Anno: 2012 | Autore: STEFANO PALMISANO

 

Regole e tutela dell’ambiente e della salute pubblica: “una storia semplice”.

STEFANO PALMISANO

Tagliare i costi della burocrazia per le imprese e ‘disboscare’ la giungla delle procedure è dunque impegno prioritario dell’azione di Governo. In effetti, ridurre gli oneri amministrativi che gravano sulle imprese è una riforma che non costa, libera risorse per la  crescita e, favorendo un migliore ambiente imprenditoriale, fa aumentare l’interesse degli investitori internazionali a sviluppare iniziative economiche nel nostro Paese.

Così nella relazione di accompagnamento (pag. 2) al “Disegno di legge per la conversione in legge del decreto legge 9 febbraio 2012, n. 5, recante disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo.

L’articolato in questione, peraltro, costituisce apertamente il corollario del più ampio “decreto liberalizzazioni” (D. L. 24 gennaio 2012 n. 1 “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”), anch’esso solennemente ispirato ai sacri principi di “libertà di iniziativa economica sancito dall’articolo 41 della Costituzione e [….] di concorrenza sancito dal Trattato dell’Unione europea.”

Assodato, pertanto, che il combinato disposto di questi testi legislativi, ed in particolare di quello “di semplificazione”, è tutto teso a “favorire un migliore ambiente imprenditoriale”, può risultare interessante provare a capire se quelle norme siano destinate a favorire anche un miglior ambiente naturale.

In tal senso, si concentrerà l’attenzione in queste brevi note su un paio di questioni specifiche (tra molte), portatrici di una notevole carica esemplificativa del senso dichiarato e delle implicazioni inespresse di questo nuovo complesso normativo “salvacresciequi….. Italia”.

La prima riguarda la Scia (Segnalazione certificata d’inizio attività), l’ultimo frutto, in ordine di tempo, dell’inesauribile fantasia del legislatore edilizio nostrano (anche se l’istituto non nasce direttamente in quest’ambito), grazie al quale, ormai da due anni, si può avviare un cantiere senza dover attendere neanche i 30 giorni richiesti con la vecchia Denuncia d’inizio attività (Dia).

In seguito alla quarta modifica normativa (quella che ci occupa) apportata in due anni a questo strumento, oggi si statuisce che la Scia deve esser corredata dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati solo “ove espressamente previsto dalla normativa vigente (art. 2).

La previsione in esame, come si accennava, è emblematica di una linea di tendenza normativa quantomeno “a doppio taglio”.

L’intento del legislatore, infatti, è chiaramente quello di sottrarre margini di discrezionalità agli uffici comunali nella richiedibilità al privato dei documenti in questione.

Questa novità certamente potrebbe concorrere a delineare un quadro normativo di riferimento improntato a livelli decisamente maggiori di certezza del diritto, più precisamente di obblighi e diritti, a beneficio di chi intenda avviare un’opera edilizia tramite Scia; ossia, più in senso lato, per stare alla ratio della legge, a beneficio di un “miglior ambiente imprenditoriale”.

Ma, il prezzo che si rischia fortemente di pagare è la demolizione dell’ennesima parte di prerogative dell’ente comunale in materia di gestione urbanistico – edilizia, ossia di governo e tutela del suo territorio; proprio di quell’ente, cioè, cui, in prima e più immediata battuta, sono demandati questi fondamentali compiti ambientali.

Per comprendere appieno la portata applicativa (ed i possibili effetti concreti) di questa norma, può risultare utile una sua lettura “in sinossi” con uno dei fondamentali principi codificati nel decreto sulle liberalizzazioni, su citato; quello sancito all’art. 1 per il quale “il Governo, previa approvazione da parte delle Camere di una sua relazione che specifichi, periodi ed ambiti di intervento degli atti regolamentari, è autorizzato ad adottare entro il 31 dicembre 2012 uno o più regolamenti, ai sensi dell’articolo 17,comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, per individuare le attività per le quali permane l’atto preventivo di assenso dell’amministrazione, e disciplinare i requisiti per l’esercizio delle attività economiche, nonché i termini e le modalità per l’esercizio dei poteri di controllo dell’amministrazione, individuando le disposizioni di legge e regolamentari dello Stato che, ai sensi del comma 1, vengono abrogate a decorrere dalla data di entrata in vigore dei regolamenti stessi.

