Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Appalti, Procedimento amministrativo Numero: 156 | Data di udienza: 6 Marzo 2013

* APPALTI – PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Revoca e annullamento d’ufficio – Indennizzo – Valori equitativi – Possibilità di esclusione con atto della P.A. (bando di gara) – Limitazione preventiva della responsabilità per illecito della P.A. – Violazione degli artt. 28 e 97 Cost.


Provvedimento: Sentenza
Sezione: 4^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 14 Gennaio 2013
Numero: 156
Data di udienza: 6 Marzo 2013
Presidente: Leone
Estensore: Forlenza


Premassima

* APPALTI – PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Revoca e annullamento d’ufficio – Indennizzo – Valori equitativi – Possibilità di esclusione con atto della P.A. (bando di gara) – Limitazione preventiva della responsabilità per illecito della P.A. – Violazione degli artt. 28 e 97 Cost.



Massima

 

CONSIGLIO DI STATO, Sez. 4^ – 14 gennaio 2013, n. 156


APPALTI – PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Revoca e annullamento d’ufficio – Indennizzo – Valori equitativi – Possibilità di esclusione con atto della P.A. (bando di gara) – Limitazione preventiva della responsabilità per illecito della P.A. – Violazione degli artt. 28 e 97 Cost.

Sia il provvedimento di revoca (ex art. 21-quinquies l. n. 241/1990), sia il provvedimento di annullamento di ufficio (ex art. 1, co. 136, l. n. 311/2004), prevedono forme di indennizzo dei soggetti direttamente interessati.  L’obbligo di indennizzo gravante sulla Pubblica Amministrazione non presuppone elementi di responsabilità della stessa, ma si fonda su valori puramente equitativi presi in considerazione dal legislatore, onde consentire il giusto bilanciamento tra il perseguimento dell’interesse pubblico attuale da parte dell’amministrazione e la sfera patrimoniale del destinatario (incolpevole) dell’atto di revoca o di annullamento, al quale non possono essere addossati integralmente i conseguenti sacrifici.  Tale forma di indennizzo, pur prevista dalla legge, può essere esclusa da un atto della pubblica amministrazione (nel caso di specie, dal bando di gara), con il quale si richiede, in sostanza, al privato un atto unilaterale abdicativo di un diritto patrimoniale (e quindi disponibile), e ciò proprio in quanto l’attribuzione dell’indennizzo non dipende da responsabilità dell’amministrazione stessa; al contrario la pubblica amministrazione non può adottare atti ovvero pretendere dal privato, in via preliminare e quale condizione di partecipazione ad un procedimento amministrativo volto alla individuazione di un (futuro) contraente, un atto abdicativo del diritto alla tutela giurisdizionale avverso atti e/o comportamenti (anche futuri) della stessa pubblica amministrazione illegittimi o illeciti, (eventualmente) causativi di danno e quindi di responsabilità per il suo risarcimento. Tale clausola, nella misura in cui esclude in via preventiva la responsabilità della P.A. per illecito, si risolve in una limitazione della responsabilità della Pubblica Amministrazione contra legem (argomentando ex art. 1229 cod. civ.), ed in violazione degli artt. 28 e 97 Cost.. Deve pertanto affermarsi che una interpretazione – costituzionalmente orientata e coerente con le norme di legge innanzi evocate – della clausola del bando, che consente alla Pubblica amministrazione “la facoltà di annullare la gara senza che le partecipanti possano avanzare richiesta per eventuali rimborsi, compensi o indennizzi a qualsiasi titolo”, comporta che i soli “indennizzi” esclusi in via preventiva sono quelli che non presuppongono responsabilità della Pubblica Amministrazione, non essendo al contrario ammissibile una limitazione preventiva della responsabilità per illecito della P.A.

 (Riforma T.A.R. PUGLIA, Bari, n. 1375/2011) – Pres. f.f. Leoni, Est. Forlenza – Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e altro (Avv. Stato) c. A. s.r.l. (avv. Volpe)


Allegato


Titolo Completo

CONSIGLIO DI STATO, Sez. 4^ – 14 gennaio 2013, n. 156

SENTENZA

 

CONSIGLIO DI STATO, Sez. 4^ – 14 gennaio 2013, n. 156

N. 00156/2013REG.PROV.COLL.
N. 08696/2011 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8696 del 2011, proposto da:
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Ministero della Giustizia, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura gen. dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

Aet Srl – Apparecchiature Elettro Telefoniche, Aet Service Srl, Mallardi Srl, Coebo Srl, rappresentati e difesi dall’avv. Luigi Volpe, con domicilio eletto presso Alfredo Placidi in Roma, via Cosseria, 2;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. PUGLIA – BARI: SEZIONE I n. 01375/2011, resa tra le parti, concernente affidamento lavori per adeguamento manutenzione straordinaria degli impianti tecnologici

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Aet Srl – Apparecchiature Elettro Telefoniche e di Aet Service Srl e di Mallardi Srl e di Coebo Srl;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 6 marzo 2012 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati Sebastiano Matassa in sostituzione di Luigi Volpe e Federica Varrone (avv.St.);

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Con l’appello in esame, il Ministero delle Infrastrutture ed il Ministero dela Giustizia impugnano la sentenza 22 settembre 2011 n. 1375, con la quale il TAR per la Puglia, sez.I, ha accolto il ricorso proposto dalla soc. Aet s.r.l., rivolto, tra gli altri atti, avverso il decreto del Provveditore interregionale alle OO.PP. di Puglia e Basilicata 7 luglio 2010 n. 413.

