella seconda (CGUE C-49/14) la Corte ha dichiarato che osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che non consente al giudice investito dell’esecuzione di un’ingiunzione di pagamento di valutare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola inserita in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, ove l’autorità investita della domanda d’ingiunzione di pagamento non sia competente a procedere a una simile valutazione.
L’applicabilità della disciplina nel caso di contratto di garanzia accessorio ad un contratto di credito concluso per finalità professionale: l’ordinanza Corte di Giustizia UE, 19 novembre 2015, Causa C-74/15, Dumitru Tarcău, Ileana Tarcău contro Banca Comercială Intesa Sanpaolo România SA e altri
Il rinvio pregiudiziale disposto dalla Curtea de Apel Oradea (Corte d’appello di Oradea) riguarda l’interpretazione degli articoli 1, paragrafo 1 e 2, lettera b della dir. 93/13. In particolare:
a) se la nozione di “consumatore” deve essere interpretato nel senso che include o, al contrario, nel senso che esclude da tale definizione le persone fisiche che hanno firmato, in qualità di garante-fideiussore, atti aggiuntivi e contratti accessori (i contratti di fideiussione o di garanzia immobiliare) del contratto di credito stipulato da una società commerciale per l’esercizio della sua attività, nel caso in cui queste persone fisiche non abbiano alcun collegamento con l’attività della società commerciale e abbiano agito per scopi che esulano dalla loro attività professionale,” e
b) se nell’ambito della dir. 93/13 rientrino anche i contratti accessori di un contratto di credito il cui beneficiario è una società commerciale, posto che non vi sia trattativa individuale.
Con riguardo al primo quesito interpretativo, la Corte si è discostata dal suo precedente orientamento: nella sentenza Dietzinger causa C‑45/96, paragrafo 23, la Corte aveva dichiarato che “un contratto di fideiussione stipulato da una persona fisica, la quale non agisca nell’ambito di un’attività professionale, è escluso dalla sfera di applicazione della direttiva quando esso garantisca il rimborso di un debito contratto da un’altra persona la quale agisce, per quanto la concerne, nell’ambito della propria attività professionale.” Per contro, nell’ordinanza in oggetto, ribadendo l’irrilevanza dell’oggetto del contratto ai fini della sua qualificazione come contratto di consumo, e dunque ai fini dell’applicabilità della dir 93/13, il giudice nazionale deve limitarsi a stabilire se i contraenti “agiscano o meno nell’ambito della loro attività professionale” (paragrafo 23 della decisione, se dunque il contratto non abbia causa di consumo). la Corte ha dunque espressamente dichiarato l’irrilevanza il carattere accessorio della garanzia, stante che l’accessorietà attiene all’oggetto del contratto (paragrafo 14).
Pertanto, il contratto di garanzia è un contratto distinto quando è stipulato tra soggetti diversi dalle parti del contratto principale.
È dunque in capo alle parti del contratto di garanzia o di fideiussione che deve essere valutata la qualità in cui queste hanno agito, precisando che il garante persona fisica che abbia garantito l’adempimento delle obbligazioni di una società commerciale può essere considerato consumatore laddove, ad esempio, non abbia “collegamenti funzionali che la legano a tale società, quali l’amministrazione di quest’ultima o una partecipazione non trascurabile al suo capitale sociale, o se abbia agito per scopi di natura privata.” (paragrafo 29).
La Corte UE conclude nel senso che gli articoli 1, paragrafo 1, e 2, lettera b), della direttiva 93/13 devono essere interpretati nel senso che tale direttiva può essere applicata a un contratto di garanzia immobiliare o di fideiussione stipulato tra una persona fisica e un ente creditizio al fine di garantire le obbligazioni che una società commerciale ha contratto nei confronti di detto ente in base a un contratto di credito, quando tale persona fisica ha agito per scopi che esulano dalla sua attività professionale e non ha alcun collegamento di natura funzionale con la suddetta società.
L’impatto sull’ordinamento italiano
L’ordinanza in commento non solo rivoluziona il precedente orientamento giurisprudenziale della Corte di Giustizia, ma chiarisce l’applicabilità della dir. 93/13 anche ai contratti di garanzia immobiliare che accedono a un credito concesso per l’esercizio dell’attività professionale del beneficiario, che comunque restavano fuori dall’ambito preso in considerazione dalla precedente pronuncia Dietzinger, riguardante esclusivamente le garanzie personali. Tuttavia, rimane ancora incerto il quadro con riferimento a garanzie costituite su beni mobili registrati, pur potendosi applicare in via analogica le conclusioni della Corte, in virtù degli analoghi principi applicabili, in via generale, all’ipoteca su beni mobili registrati e a quella immobili.