In pratica, è lo stesso Esecutivo che si autoattribuisce il potere di decidere quali attività economiche debbano sottostare ad autorizzazione, quali a Scia “asseverata”, quali a Scia non asseverata, quali a mera comunicazione e quali, infine, debbano risultare del tutto libere.

Quanto sopra “previa approvazione delle Camere”. Ma, siccome le Camere, cioè “la politica”, oggi è ridotta ad uno stato men che larvale, almeno per quanto riguarda la capacità di incidere sulle scelte alte che riguardano le sorti del Paese, pare abbastanza facilmente prevedibile che quelle Camere approveranno tutto quello che proviene da questo Esecutivo senza frapporre particolari obiezioni, come peraltro è già accaduto con i decreti legge che ci occupano. Il tutto in rigoroso stile bipartisan, come impone l’etichetta dell’era “tecnica”.

Non pare sospetto particolarmente immaginario e\o dietrologico paventare, sulla scorta della lettera e dello spirito della legge, per non dire, più appropriatamente, dei principi ispiratori e della “missione” di questo Governo, che quella che oggi viene proposta come mera “semplificazione” di un pezzo ormai rilevantissimo dell’attività edilizia in questo Paese, in realtà, sia destinata a diventare una vera e propria, ulteriore, liberalizzazione anche in quest’ambito; ben più incisiva, anzitutto nei confronti di quel che resta del territorio nazionale.
In questo quadro di riferimento “riformatore”, spicca poi un’altra disposizione, stavolta in materia di controlli, quella di cui all’art. 14 del decreto semplificazioni, rubricata, per l’appunto, “Semplificazione dei controlli sulle imprese.”, materia, anche questa, connotata da un ruolo “centrale” (per usare un eufemismo) dell’Esecutivo.

Vi si legge, al comma 3, che “Al fine di promuovere lo sviluppo del sistema produttivo e la competitivita’ delle imprese e di assicurare la migliore tutela degli interessi pubblici, il Governo e’ autorizzato ad adottare, [….] uno o piu’ regolamenti [….] volti a razionalizzare, semplificare e coordinare i controlli sulle imprese. I regolamenti”, prosegue il successivo c. 4, “sono emanati su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, del Ministro dello sviluppo economico e dei Ministri competenti per materia, sentite le associazioni imprenditoriali in base ai seguenti principi e criteri direttivi, [….]:
 a) proporzionalita’ dei controlli e dei connessi adempimenti amministrativi al rischio inerente all’attivita’ controllata, nonche’ alle esigenze di tutela degli interessi pubblici;
 b) eliminazione di attivita’ di controllo non necessarie rispetto alla tutela degli interessi pubblici;
[….]
d) collaborazione amichevole con i soggetti controllati al fine di prevenire rischi e situazioni di irregolarita’;
[….]
f) soppressione o riduzione dei controlli sulle imprese in possesso della certificazione del sistema di gestione per la qualita’ (UNI EN ISO-9001), o altra appropriata certificazione emessa, a fronte di norme armonizzate, da un organismo di certificazione accreditato da un ente di accreditamento designato da uno Stato membro dell’Unione europea ai sensi del Regolamento 2008/765/CE, o firmatario degli Accordi internazionali di mutuo riconoscimento (IAF MLA).

A parte che non si capisce la ragione per la quale il Governo, prima di procedere all’emanazione dei regolamenti in questione, debba sentire solo “le associazioni imprenditoriali” e non anche quelle sindacali, le “perplessità” maggiori sono assai più di sostanza e involgono la lettera e lo spirito di questo articolato.

La lettera è quella per la quale una mera certificazione di cui si doti un’azienda può comportare per quella un pressoché  incondizionato salvacondotto, in termini di parziale o totale soppressione di controlli pubblici.

Lo spirito è quello di trasformare, anche sulla carta, la P.A. italiana in un soggetto non più pienamente regolatore ex ante e controllore ex post rispetto ad un’attività economica, ma solo depositario della seconda prerogativa citata, in relazione a dati e attività “autocertificati” dai diretti interessati; il tutto in un quadro di vincoli rigidamente delimitati e limitanti, verrebbe da dire di “lacci e lacciuoli” a carico dello stesso soggetto pubblico, per mutuare il più noto e logoro tormentone della vulgata antistatalista.