Con tale atto, il citato Provveditore ha disposto l’annullamento degli atti della gara, per l’affidamento dei lavori per l’adeguamento degli impianti tecnologici ed altri interventi, tutti relativi al palazzo sede degli Uffici Giudiziari, in Piazza de Nicola di Bari.

La sentenza appellata, in particolare, afferma:

– non vi è stato alcun “atteggiamento di trascuratezza o di disinteresse da parte della A.T.I. che aveva presentato la migliore offerta, poiché risulta da una dichiarazione del RUP del 12 febbraio 2009, che la verifica dell’eventuale anomalia dell’offerta doveva ritenersi terminata e non sarebbe pervenuta alcuna ulteriore richiesta istruttoria;

– ai sensi dell’art. 51 d. lgs. n. 163/2006, la modifica soggettiva della ATI partecipante alla gara (conseguente, nel caso di specie, alla cessione di un ramo d’azienda della mandante a.r.l. ad altra società), “non comportava alcun effetto automaticamente espulsivo, ma solo l’obbligo della verifica dei requisiti in capo all’affittuario, verifica che non è stata compiuta perché l’amministrazione ha autoritativamente posto nel nulla l’intera procedura con il provvedimento gravato”;

– ai sensi dell’art. 75 d. lgs. n. 163/2006, “la mancata proroga della polizza fideiussoria non esplica in concreto alcun effetto”;

– alla data del provvedimento di annullamento adottato dall’amministrazione, è da escludere che si fosse perfezionata per silentium l’aggiudicazione definitiva, posto che non vi era stato il positivo controllo della documentazione relativa ai requisiti dichiarati, e ciò in quanto solo il 7 giugno 2010 è stata comunicata la variazione soggettiva nell’ambito delle imprese partecipanti all’ATI;

– il provvedimento impugnato di “autoannullamento” – in quanto fondato su “sopravvenute imprevedibili necessità dell’organo usuario di limitare le lavorazioni previste in progetto originario a quelle strettamente compatibili con le attuali attività istituzionali” – non può qualificarsi come tale, non essendo stata evidenziato alcun vizio di legittimità degli atti della procedura, bensì è da identificare come atto di revoca, e come tale assoggettato all’art. 21 – quinquies l. n. 241/1990;

– trattandosi di atto di revoca e non di annullamento, non può trovare applicazione la clausola del disciplinare di gara, secondo la quale l’amministrazione si riserva la facoltà di procedere ad annullamento della gara “senza che le partecipanti possano avanzare richiesta per eventuali rimborsi, compensi o indennizzi a qualsiasi titolo”;

– nel caso di specie, l’atto di revoca è illegittimo in quanto “non è riscontrabile nella vicenda il sopravvenire di nuovi motivi di interesse pubblico”, né vi è stata “una nuova effettiva valutazione dell’interesse pubblico originario”, poiché quanto evidenziato è dubbio che abbia “la consistenza e la dignità dell’interesse pubblico che si invoca a sostegno della revoca”;

– non sussiste, tuttavia, né possibilità di accertare la intervenuta formazione tacita dell’aggiudicazione definitiva, né quella di condannare l’amministrazione al risarcimento dei danni per responsabilità extracontrattuale o precontrattuale. Ciò in quanto le imprese istanti “non offrono alcun elemento per la determinazione del nocumento”;

– in particolare, “la valutazione equitativa del danno (in base al combinato disposto degli articoli 1226 e 2056 del codice civile) è confinata all’ipotesi di impossibilità o di grave difficoltà di assolvere all’onere probatorio” . . . venendo a costituire un apprezzamento il quale serve a colmare le lacune probatorie nella determinazione del preciso ammontare del danno”.