La rilevabilità delle nullità relative nel procedimento d’ingiunzione: la sentenza Corte di Giustizia UE, Sezione, sentenza 18 febbraio, causa C-49/14, Finanmadrid EFC SA contro J.V. Albán Zambrano e altri
Il caso riguarda un consumatore spagnolo che, per l’acquisto di un veicolo, ha stipulato un contratto di credito al consumo, successivamente risolto dalla finanziaria concedente per mancato pagamento e inadempimento importante del consumatore. In seguito alla chiusura del rapporto e alla mancata opposizione del consumatore nel procedimento d’ingiunzione, la finanziaria ha ottenuto il “titolo esecutivo giudiziario” (una sorta di decreto ingiuntivo) per l’importo spettante, ai sensi degli articoli 812[1] e 815[2] della LEC (Ley de Enjuiciamiento Civil, il codice di procedura civile spagnolo).
In seguito, la finanziaria ha richiesto allo Juzgado de Primera Instancia nº 5 de Cartagena (Tribunale di primo grado di Cartagena) l’ordine di esecuzione del “decreto ingiuntivo” ottenuto.
Il contratto prevedeva una commissione per spese di istruttoria del 2,5% del capitale e il rimborso era stato dilazionato su un periodo di 84 mesi con un tasso d’interesse annuo del 7%. Per i casi di ritardo nel pagamento delle rate mensili, era previsto un tasso d’interesse di mora mensile dell’1,5%, unitamente a una commissione di 30,00 euro per ciascuna rata insoluta.
Il giudice spagnolo, non potendo esaminare d’ufficio, nell’ambito del procedimento di esecuzione, l’eventuale presenza di clausole abusive nel contratto che ha dato luogo al procedimento d’ingiunzione di pagamento e rilevando la particolare onerosità del prestito ottenuto dal consumatore, ha sospeso il procedimento e sottoposto alla Corte di Giustizia UE le seguenti questioni pregiudiziali:
1) Se la direttiva 93/13/CEE debba essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, la quale rende difficile o impedisce il controllo giurisdizionale d’ufficio dei contratti in cui possono sussistere clausole abusive, in quanto non prevede imperativamente il controllo delle clausole abusive né l’intervento di un giudice, salvo i casi in cui il «Secretario judicial» lo ritenga opportuno o i debitori propongano opposizione.
2) Se la direttiva 93/13/CEE debba essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale, come quella esistente nell’ordinamento spagnolo, la quale non consente di riesaminare d’ufficio in limine litis, nel successivo procedimento di esecuzione, il titolo esecutivo giudiziario – decreto emesso dal «Secretario judicial» che pone fine al procedimento d’ingiunzione di pagamento, sotto il profilo dell’esistenza di clausole abusive nel contratto che costituisce il fondamento del decreto di cui si chiede l’esecuzione, in quanto il diritto nazionale considera formatasi la cosa giudicata.
Sull’applicabilità della dir. 93/13 nel procedimento d’ingiunzione e in mancanza di opposizione del consumatore, la Corte si era già pronunciata in materia nella sentenza Banco Español de Crédito, causa 618/10, in cui la Corte ha statuito, in particolare, che la dir. 93/13 dev’essere interpretata nel senso che osta ad una normativa di uno Stato membro che non consente al giudice investito di una domanda d’ingiunzione di pagamento di esaminare d’ufficio, in limine litis, né in qualsiasi altra fase del procedimento, anche qualora disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, la natura abusiva di una clausola inserita in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, in assenza di opposizione proposta da quest’ultimo (paragrafi 35-36).
Nella sentenza in oggetto, la Corte ha precisato che, benché i meccanismi nazionali di esecuzione forzata non risultano, allo stato, armonizzati, la discrezionalità del legislatore interno rimane vincolata dal cd. “principio di effettività,” ovvero quello di non rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti attribuiti ai consumatori dal diritto dell’Unione (paragrafo 40 della decisione), tra cui rientra l’azione di accertamento dell’abusività delle clausole contenute in contratti dei consumatori attribuito dalla dir. 93/13.
Infatti della tutela può essere garantita “solo a condizione che il sistema processuale nazionale consenta, nell’ambito del procedimento d’ingiunzione di pagamento o di quello di esecuzione dell’ingiunzione di pagamento, un controllo d’ufficio della potenziale natura abusiva delle clausole inserite nel contratto di cui trattasi.” (paragrafo 46 della decisione).
La Corte conclude dichiarando che osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che non consente al giudice investito dell’esecuzione di un’ingiunzione di pagamento di valutare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola inserita in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, ove l’autorità investita della domanda d’ingiunzione di pagamento non sia competente a procedere a una simile valutazione.
L’impatto sull’ordinamento italiano
Il procedimento ingiuntivo (art. 633 c.p.c.), attivabile dal creditore in caso dia prova scritta del credito (art. 633, n. 1 c.p.c.) e questo consista nel pagamento di una somma liquida di denaro (come nel caso preso in esame dalla Corte UE) è costruito nell’ordinamento come un procedimento sommario a struttura bifase, di cui la prima (monitoria in senso stretto) necessaria e propedeutica alla formazione del titolo esecutivo (“decreto ingiuntivo”), e la seconda (di opposizione) solo eventuale e volta a far valere fatti impeditivi, modificativi o estintivi del credito da parte del debitore.
