Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia come unica fonte indiziaria del reato di cui all’art. 416 bis c.p.: l’accusa afferente la generica partecipazione alla consorteria mafiosa non integra la gravità indiziaria richiesta per l’emissione della misura cautelare custodiale.
ALFREDO FOTI*
Cassazione Penale, Sez. VI, ud. 25/10/2011 – dep. 8/11/2011, n. 40520
Pres. De Roberto – Rel. Citterio – Ric. F.G.
MASSIMA
“La convergenza di plurime attendibili dichiarazioni che si limitino ad affermare la conosciuta appartenenza ad un sodalizio criminoso configura meri indizi di colpevolezza non idonei all’adozione di misura cautelare personale ai sensi dell’art. 273 c.p.p.. La convergenza di plurime attendibili dichiarazioni che attestino la conosciuta appartenenza al sodalizio criminoso configura la gravità indiziaria imposta dall’art. 273 c.p.p. solo quando almeno una di tali attendibili dichiarazioni indichi specifici comportamenti/fatti che possano ritenersi, sul piano logico, significativi di un consapevole apporto al perseguimento degli interessi del sodalizio, e che debbono essere oggetto di specifica motivazione proprio in ordine a tale loro significatività”
PREMESSA
Preliminarmente rispetto alla disamina della pronuncia oggetto del presente commento, è necessario effettuare un breve, ma significativo, excursus sull’istituto della chiamata in reità e, ancor prima, trattandosi di sentenza cautelare, sui presupposti di cui all’art. 273 c.p.p. .
Il tutto, con la precipua finalità di accertare se, ed eventualmente in che termini, le generiche dichiarazioni di accusa dei collaboratori di giustizia possano fondare e legittimare un titolo custodiale per il reato di associazione mafiosa e, quindi, più genericamente, un giudizio di gravità indiziaria.
LE CONDIZIONI GENERALI PER L’APPLICABILITÀ DI MISURE CAUTELARI PERSONALI
Ai sensi dell’articolo 273 del codice di procedura penale, i gravi indizi di colpevolezza rappresentano la condicio sine qua non per l’applicazione di misure restrittive della libertà personale – quantomeno dopo la modifica, apportata con la legge 330/1988, all’articolo 252 del precedente codice di rito che, invece, richiedeva la mera presenza di “sufficienti” indizi di colpevolezza.
Tale principio, normativamente inconfutabile, è stato oggetto di numerosi arresti giurisprudenziali, finalizzati ad individuare e determinare con maggiore precisione la concreta portata della c.d. “gravità indiziaria”, onde scongiurare il pericolo di iniziative cautelari in assenza dei requisiti e dei presupposti richiesti ad substantiam.
In particolare, i gravi indizi andrebbero riscontrati in quegli elementi a carico – diretti o indiretti – che, resistendo ad interpretazione alternative, caratterizzati da una consistenza quantitativamente e qualitativamente adeguata, consentono – sulla scorta di un giudizio prognostico – di prevedere che, mediante la futura acquisizione di elementi ulteriori, saranno idonei a fondare e dimostrare la penale responsabilità del soggetto, essendo nel frattempo significativi di un elevata probabilità di colpevolezza1.
Altrimenti detto, la persona indagata può essere sottoposta a misure cautelari solo in presenza di elementi indiziari tali da potere, successivamente, essere posti a fondamento di un giudizio di colpevolezza che, allo stato, si manifesta solo in termini di elevata probabilità.
Conseguentemente, è necessario accertare se – ed, eventualmente, in che termini – le propalazioni dei collaboratori di giustizia possano essere considerate quali integranti il presupposto di cui all’art. 273 c.p.p. .
LA VALUTAZIONE DELLE CHIAMATE IN REITÀ
Preliminarmente rispetto alla trattazione nel merito della problematica giuridica de qua, è utile specificare come, negli ultimi anni, si erano formati due diversi orientamenti giurisprudenziali in materia.
Secondo il primo e maggioritario indirizzo, nel caso in cui l’unica fonte di accusa fosse stata rappresentata dalle dichiarazioni del collaboratore, le stesse avrebbero dovuto essere “riscontrate ab externo”2, ovvero sulla scorta di elementi ulteriori rispetto a quelli provenienti dal dichiarante, ritenuti assolutamente necessari e funzionali al giudizio di credibilità del chiamante3. Il tutto, onde evitare la c.d. “circolarità della prova”4, ovvero quel meccanismo secondo cui la verifica della attendibilità del dichiarante si esaurisca con la chiamata stessa, e cioè sulla scorta degli argomenti tratti dal contenuto della stessa dichiarazione, senza pertanto la necessità di elementi differenti ed ultronei.