Avverso tale decisione, vengono proposti i seguenti motivi di impugnazione:

a) error in iudicando, nella parte in cui la sentenza “ha ritenuto sussistente l’interesse delle odierne appellanti al ricorso e la loro ragionevole aspettativa in ordine alla positiva conclusione della procedura di selezione”. Ciò in quanto, non essendosi mai tenuta la seduta della commissione di gara per procedere all’aggiudicazione provvisoria, l’ATI appellata non solo non ha mai ottenuto detta aggiudicazione, ma “la cessionaria del ramo d’azienda, odierna appellata, non ha dimostrato il possesso dei requisiti richiesti” dall’art. 51 d. lgs. n. 163/2006 “né l’amministrazione si è pronunciata in merito avendo nel frattempo proceduto alla revoca della procedura”;

b) error in iudicando, in quanto erroneamente sono stati ritenuti insussistenti i presupposti per giungere alla revoca, ex art. 21 – quinquies l. n. 241/1990, poiché vi sono state sia prescrizioni ulteriori dei Vigili del Fuoco (nota n. 976/2009), sia una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario “che giustifica l’esercizio dell’autotutela, ovvero il cosiddetto ius poenitendi dell’amministrazione”, poiché “l’esecuzione del progetto originario (come integrato dalle prescrizioni imposte nel parere dei Vigili del Fuoco) avrebbe interferito in maniera significativa sul regolare svolgimento dell’attività giudiziaria, in particolare quella dibattimentale”. Sul punto, il primo giudice “anziché limitarsi alla verifica della sussistenza dei presupposti richiesti per la revoca . . . è entrato nel merito dell’azione amministrativa, valutando l’opportunità di modificare il progetto originario, e quindi di revocare la procedura”;

c) error in iudicando, in quanto la clausola del disciplinare di gara, ritenuta inapplicabile al caso della revoca, deve essere ritenuta applicabile a tutte le ipotesi di esercizio del potere di autotutela, poiché “il termine annullamento è utilizzato in senso atecnico”. In ogni caso, “il diritto all’indennizzo è escluso nel caso di specie tenuto conto che, in caso di revoca dell’aggiudicazione provvisoria non è configurabile alcun diritto all’indennizzo non essendosi ingenerato alcun legittimo affidamento”.

Si sono costituite in giudizio le società indicate in epigrafe le quali, in via preliminare, hanno eccepito l’inammissibilità dell’appello sia perché, l’amministrazione non ha depositato alcuna memoria difensiva in I grado, con conseguente inammissibilità ex art. 104 Cpa, sia perché il ricorso in appello non risulta notificato alla Commissione di manutenzione presso la Corte di Appello di Bari. Hanno comunque concluso richiedendo il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.

Le predette società hanno altresì proposto appello incidentale, proponendo i seguenti motivi di gravame:

d) violazione art. 112 c.p.c.; omessa pronuncia; violazione art. 7 l. n. 241/1990; poiché la sentenza impugnata ha omesso di pronunciare sulla detta violazione dell’obbligo di invio della comunicazione di avvio del procedimento;

e) violazione artt. 11 e 12 d. lgs. n. 163/2006 e art. 112 c.p.c.; erronea percezione dei presupposti; poiché il primo giudice – nell’escludere che fosse intervenuta l’aggiudicazione provvisoria e si fosse quindi consolidata l’aggiudicazione definitiva – non ha considerato, così omettendo di pronunciare su un profilo dei motivi di impugnazione, quanto previsto dai citati artt. 11 e 12, e quindi non ha valutato quanto effettivamente accaduto nel corso della procedura di gara. Infatti, poiché “la richiesta di giustificazioni pervenuta all’ATI ricorrente . . . supponeva la stessa in posizione di provvisoria aggiudicataria”, ne consegue che “essendo decorsi tutti i termini di cui agli artt. 11 e 12 citt., la aggiudicazione definitiva è avvenuta nella prescritta forma tacita” con la conseguenza che “essendosi formato il vincolo contrattuale . . . nessuna autotutela poteva essere esercitata”;

f) error in iudicando, poiché la sentenza, per un verso ha affermato che si erano verificati le condizioni e i presupposti per addivenire alla aggiudicazione provvisoria, con un’alta probabilità di affidamento dell’appalto alle appellate, per altro verso “pur avendo ritenuta illegittima la revoca della gara, non ne ha tratto, concomitando tutte le altre circostanze, la responsabilità risarcitoria della stazione appaltante” ex art. 2043 c.c. “per violazione dei doveri procedimentali fondamentali (mancata conclusione del procedimento e mancata convocazione della commissione di gara per la proclamazione formale dell’aggiudicazione provvisoria per la quale erano intervenuti tutti i presupposti”. Peraltro, ben avrebbe potuto il giudice determinare diversamente l’entità del danno, anche riducendo l’indicata misura del 15% del valore dell’aggiudicazione;

g) error in iudicando, nella parte in cui ha rigettato la subordinata richiesta di risarcimento ex art. 1337 c.c. (v. pagg. 62 – 70 memoria del 14 novembre 2011).

All’udienza di trattazione, la causa è stata riservata in decisione.


DIRITTO

2. L’appello proposto dal Ministero delle infrastrutture è infondato e deve essere, pertanto, rigettato, il che rende, di conseguenza, superfluo esaminare le eccezioni di inammissibilità del medesimo proposte dalle società appellate.