Ne deriva che eventuali rilevazioni sulla nullità relativa delle clausole abusive in un contratto di credito al consumo possono essere fatte valere esclusivamente nel giudizio di opposizione (art. 645 c.p.c.), proposto nel termine di 40 giorni, con cui viene impugnato il decreto ingiuntivo da parte del debitore.
Nonostante l’accertamento della natura abusiva della clausola sembrerebbe richiedere l’instaurazione di un contraddittorio in forma piena, la Corte sembra porre sull’organo giudicante l’obbligo di accertare, pur con riferimento ai documenti presentati dal solo creditore per l’ottenimento del decreto ingiuntivo, l’eventuale presenza di clausole vessatorie, e di conseguenza di “nullità relative” prima della concessione del decreto ingiuntivo all’istante e indipendentemente dalla instaurazione del giudizio di opposizione.
La sentenza della Corte di Giustizia in esame ha efficacia extraprocessuale, qualora immediatamente applicabile, e condiziona l’interpretazione del diritto nazionale al fine di assicurarne la conformità a quello dell’Unione Europea, come precisato dalla Corte Costituzionale (Corte cost., sentenza n. 113/1985, par. 5). Ciò fa sorgere l’esigenza di coordinare, ai fini della corretta interpretazione del diritto nazionale, la sentenza in commento con gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità.
L’intervento della Corte Ue deve infatti essere letto, in più ampia prospettiva, tenendo in considerazione le pronunce della Corte di Cassazione riguardanti la rilevabilità delle nullità in sede di risoluzione del contratto per inadempimento e condanna al risarcimento del danno subito dal creditore.
In particolare, la sentenza Cass. Sez. Un. Civ. 4 settembre 2012, n. 14828 ha stabilito che, quando si faccia questione di un atto la cui validità rappresenta un elemento costitutivo della domanda, indipendentemente dalla natura della domanda giudiziale proposta dalle parti, il giudice ha sempre il potere di rilevare dai fatti allegati o provati agli atti ogni forma di nullità, ed anzi è tenuto a farlo, eventualmente anche rigettando la domanda attorea, ma nella successiva Cass. Civ. Sez. Un n. 26242/2014 il Supremo Collegio ha precisato che, quanto si tratti di nullità relative, il giudice può solo indicare alla parte, nel cui interesse sono poste, le cause di nullità, senza potersi sostituire alla determinazione di questa (ad. es., rigettando d’ufficio la domanda).
Con riferimento alla rilevabilità in sede di procedimento d’ingiunzione, la pronuncia della Corte Ue legittima come unica valida l’interpretazione della prima sezione civile della Corte di Cassazione, sentenza n. 24483/2013, che ha ammesso che il giudice possa rilevare d’ufficio la causa di nullità che inficia il contratto in forza del quale viene azionato il credito.
La sentenza in commento amplia il genus delle nullità rilevabili dal giudice, includendo anche le nullità di protezione ex art. 36 d.lgs. 206/2005 e, alla luce dell’interpretazione della Corte UE nel caso concreto, trattandosi di un contratto di credito al consumo, la particolare applicazione dell’istituto contenuta nell’art. 127, c. 2 del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia). Rimane aperta la rilevabilità delle nullità relative in sede di giudizio d’esecuzione, ma ciò non sembra necessario ove il titolo esecutivo si sia formato a seguito di procedimento monitorio.
Note:
[1] “Può ricorrere al procedimento d’ingiunzione colui che richieda ad un terzo il pagamento di un debito pecuniario certo, scaduto e esigibile, di qualsiasi importo, purché la prova di tale debito venga fornita in uno dei modi che seguono: 1) attraverso la presentazione di documenti, indipendentemente dalla loro forma, dal loro tipo o dal loro supporto fisico, che risultino sottoscritti dal debitore[…]”.
[2] “Qualora i documenti allegati alla domanda (…) costituiscano un principio di prova del diritto del richiedente, confermato da quanto esposto nella domanda (…), il “Secretario judicial” ingiunge al debitore di pagare il richiedente, entro un termine di venti giorni, e di fornire al Tribunale le prove di tale pagamento, oppure di comparire dinanzi ad esso e di esporre sinteticamente, mediante atto di opposizione, i motivi per i quali egli ritiene di non essere debitore, integralmente o parzialmente, dell’importo richiesto. (…) 3. Qualora dai documenti allegati alla domanda si evinca che l’importo richiesto non è corretto, il “Secretario judicial” ne dà comunicazione al giudice, il quale eventualmente, mediante ordinanza, potrà proporre al richiedente di accettare o respingere una proposta di richiesta di pagamento per un importo inferiore a quello inizialmente richiesto, che viene specificato. Nella proposta egli deve informare il richiedente che, qualora la sua risposta non pervenga entro un termine massimo di dieci giorni o sia negativa, ciò verrà considerato quale rinuncia da parte sua”.
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Pubblicato su AmbienteDiritto.it l’8 Aprile 2016
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