Anno: 2015 | Autore: LUIGI MICHELE DADAMO

 

 

RITO DEL LAVORO: DIFFORMITA’ TRA DISPOSITIVI.

Dott. Luigi Michele Dadamo

 

La questione presa in esame riguarda una lettura in aula, nel rito del lavoro, di un dispositivo difforme a quello depositato in calce alla sentenza.

Non potendosi ricorrere alla procedura di correzione di errori materiale (ex. Art. 288 c.p.c), poiché ammissibile solo in presenza di errori emendabili (errori di calcolo, omessa indicazione di una delle parti del giudizio o ancora l’erronea indicazione dei dati anagrafici delle parti in causa, erronea trascrizione delle conclusioni formulate dalle stesse in occasione dell’ultima udienza), ci si chiede in che maniera è possibile sanare tale vizio e, sopratutto, quale sentenze assume efficacia per mezzo di cosa passata in giudicato.

La regola generala dispone che, nel rito del lavoro, il dispositivo letto in udienza acquista rilevanza esterna prima della motivazione e indipendentemente a essa, non può essere modificato con la motivazione; pertanto, in caso di difformità tra il dispositivo e la motivazione, il primo prevale sulla seconda, in quanto il dispositivo costituisce l’atto con il quale il giudice estrinseca la volontà “della legge” nel caso concreto, mentre la motivazione assolve una funzione strumentale.

Diversa ipotesi è il contrasto tra i due dispositivi: quello letto in aula e quello in calce alla sentenza depositata, che sono totalmente contrastanti tra di loro.

Tale difetto produce senza dubbio la nullità della sentenza.

Ruolo importante per l’individuazione del vizio è attribuito alla motivazione, poiché se la motivazione fosse coerente con il dispositivo letto in aula, allora sarebbe possibile ricorrere alla procedura di cui art 288 cpc.

L’art. 161 cpc prescrive che: “La nullità delle sentenze soggette ad appello o a ricorso per Cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi d’impugnazione. Questa disposizione non si applica quando la sentenza manca della sottoscrizione del giudice “.

Da questa norma appare evidente la distinzione tra i tipi di nullità: in particolare, quando manca la sottoscrizione del giudice comporta la nullità insanabile della sentenza, senza possibilità di distinguere tra omissione intenzionale e omissione involontaria.

Una volta impugnata tale sentenza, se davanti alla Cassazione, questa pronuncerà la dichiarazione di nullità unitamente al rinvio al giudice che aveva pronunciato la sentenza priva di sottoscrizione, il quale verrà investito del potere-dovere di riesaminare il merito della causa stessa, senza limitarsi alla sola rinnovazione della sentenza.

Medesima conseguenza nel caso in cui la sentenza, pronunciata da un organo collegiale, viene sottoscritta da un magistrato che non componeva il collegio giudicante.

Diversa sorte quando siamo in presenza di nullità sanabile.

Nel caso di specie, in presenza di difformità tra due dispositivi, parte della dottrina afferma che la modifica del dispositivo effettuata in sede di redazione della sentenza completa di motivazione è atto, illegittimo sì, ma proveniente pur sempre dal giudice ancora investito della causa, con la conseguenza che il provvedimento costituito dalla sentenza depositata, in quanto atto successivo rispetto alla serie procedimentale, prevalga sul dispositivo letto in udienza e lo travolga privandolo, sia pure illegittimamente, di qualsiasi efficacia.

La Giurisprudenza si è discostata da tale principio, continuando ad affermare che la pubblicità del dispositivo, attraverso la lettura in udienza, estrinseca la volontà della Legge.

Come affermato dall’art. 161 c.p.c., per far valere il vizio della sentenza, è possibile esperire ricorso con i normali mezzi di impugnazione.

Ai sensi degli artt. 325, 326 e 327 c.p.c. l’impugnazione deve essere fatta entro 30 giorni dalla notifica della sentenza o in mancanza, entro 6 mesi dalla pubblicazione della stessa (termini riformato dalla L. 18 Giugno 2009, n. 69); tale termine è perentorio e produce l’efficacia della sentenza per mezzo di cosa passata in giudicato.

La difficoltà è quella di individuare quale sentenza è da ritenersi sanata per mezzo della decorrenza dei termini.

Seguendo il principio generale, il dispositivo nullo è quello in calce alla sentenza depositata quindi, la mancata impugnazione dovrebbe far presupporre che i vizi vengano sanati e tale sentenza diverrebbe quindi efficace.

Di diverso avviso è la Suprema Corte di Cassazione che con le sentenze sino ad ora pronunciate (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 44642 del 02/12/2010, dep. 20/12/2010, Rv. 249090) ha affermato sempre una preminenza del dispositivo letto in udienza su quello trascritto in calce alla motivazione, nonché sulle motivazioni stesse, quindi sarebbe da ritenersi valido il dispositivo che ha assunto pubblicità per mezzo della lettura in udienza.

Tale principio affermato dalla Suprema Corte, a mio avviso appare non condivisibile in quanto, nonostante la volontà della Legge si esplicherebbe (nel rito del lavoro e penale) con la lettura del dispositivo in aula, i magistrati sovente stilano molteplici sentenze nel medesimo giorno quindi sarebbe intuibile una svista; la pronuncia “accoglie” o “respinge” erroneamente pronunciata, non dovrebbe perciò avere più efficacia e prevalere su una sentenza depositata successivamente e corredata da ampie motivazioni.