Quanto al primo motivo di appello (sub a) dell’esposizione in fatto), e con particolare riguardo al profilo del medesimo con il quale si lamenta il difetto di interesse al ricorso in capo alle società ricorrenti in I grado, occorre osservare come sia a tutta evidenza sussistente l’interesse delle dette società (attuali appellate) ad impugnare il provvedimento di “autoannullamento” degli atti della procedura di gara.

Infatti, oggetto della impugnazione per il tramite del ricorso instaurativo del giudizio di I grado è, fondamentalmente, un provvedimento di annullamento in esercizio del potere di autotutela (poi diversamente definito dalla sentenza come provvedimento di revoca), avente ad oggetto gli atti di gara.

Orbene, appare evidente come avverso un atto di tale contenuto, comportante – quale che ne sia la qualificazione giuridica – il “travolgimento” di tutti gli atti di una procedura di gara, sussiste l’interesse delle imprese partecipanti alla impugnazione del medesimo. E ciò a maggior ragione se si sostiene – come nella prospettazione dell’amministrazione – non essere ancora intervenuta né l’aggiudicazione provvisoria né la definitiva.

Alla luce di tale considerazione, non può assumere alcun rilievo la circostanza che “la cessionaria del ramo d’azienda, odierna appellata, non ha dimostrato il possesso dei requisiti richiesti” dall’art. 51 d. lgs. n. 163/2006 “né l’amministrazione si è pronunciata in merito avendo nel frattempo proceduto alla revoca della procedura”. Ciò che importa, ai fini della verifica di sussistenza delle condizioni dell’azione, è la circostanza che l’amministrazione abbia annullato tutti gli atti di gara, di modo che sia nel caso in cui si ritenga essere intervenuta aggiudicazione provvisoria, sia nel caso in cui si ritenga non esservi stata tale aggiudicazione, le ditte che, riunite in ATI, hanno partecipato alla gara hanno interesse a ricorrere, vuoi in quanto esse si ritengono aggiudicatarie provvisorie, vuoi in quanto mere partecipanti ad una gara degli atti della quale l’amministrazione ha disposto l’annullamento.

3. Anche il secondo motivo di appello (sub b) dell’esposizione in fatto) è infondato e deve essere, pertanto, rigettato.

Con tale motivo, l’amministrazione lamenta, in sostanza, che erroneamente sono stati ritenuti insussistenti i presupposti per giungere alla revoca, ex art. 21 – quinquies l. n. 241/1990, poiché vi sono state sia prescrizioni ulteriori dei Vigili del Fuoco (nota n. 976/2009), sia una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario “che giustifica l’esercizio dell’autotutela, ovvero il cosiddetto ius poenitendi dell’amministrazione”, poiché “l’esecuzione del progetto originario (come integrato dalle prescrizioni imposte nel parere dei Vigili del Fuoco) avrebbe interferito in maniera significativa sul regolare svolgimento dell’attività giudiziaria, in particolare quella dibattimentale”.

Sul punto, il primo giudice, secondo la prospettazione dell’appellante, “anziché limitarsi alla verifica della sussistenza dei presupposti richiesti per la revoca . . . è entrato nel merito dell’azione amministrativa, valutando l’opportunità di modificare il progetto originario, e quindi di revocare la procedura”.

Occorre innanzi tutto osservare come l’amministrazione appellante non contesti la diversa qualificazione giuridica attribuita dalla sentenza impugnata al provvedimento oggetto del ricorso introduttivo del giudizio di I grado, provvedimento sicuramente adottato in esercizio di potere di autotutela , ma diversamente qualificato come “revoca”, anziché come “annullamento di ufficio”.

Ed occorre ancora osservare, in via preliminare, che l’esercizio del potere di revoca, per un verso comporta, ove legittimo, l’eventuale attribuzione di un indennizzo ex art. 21-quinquies l. n. 241/1990 (profilo tuttavia estraneo all’attuale thema decidendum); per altro verso, anche nel caso in cui si riscontri la legittimità dell’atto di revoca, ciò non esclude – per le ragioni che saranno di seguito esposte – la (eventuale) responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, ex art. 1337 cod. civ.

Tanto precisato, il Collegio ritiene che la sentenza appellata, nella parte in cui accerta l’illegittimità del provvedimento di revoca degli atti di gara, assunto dal Ministero delle infrastrutture, sia corretta e congruamente motivata e, in quanto tale, da condividere.

Secondo il Tribunale, l’atto di revoca è illegittimo in quanto “non è riscontrabile nella vicenda il sopravvenire di nuovi motivi di interesse pubblico”, né vi è stata “una nuova effettiva valutazione dell’interesse pubblico originario”, poiché quanto evidenziato è dubbio che abbia “la consistenza e la dignità dell’interesse pubblico che si invoca a sostegno della revoca”.