Altro, contrapposto e minoritario orientamento negava, invece, la necessaria sussistenza di riscontri esterni alle chiamate in reità, ritenendo che le dichiarazioni dei collaboratori, qualora dotate dei requisiti della chiarezza, della indipendenza, della convergenza, della specificità e della attendibilità intrinseca, fossero da sole, sic et simpliciter, sufficienti ad integrare la gravità indiziaria richiesta per l’emissione della misura custodiale.
Le Sezioni Unite della Cassazione sono intervenute, nel 2006, al fine di dirimere il contrasto giurisprudenziale suddetto: la questione giuridica su cui sono state chiamate a pronunciarsi è, sostanzialmente, se, a fini della gravità indiziaria di cui al codice di rito, la chiamata in reità – comunque intrinsecamente attendibile – debba essere confermata da “riscontri esterni individualizzanti”.
Il Supremo Consesso5 ha chiarito come le dichiarazioni dei collaboratori possono integrare i gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 273 c.p.p. – e, pertanto, legittimare una misura cautelare – solo ed esclusivamente se, ferma restando la loro intrinseca attendibilità, siano supportate da riscontri esterni individualizzanti, significativi – in termini di elevata probabilità – della colpevolezza del chiamato e, cioè, aventi idoneità dimostrativa in relazione alla attribuzione del fatto di reato al soggetto destinatario della misura.
Tela pronuncia sancisce la fondamentale importanza dei riscontri esterni individualizzanti, quali elementi la cui sussistenza è richiesta ad substantiam per legittimare una misura cautelare che si fondi solo ed esclusivamente su dichiarazioni di collaboratori di giustizia. I suddetti riscontri assolvono ad una funzione essenziale: quella di suffragare, in termini di oggettività e concretezza, quelle che altrimenti sarebbero delle mere – e, sic et simpliciter, processualmente inutilizzabili – dichiarazioni di penale responsabilità rese da un soggetto a carico di altro individuo. Dichiarazioni che, se prive di tali riscontri, non potrebbero in alcun modo essere poste a fondamento di una misura cautelare, stante la importanza e la funzionalità degli stessi relativamente al giudizio di credibilità del chiamante.
In altre parole, la sussistenza dei riscontri individualizzanti non deve essere fine a se stessa: tali riscontri devono, infatti, garantire anzitutto la valutazione della credibilità del collaboratore, secondariamente l’efficacia indiziaria della dichiarazione resa da quest’ultimo nonché, infine, la razionalità – in termini sia di ragionevolezza che di legittimità – della eventuale misura cautelare, rispetto alla cui decisione la sussistenza dei suddetti riscontri rappresenta una condizione necessariamente prodromica.
Ovviamente, tali elementi di supporto saranno “individualizzanti” allorché – siano essi di qualsiasi tipo e natura, anche di ordine puramente logico – riguardino direttamente la persona dell’incolpato con specifica relazione ai reati ad esso addebitati6: ovvero, riscontri necessariamente caratterizzati da elementi fattuali direttamente riferibili all’incolpato ed alla sua condotta, che suffraghino oggettivamente le dichiarazioni, con elementi specifici e concreti – in termini di fatto o di condotta – idonei, pertanto, a storicizzare l’accusa7.
Giova precisare, infine, come i principi di diritto statuiti dalle Sezioni Unite del 2006 sono stati successivamente – ed anche recentemente8 – ripresi e confermati in toto dalle Sezioni Singole, con la quasi definitiva scomparsa dell’orientamento minoritario contrapposto suddetto.
Fermo restando tutto quanto fin’ora esplicitato, è ora necessario precisare come non sempre la presenza di tali riscontri esterni rappresenta la condicio sine qua non per la validità indiziaria delle affermazioni del chiamante, potendo le stesse, potenzialmente, trovare riscontro diretto anche nelle propalazioni di altro collaboratore, nell’alveo dei c.d. “riscontri incrociati”9, caratterizzati da plurime chiamate in reità. Tuttavia, ancora più rigidi saranno i criteri ed i parametri di valutazione in tal caso, stante il rischio di emettere ordinanze restrittive della libertà personale solo ed esclusivamente sulla scorta di mere dichiarazioni, prive di riferimenti oggettivi ed estrinseci.