Quali possano essere i rischi, prossimi e ultimi, di quest’ennesima raffica “semplificatoria” per l’ambiente e, dunque, per la salute pubblica in questo Paese ci vuol davvero poco ad intuire da chiunque guardi a quest’ultimo, al suo stato “civile”, con occhi e mente men che abbacinati da persistenti (recidivanti, verrebbe da dire più propriamente) abbagli neo-liberisti da “Stato minimo”.

Anzitutto, il primo dubbio che s’impone alla lettura di queste “rivoluzionarie” riforme legislative è quello, già lucidamente rilevato in dottrina, per cui “al lodevole intento di snellire le procedure burocratiche, l’appesantimento normativo, fa da contrasto la dubbia capacità dell’amministrazione di riuscire ad espletare meglio le funzioni assegnate per la tutela del territorio. [….] Perché mai l’amministrazione, senza interventi strutturali che ne migliorino l’efficienza, dovrebbe riuscire in modo più tempestivo nell’attività di controllo successivo piuttosto che in quello preventivo?” (Rapicavoli, La liberalizzazione delle attività economiche e la coerenza con l’art. 41 della costituzione – le criticità”, in AmbienteDiritto.it).

Ma, soprattutto, quelli più profondi, dissimulati (neanche tanto) tra le pieghe di queste norme e delle loro interpretazioni autentiche contenute in atti ufficiali come le relazioni di accompagnamento, rischiano di essere i danni prodotti alla cultura giuridica di uno Stato di diritto, per non dire di un Paese civile, più precisamente il nostro (come non bastassero quelli devastanti già loro inferti, per un decennio almeno, dal precedente Esecutivo e dalla precedente maggioranza parlamentare, i “guasti dell’anima” del Paese, come lì definì il grande Franco Cordero).

L’assunto, cioè, per il quale il “disboscamento della giungla delle procedure” voglia dire, perciò stesso, il ricorso al napalm della deregulation; il dogma per cui la stessa idea di regole, di procedure, di controlli seri, di sanzioni effettive debba esser eradicata dalla coscienza giuridica e civile di questo Paese, per esser sostituita con quella di “collaborazione amichevole con i soggetti controllati”, un Paese, ahimè, che, com’è noto, nella sua gran parte non rifulge precisamente per le sue virtù civiche e per la sua etica pubblica.

Con la più che probabile conseguenza di ogni processo di viscerale deregolazione: quella di crearla sul serio una giungla, quella sociale, nella quale, regolarmente, finisce per trionfare non il puro merito ed il limpido talento, e men che meno la tutela dei beni comuni (a partire dall’ambiente e dalla salute pubblica), ma la forza bruta, anche e soprattutto economico – patrimoniale, l’assenza di scrupoli e, per quanto riguarda in particolare la cifra antropologica di questo Paese, la discendenza dinastica e l’appartenenza clanica.

Chissà se, davvero, “l’Europa ci chiede tutto questo”, solo per affermare il “principio di concorrenza sancito dal Trattato dell’Unione europea.

Chi scrive non lo pensa affatto, ma, se anche così, sciaguratamente, dovesse davvero essere, non sarebbe, comunque, una buona ragione per farlo.

Fasano, 14\2\2012

    “Credo che il cambiamento dell’umore della pubblica opinione sia dipeso soprattutto dalla seguente circostanza.
Finché nelle inchieste erano coinvolti solo personaggi di alto livello (perché le prove ci portavano lì) le indagini avevano la chiara solidarietà dei cittadini, che certamente non si identificavano con loro.
Quando però le prove hanno iniziato a portare le indagini anche verso persone comuni, l’atteggiamento della collettività è mutato.
Io credo che non pochi, a quel punto, abbiano cominciato a riconoscersi in chi veniva scoperto, e si siano chiesti: ‘Ma i magistrati cosa vogliono, venire a vedere quello che faccio io?’ e abbiano in conseguenza modificato il proprio approccio.
Non dimenticare che questo è un Paese che solo quanto a evasione fiscale registra un numero impressionate di illeciti.
” (G. COLOMBO, Farla franca, 2012)

Pubblicato su AmbienteDiritto.it il 14/02/2012