La sentenza appellata ha evidenziato, in particolare, come:

– la necessità dei lavori al Tribunale di Bari (in particolare, impianto elettrico non adeguato, tale da impedire il rilascio di certificato di prevenzione incendi; abbattimento barriere architettoniche) era avvertita fin dal 1995, come testimonia la redazione di un primo progetto, non realizzato per mancanza di fondi;

– redatto un nuovo progetto (quello in ordine al quale si è svolta la gara in esame), quest’ultimo aveva ricevuto il parere favorevole della Commissione di manutenzione;

– “a fronte di queste pressanti esigenze derivanti dall’inadeguatezza infrastrutturale del Palazzo di Giustizia”, l’annullamento degli atti di gara si fonda su quanto emergente dalla relazione del RUP 29 giugno 2010, dalla quale risulta che Commissione di manutenzione, con un nuovo parere, rilevava che i lavori in oggetto avrebbero interferito sul regolare svolgimento dell’attività giudiziaria, “in particolare quella dibattimentale ed, in primis, quella presso l’aula della Corte d’Assise”, pertanto, esprimeva parere di limitare i lavori a quelli ritenuti meno invasivi, riguardanti in particolare, l’adeguamento dell’autorimessa, degli archivi e depositi di piano interrato, degli impianti elevatori, il rifacimento dei servizi igienici ai piani e la dipintura dei locali, nonché altri da individuare”.

Alla luce di quanto esposto, occorre innanzi tutto osservare come – contrariamente a quanto sostenuto dall’amministrazione appellante – il primo giudice non è affatto “entrato nel merito dell’azione amministrativa, valutando l’opportunità di modificare il progetto originario, e quindi di revocare la procedura”, in luogo di “limitarsi alla verifica della sussistenza dei presupposti richiesti per la revoca”.

Come si evince da un completo e corretto esame della sentenza, il TAR ha proceduto proprio alla verifica dei presupposti del provvedimento di revoca.

E se ha altresì “iscritto” tali presupposti nel più ampio quadro della situazione oggettiva dei locali del Tribunale di Bari, a ciò ha proceduto non già per sostituire la propria valutazione della rilevanza dell’interesse pubblico sopravvenuto a quella dell’amministrazione competente (con ciò sconfinando nel “merito” dell’azione amministrativa), quanto per verificare sia la effettiva sopravvenienza di ragioni comportanti una nuova ed attualizzata valutazione del’interesse pubblico (e ciò onde verificare la eventuale sussistenza del vizio di eccesso di potere, segnatamente sotto il profilo della irragionevolezza della decisione assunta), sia la corretta valutazione originaria dell’interesse pubblico da parte dell’amministrazione procedente.

Affermare, all’esito di una analisi dei presupposti per la revoca, che “è quindi in realtà dubbia proprio la consistenza e la dignità dell’interesse pubblico che s’invoca a sostegno della revoca”, non significa affatto procedere ad una propria (da parte del giudice) valutazione dell’interesse pubblico in luogo dell’amministrazione competente, quanto riflettere sul riscontrato difetto dei presupposti per l’esercizio del potere di revoca ovvero sulla illogicità della “misura” adottata rispetto agli scarni presupposti individuati per sostenerne l’adozione.

Quanto all’esame di tali presupposti, appare evidente anche a questo Collegio – in ciò confermando le valutazioni del TAR – che gli atti di una gara per l’esecuzione di lavori, e lo stesso provvedimento di aggiudicazione, ben possono essere oggetto di revoca, laddove si riscontri la inadeguatezza del progetto stesso rispetto a nuove, sopravvenute esigenze, di modo che la realizzazione del progetto medesimo non riuscirebbe a soddisfare l’interesse pubblico connesso alla realizzazione dell’opera; ovvero laddove si riscontri come la realizzazione del progetto contrasti con altre, diverse e sopravvenute, esigenze di pubblico interesse.

In sostanza, si intende affermare che la revoca degli atti di una gara (che necessariamente presuppone l’esistenza di un progetto “validato” dalla pubblica amministrazione) non può che fondarsi su ragioni di pubblico interesse inerenti alla realizzazione stessa dell’opera.

Al contrario, tale revoca non può fondarsi su ragioni che, lungi dal riguardare l’opera realizzanda in sé (e la sua coerenza con l’interesse pubblico connesso alla sua realizzazione ovvero con altri interessi pubblici sopravvenuti), concernono modalità e tempi di esecuzione della medesima opera, riguardati sotto il profilo di inevitabili interferenze degli interventi con il normale (ordinario, preesistente e quindi prevedibile) svolgimento di attività lavorativa nei locali oggetto dell’esecuzione degli interventi oggetto della gara e della conseguente aggiudicazione.

Per un verso, la specificità dell’attività lavorativa svolta nei locali oggetto di intervento, il conseguente disagio – entro certi limiti inevitabile – derivante alla detta attività dai lavori, lungi dal costituire una “novità”, erano dati ben presenti all’amministrazione, e quindi tali da non poter configurare ragioni sopravvenute di pubblico interesse.