La Corte Regolatrice ha, infatti, inconfutabilmente affermato come, nel caso in cui sussistano più dichiarazioni convergenti – che siano anche indipendenti, specifiche e reciprocamente confermative10 – le stesse non costituiscano sempre e comunque, sic et simpliciter, grave indizio della responsabilità del chiamato, indipendentemente dalle “peculiari connotazioni probatorie” della fattispecie esaminata11.
In altre parole, le plurime chiamate in reità, per poter assurgere alla gravità indiziaria richiesta per l’emissione del titolo custodiale, richiedono necessariamente, ad substantiam, che la loro disamina venga effettuata unitamente al prudente apprezzamento dei restanti dati probatori che caratterizzano il caso: pertanto, le ulteriori chiamate potranno essere ritenute di riscontro alla prima solo se compatibili con l’intero quadro indiziario acquisito; solo così si potrà effettivamente accertare se le dichiarazioni siano o meno “autosufficienti” o se, al contrario, per raggiungere il livello del grave indizio, necessitino di elementi confermativi esterni12.
COLLABORATORI DI GIUSTIZIA ED ASSOCIAZIONE MAFIOSA
Una volta definiti i criteri generici di valutazione delle chiamare in reità, è possibile rapportare tutto quanto fin’ora argomentato alla specifica fattispecie delittuosa di cui all’art. 416 bis c.p.: ovvero, al caso in cui un soggetto assuma lo status giuridico di indiziato di partecipazione ad associazione mafiosa solo ed esclusivamente sulla scorta di plurime, ma generiche, dichiarazioni in tal senso da parte di differenti collaboratori.
(Segue) IL CASO
Più in particolare, si faccia riferimento alla fattispecie oggetto dell’arresto giurisprudenziale di cui in epigrafe.
Il Tribunale della Libertà di Caltanissetta rigettava il ricorso avanzato da tale F.G. avverso l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa per il reato di cui all’articolo 416 bis del codice penale, e confermava il provvedimento restrittivo, statuendo come la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza relativamente alla attuale partecipazione al sodalizio mafioso, emergerebbe dalle plurimi, attendibili e conformi dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia.
L’indagato proponeva ricorso per Cassazione avverso il provvedimento del Tribunale del Riesame, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione in ordine agli artt. 273, 274 e 275 c.p.p., in quanto, più specificamente, l’ordinanza impugnata si sarebbe fondata solo ed esclusivamente sulle dichiarazioni di alcuni collaboratori che, in modo assolutamente generico, avrebbero attestato la partecipazione del F.G. ad una consorteria mafiosa, senza fornire alcun riscontro a riguardo.
LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La questione giuridica sottoposta all’attenzione della Corte di Legittimità è, sostanzialmente, afferente la valutazione della eventuale sussistenza della gravità indiziaria ex art. 273 c.p.p. in presenza di plurime affermazioni di collaboratori di giustizia che si limitino ad attestare genericamente la appartenenza di un soggetto ad un sodalizio criminale.
Ovvero, altrimenti detto, ciò su cui i Supremi Giudici sono chiamati a pronunciarsi è accertare se, al fine di emettere una misura cautelare carceraria per la asserita partecipazione di un soggetto ad una consorteria mafiosa, è sufficiente la sussistenza a riguardo di plurime – ma generiche – dichiarazioni di diversi collaboratori o, a contrario, è necessario che tali propalazioni, per quanto attendibili e convergenti, siano suffragate da ulteriori indicazioni, più specificamente afferenti la condotta partecipativa del ritenuto sodale.
Ora, secondo la Sesta Sezione Penale della Corte Regolatrice, le affermazioni suddette, caratterizzate dalla generica attribuzione della qualifica di “uomo d’onore”13, e dall’altrettanto generico inserimento dello stesso all’interno di un organigramma mafioso, per quanto debbano essere considerate quale dato sicuramente indiziario, non possono tuttavia, sic et simpliciter, assurgere al crisma della gravità indiziaria richiesta per l’emissione di un titolo custodiale.
In effetti, qualora tali dichiarazioni non si fossero limitate ad attestare la generica partecipazione di un soggetto ad una consorteria mafiosa ma, al contrario, fossero state integrate e suffragate da ulteriori “riferimenti a condotte, comportamenti, fatti specifici”, non necessariamente aventi autonoma rilevanza penale, ma quantomeno significativi di un “consapevole intento di contribuire al perseguimento degli interessi del sodalizio”, in tal caso, le stesse avrebbero potuto essere inquadrate nell’alveo dei gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 273 c.p.p. e, conseguentemente, avrebbero potuto legittimare una misura custodiale, pur in assenza di riscontri esterni in senso stretto.