Per altro verso, eventuali disagi e/o limitazioni all’attività lavorativa ordinaria, derivanti dall’esecuzione dei lavori oggetto della gara d’appalto, ben possono essere se non annullati, quantomeno limitati attraverso una opportuna programmazione degli stessi (ed a tal fine la sentenza ricorda le note del Provveditorato interregionale alle opere pubbliche 23 febbraio 2009 n. 2170 e 29 giugno 2009 n. 8594).

Nel caso di specie, come ha condivisibilmente rilevato la sentenza impugnata, “in concreto, non è riscontrabile . . . il sopravvenire di nuovi motivi d’interesse pubblico (essendo da considerare sempre i medesimi elementi, cioè l’esigenza di adeguare gli impianti del palazzo di giustizia e l’interferenza dei lavori con la normale attività degli uffici giudiziari), la situazione di fatto non si è modificata e non si rinviene nel decreto una nuova effettiva valutazione dell’interesse pubblico originario (ma al più una mera negazione di quanto in precedenza espresso)”.

Tale situazione di fatto emerge, in sostanza, dallo stesso motivo di impugnazione, laddove si afferma – sia pure facendo riferimento a integrazioni “imposte dal parere dei Vigili del fuoco” – che “l’esecuzione del progetto originario. . . . avrebbe interferito in maniera significativa sul regolare svolgimento dell’attività giudiziaria, in particolare quella dibattimentale”.

In considerazione di quanto esposto, il secondo motivo di appello è infondato e deve essere, pertanto, rigettato.

4. Altrettanto infondato è il terzo motivo di appello (sub c) dell’esposizione in fatto).

Secondo l’amministrazione appellante, la clausola del disciplinare di gara, ritenuta inapplicabile al caso della revoca, deve essere invece ritenuta applicabile a tutte le ipotesi di esercizio del potere di autotutela, poiché “il termine annullamento è utilizzato in senso atecnico”. Sempre secondo l’appellante, in ogni caso, “il diritto all’indennizzo è escluso nel caso di specie tenuto conto che, in caso di revoca dell’aggiudicazione provvisoria non è configurabile alcun diritto all’indennizzo non essendosi ingenerato alcun legittimo affidamento”.

La sentenza appellata afferma che, vertendosi, nel caso di specie, non già in tema di annullamento bensì in tema di revoca, è estranea alla fattispecie concreta la clausola, contenuta nel disciplinare (pagina 5), per la quale “l’Amministrazione si riserva la facoltà di annullare la gara senza che le partecipanti possano avanzare richiesta per eventuali rimborsi, compensi o indennizzi a qualsiasi titolo”. Tale clausola, dunque, non preclude – secondo la sentenza – alle ricorrenti di azionare nelle opportune sedi le proprie pretese.

Il Collegio ritiene di dover confermare, sia pure con diversa motivazione, quanto affermato dalla sentenza impugnata in ordine al diritto delle società appellate ad azionare nelle opportune sedi le proprie pretese risarcitorie.

Come è infatti noto (e come sarà meglio di seguito esposto), sia il provvedimento di revoca (ex art. 21-quinquies l. n. 241/1990), sia il provvedimento di annullamento di ufficio (ex art. 1, co. 136, l. n. 311/2004), prevedono forme di indennizzo dei soggetti direttamente interessati.

L’obbligo di indennizzo gravante sulla Pubblica Amministrazione non presuppone elementi di responsabilità della stessa, ma si fonda su valori puramente equitativi presi in considerazione dal legislatore, onde consentire il giusto bilanciamento tra il perseguimento dell’interesse pubblico attuale da parte dell’amministrazione e la sfera patrimoniale del destinatario (incolpevole) dell’atto di revoca o di annullamento, al quale non possono essere addossati integralmente i conseguenti sacrifici.

Orbene, se tale forma di indennizzo, pur prevista dalla legge, può essere esclusa da un atto della pubblica amministrazione (nel caso di specie, dal bando di gara), con il quale si richiede, in sostanza, al privato un atto unilaterale abdicativo di un diritto patrimoniale (e quindi disponibile), e ciò proprio in quanto l’attribuzione dell’indennizzo non dipende da responsabilità dell’amministrazione stessa; al contrario la pubblica amministrazione non può adottare atti ovvero pretendere dal privato, in via preliminare e quale condizione di partecipazione ad un procedimento amministrativo volto alla individuazione di un (futuro) contraente, un atto abdicativo del diritto alla tutela giurisdizionale avverso atti e/o comportamenti (anche futuri) della stessa pubblica amministrazione illegittimi o illeciti, (eventualmente) causativi di danno e quindi di responsabilità per il suo risarcimento.

Tale clausola – lungi dal giustificarsi sostenendo che la stessa è, in definitiva, riferita a diritti patrimoniali disponibili – nella misura in cui esclude in via preventiva la responsabilità della P.A. per illecito, si risolve in una limitazione della responsabilità della Pubblica Amministrazione contra legem (argomentando ex art. 1229 cod. civ.), ed in violazione degli artt. 28 e 97 Cost..

Alla luce di quanto esposto, deve affermarsi che una interpretazione – costituzionalmente orientata e coerente con le norme di legge innanzi evocate – della clausola del bando, che consente alla Pubblica amministrazione “la facoltà di annullare la gara senza che le partecipanti possano avanzare richiesta per eventuali rimborsi, compensi o indennizzi a qualsiasi titolo”, comporta che i soli “indennizzi” esclusi in via preventiva sono quelli che non presuppongono responsabilità della Pubblica Amministrazione, non essendo al contrario ammissibile una limitazione preventiva della responsabilità per illecito della P.A.

Nel caso di specie, quindi, non è la natura dell’atto (revoca e non annullamento) ad escludere il diritto alla tutela giurisdizionale dei partecipanti alla gara, onde far accertare dal giudice la eventuale responsabilità dell’amministrazione (in ciò concordando con l’amministrazione appellante che estende l’interpretazione della clausola a tutti gli atti adottati in esercizio del potere di autotutela).

Ciò che rende ammissibile la domanda di accertamento della responsabilità della P.A. (e, se del caso, di conseguente condanna della medesima al risarcimento del danno) è la irriferibilità della clausola medesima alle ipotesi in cui si controverte, appunto, di responsabilità della P.A., nei sensi innanzi chiariti.

E’ in tali sensi che deve essere letto quanto esposto dalle attuali società appellate fin dal ricorso instaurativo del giudizio di I grado (ed ora, in particolare, pag. 49 appello), allorchè queste lamentano che l’interpretazione data dall’amministrazione alla clausola del disciplinare avrebbe portato a configurare l’autotutela come un “potere libero”, vale a dire, più precisamente, come un potere esente da conseguenze sul piano della responsabilità per la pubblica amministrazione che lo esercita.

Per le ragioni sin qui esposte, il terzo motivo di appello è infondato e deve essere, pertanto, rigettato.

5. Accertata l’infondatezza dell’appello proposto dal Ministero delle infrastrutture, con conseguente rigetto del medesimo, occorre esaminare l’appello incidentale proposto dalle società appellate.

Tale appello si configura, per una parte (motivo sub d) dell’esposizione in fatto), come appello incidentale cd. “proprio”, disciplinato dagli artt. 334 c.p.c. e 96, co. 4, Cpa; per l’altra parte (motivi sub e), f) e g), come appello incidentale cd. “improprio”, disciplinato dagli artt. 333 c.p.c. e 96, co. 3, Cpa).

Ciò comporta che, in relazione all’indicato motivo sub d) dell’esposizione in fatto, l’appello incidentale deve essere dichiarato inammissibile, stante il rigetto dell’appello principale.

Al contrario, il Collegio deve procedere all’esame del medesimo appello incidentale, in relazione agli ulteriori tre motivi proposti (sub lett. e), f) g), posto che tali motivi configurano un autonomo gravame, la cui natura incidentale discende unicamente dall’esser stato proposto dopo un precedente appello (principale), per effetto del principio di concentrazione delle impugnazioni sancito dall’art. 333 c.p.c., secondo la logica del “simultaneus processus”

6. Con il motivo sub e) dell’esposizione in fatto, le appellanti incidentali in sostanza lamentano che il primo giudice – nell’escludere che fosse intervenuta l’aggiudicazione provvisoria e si fosse quindi consolidata l’aggiudicazione definitiva – non ha considerato, così omettendo di pronunciare su un profilo dei motivi di impugnazione, quanto previsto dagli artt. 11 e 12 d. lgs. n. 163/2006, e quindi non ha valutato quanto effettivamente accaduto nel corso della procedura di gara.

Infatti, secondo le appellanti incidentali, poiché “la richiesta di giustificazioni pervenuta all’ATI ricorrente . . . supponeva la stessa in posizione di provvisoria aggiudicataria”, ne consegue che “essendo decorsi tutti i termini di cui agli artt. 11 e 12 citt., la aggiudicazione definitiva è avvenuta nella prescritta forma tacita” con la conseguenza che “essendosi formato il vincolo contrattuale . . . nessuna autotutela poteva essere esercitata”.

Orbene, il Collegio deve osservare che l’eventuale adozione di un provvedimento di aggiudicazione (anche definitiva), non si sottrae ex se al potere di autotutela dell’amministrazione, e segnatamente al potere di revoca, laddove sussistano sopravvenute esigenze di pubblico interesse, che rendano il contenuto del provvedimento adottato incoerente con l’interesse pubblico nell’attualità.

In tal senso, occorre richiamare il comma 9 dell’art. 11 d. lgs. n. 163/2006, il quale, nel prevedere che “la stipulazione del contratto di appalto o di concessione ha luogo entro il termine di sessanta giorni” dalla data di conseguita efficacia dell’aggiudicazione definitiva, espressamente dichiara che è “fatto salvo l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti”.