Diversamente, l’assenza di tali ulteriori riferimenti fattuali, inficia necessariamente la portata indiziaria delle propalazioni dei collaboratori che, per quanto attendibili, non risultano supportare le loro generiche affermazioni con specifiche ed ulteriori indicazioni significative relativamente alla appartenenza al sodalizio ed al perseguimento degli scopi dello stesso.
Pertanto, in conclusione, dalla statuizione giurisprudenziale de qua, si evince pacificamente come le plurimi e conformi dichiarazioni di diversi collaboratori, per assurgere al crisma della gravità indiziaria richiesta per l’emissione di una misura cautelare carceraria, necessitano di specifici riferimenti ad elementi di fatto o di condotta significativi del concreto e doloso contributo offerto alla consorteria.
(Segue) IL PRINCIPIO DI DIRITTO
Sulla scorta di tutto quanto sopra appare, quindi, corretto inquadrare la statuizione giurisprudenziale brevemente esaminata in quello che è l’orientamento maggioritario della Corte di Cassazione in tema di valutazione delle plurime propalazioni dei collaboratori di giustizia.
In particolare, i Supremi Giudici – come prima meglio esplicitato – hanno avuto più volte modo di affermare come l’esistenza di plurime dichiarazioni convergenti non costituisce automaticamente, sic et simpliciter, prova della responsabilità del soggetto nei cui confronti sono dirette, indipendentemente dalle peculiari connotazioni probatorie della fattispecie esaminata.
Infatti, affinché le plurime dichiarazioni – provenienti da soggetti comunque ritenuti intrinsecamente attendibili – possano essere considerate “autosufficienti” – cioè non necessitanti di riscontri esterni alle stesse – e, pertanto, costituenti reciproco riscontro, esse dovranno essere significative non solo della mera e generica partecipazione al sodalizio criminoso ma, più specificamente, del ruolo e della attività del soggetto all’interno dello stesso, si da assumere idoneità dimostrativa in relazione all’attribuzione del fatto-reato al destinatario della misura cautelare.
Altrimenti, nel caso in cui manchino tali precisi riferimenti, sarà necessario reperire degli elementi esterni ed ulteriori rispetto alle affermazioni dei collaboratori, che siano quindi di conferma e di supporto alle stesse (elementi evidentemente mancanti nella fattispecie de qua).
Ergo, è stata proprio la mancanza di specificità indiziante in capo alle propalazioni dei chiamanti che ha fatto si che i Giudici della Sesta Sezione Penale della Corte di Legittimità decidessero per l’accoglimento del ricorso e per il conseguente annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.
La necessità di un nuovo esame dell’ordinanza cautelare – come si evince, ictu oculi, dal corpo motivazionale della pronuncia – deriva proprio dalla assoluta mancanza di specifici e contestualizzati riferimenti fattuali alla presunta intraneità dell’indagato al sodalizio mafioso.
La permanenza del vincolo associativo non può, infatti, essere semplicemente presunta: per sostenere la tesi che attualmente l’indagato faccia parte di un sodalizio mafioso, è necessaria la presenza di elementi indiziari gravi, oggettivi e specifici, idonei a dimostrare la costante, effettiva ed attuale partecipazione del soggetto al sodalizio criminale14.
Altrimenti detto, è richiesta, ad substantiam, la sussistenza di indizi dotati di una tale gravità da poter essere posti a fondamento di un giudizio prognostico sull’alta probabilità di una futura condanna per il reato associativo a carico del chiamato e, quindi, a fortiori, di un giudizio presente sulla attribuibilità del reato allo stesso indagato, in termini di altrettanta alta probabilità15.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Dalla summa delle argomentazioni sin’ora esplicitate emerge, chiaramente, la ratio della statuizione giurisprudenziale de qua.
La precipua ed ovvia finalità perseguita con tale sentenza, è quella di evitare che le propalazioni dei collaboratori si risolvano in meri giudizi soggettivi, e che l’esistenza del fatto di reato – anche se solo a livello di gravità indiziaria ex art. 273 c.p.p. – venga desunta esclusivamente, sic et simpliciter, dalle isolate dichiarazioni degli stessi soggetti.
In effetti, le chiamate in reità, prima di essere poste a fondamento di qualunque provvedimento – in particolar modo se trattasi di provvedimento restrittivo della libertà personale – devono necessariamente essere sottoposte ad un rigoroso e scrupoloso vaglio da parte degli organi inquirenti prima, e della autorità giudiziaria dopo, onde evitare che un soggetto possa subire conseguenze pregiudizievoli – come, ad esempio, proprio la custodia cautelare carceraria – sulla scorta di generiche e non riscontrate dichiarazioni.
In particolare, nel caso de quo, qualora le propalazioni dei chiamanti – comunque ritenuti attendibili – fossero state suffragate ed integrate da specifici riferimenti a concreti dati di fatto o di condotta, significativi di una elevata possibilità – in termini di gravità indiziaria, e non di mera sufficienza – di partecipazione dell’indagato ad una associazione mafiosa, di certo le stesse sarebbero state ritenute sufficienti a legittimare una misura cautelare custodiale: diversamente, la Corte Suprema non può che decidere – conformemente ai dettami codicistici e costituzionali – per un annullamento dell’impugnata ordinanza, anche se con rinvio.
Pertanto, in conclusione, risulta pacifico ed evidente come l’assenza di riscontri esterni può essere sopperita dalla sussistenza di plurime – convergenti, indipendenti, e reciprocamente confermative – dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia, tuttavia, risulterà elemento fondamentale – ai fini del raggiungimento dei requisiti di cui all’art. 273 c.p.p. – la sussistenza, in capo alle dette plurime chiamate in reità, della specificità indiziaria, afferente la indicazioni di dati di fatto o di condotta idonei a storicizzare, contestualizzare e riscontrare l’accusa: in assenza degli stessi, potrà fondarsi solo un giudizio di mera sufficienza indiziaria, come tale non idoneo a legittimare un titolo custodiale.
*Avvocato
1 Cass. Pen., S.U., 21/4/1995, ric. Costantino; Cass. Pen., S.U., 30/5/2006, n. 16, ric. Spennato; Cass. Pen., Sez. I, 20/9/2006, n. 35710, ric. Arangio Mazza; Cass. Pen., Sez. I, 24/10/2006, n. 37940, ric. De Cristofaro.
2 Cass. Pen., Sez. I, 14/11/2001, ric. Caliò; Cass. Pen., Sez. I, 7/2/2002, ric. Selliamone; Cass. Pen., Sez. VI, 3/12/2004, ric. Sapia – Cass. Pen., Sez. I, 21/11/2005, ric. Cavalcanti – Cass. Pen., Sez. IV, 2/12/2005, ric. Baldassi – Cass. Pen., Sez. I, 13/12/2005, ric. Sinesi – Cass. Pen., Sez. I, 4/5/2005, ric. Lo Cricchio; ed altre.
3 Cass. Pen., Sez. II, 18/11/2003, n. 49212.
4 Cass. Pen., Sez. I, 29/11/2000, ric. Ganci; Cass. Pen., Sez. I, 4/1/1999, ric. Iamonte.
5 Cass. Pen., S.U., 30/10/2006, n. 36267.
6 Cass. Pen., Sez. I, 10/11/2003, n. 4178/04, ric. Borgo + altri.
7 Cass. Pen., Sez. VI, 14/2/1997, n. 665; Cass. Pen., Sez. VI, 14/2/1997, n. 638; Cass. Pen., Sez. VI, 14/2/1997, n. 667; Cass. Pen., Sez. II, 29/11/1995, n. 5142.
8 Cass. Pen., Sez. I, 2/3/2010 n. 11058, ric. Abbruzzese; Cass. Pen., Sez. I, 17/5/2011, n. 19759, ric. Misseri.
9 Cass. Pen., Sez. I, 19/3/2003, ric. Vitale.
10 Cass. Pen., Sez. II, 4/6/1991, ric. Leonetti; Cass. Pen., Sez. I, 30/1/1991, ric. Bizantino.
11 Cass. Pen., Sez. I, 11/7/2003, n. 35508; Cass. Pen., Sez. V, 5/12/2002, n. 43464, ric. Pinto.
12 Cass. Pen., Sez. I, 13/6/2001, n. 29679, ric. Chiofalo; Cass. Pen., Sez. I, 25/10/2001, n. 43928, ric. Annaloro ed altri.
13 Conf., Cass. Pen., S.U., 20/9/2005, n. 33748.
14 Cass. Pen., Sez. I, 11/1/2008, n. 1470.
15 Cass. Pen. Sez. III, 22/1/2002, n. 9233.
Pubblicato su AmbienteDiritto.it il 12 marzo 2012