Inoltre, giova ricordare che l’art. 1, co. 136, l. n. 311/2004, nel disciplinare l’annullamento d’ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi “anche se l’esecuzione degli stessi sia ancora in corso”, prevede altresì che “l’annullamento di cui al primo periodo di provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall’eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni dall’acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante”.

Appare, dunque, evidente come il legislatore ritenga che neppure l’esistenza di un rapporto contrattuale (e quindi l’intervenuta stipulazione di un contratto), costituisca circostanza preclusiva all’esercizio del potere di annullamento di ufficio, limitandosi la disposizione esclusivamente ad apporre un termine all’esercizio di detto potere (così specificando il “termine ragionevole”, entro il quale può essere esercitato l’annullamento in autotutela, come in generale previsto dall’art. 21 – novies l. n. 241/1990).

Orbene, da quanto esposto consegue:

– in via generale, che – contrariamente a quanto sostenuto dagli appellanti incidentali – è ben possibile l’esercizio di potere di autotutela sugli atti di gara, nonostante la (eventuale) adozione di un atto di aggiudicazione provvisoria ed anche in presenza di contratto stipulato;

– nello specifico caso ora in esame, che il possibile, legittimo esercizio del potere di revoca è stato già implicitamente ammesso da questo Collegio, laddove, nel rigettare specifico motivo di appello principale, da un lato si è confermata la statuizione di illegittimità, effettuata dal I giudice, del provvedimento di revoca adottato dall’amministrazione (per propri vizi di legittimità), dall’altro lato non si è espressa alcuna obiezione in ordine alla astratta esercitabilità di detto potere.

Per la parte in cui nega l’esercitabilità del potere di autotutela, in quanto formatosi il vincolo contrattuale, il motivo di appello è dunque infondato.

Tale motivo è altrettanto infondato laddove si intendesse sostenere che, una volta annullato il provvedimento di revoca, si “riespanderebbe” la supposta aggiudicazione definitiva, formatasi tacitamente.

Orbene, il disciplinare di gara, nel regolare le operazioni (pagina 5), prevede:

“In sede di gara, il Presidente procede a:

(….) – ad aprire le buste contenenti le offerte economiche e procedere alla individuazione della soglia di anomalia;

– trasmettere alla stazione appaltante le risultanze delle sedute di gara unitamente ai plichi contenenti le giustificazioni dei prezzi offerti ancora sigillati;

– riaprire la gara per proclamare l’aggiudicatario, a seguito di quanto comunicato dalla stazione appaltante circa le giustificazioni relative alle offerte presentate.

(…) Data, luogo ed ora di riapertura della gara per la proclamazione dell’aggiudicatario, a seguito di quanto comunicato dalla stazione appaltante circa le giustificazioni relative alle offerte presentate, sarà comunicata a mezzo fax a tutti i concorrenti ammessi.

La aggiudicazione definitiva avverrà, in ogni caso a seguito di dimostrazione del possesso dei requisiti dichiarati in sede di offerta. Nel caso in cui tale dimostrazione non sia fornita troveranno applicazione le disposizioni di cui all’art. 48 commi 1) e 2) del D.lg. 163/2006”.

Come ha condivisibilmente osservato la sentenza appellata:

– per un verso, “le condizioni ed i presupposti per addivenire all’aggiudicazione provvisoria si erano verificati, ma la seduta all’uopo destinata non si era tenuta perché sui lavori si era espressa negativamente la Commissione di manutenzione e perciò l’aggiudicatario provvisorio non era stato formalmente e pubblicamente proclamato”;

– per altro verso, deve essere respinta “la domanda rivolta all’accertamento dell’intervenuta formazione tacita ex lege dell’aggiudicazione definitiva e, per l’effetto, alla dichiarazione dell’obbligo della Stazione appaltante di stipulare il contratto. Infatti, poiché all’aggiudicazione definitiva può giungersi a seguito del positivo controllo della documentazione relativa ai requisiti dichiarati, la circostanza che, nella composizione della A.T.I., alla Frantone s.r.l., originaria mandante, sia subentrata nelle more la Mallardi s.r.l., affittuaria del ramo d’azienda da parte, e che tale fatto sia stato comunicato il 17 giugno 2010 preclude ogni astratta possibilità d’ipotizzare che, alla data del provvedimento di autoannullamento, si fosse perfezionata per silentium l’aggiudicazione definitiva”.

Alla luce di quanto esposto, ciò che rileva è che non vi è stata né aggiudicazione provvisoria, né aggiudicazione definitiva. Da ciò consegue che, per un verso, non può procedere il giudice a dichiarare l’esistenza di una condizione che può sussistere solo come derivazione tipica dell’effetto costitutivo di un provvedimento amministrativo (il che rende inapplicabili al caso di specie gli artt. 11 e 12 d. lgs. n. 163/2006); per altro verso, non vi è alcun fenomeno di reviviscenza di un provvedimento di aggiudicazione (né definitiva, né provvisoria), per effetto dell’intervenuto annullamento dell’atto di revoca.

7. Il Collegio ritiene infondata la domanda di risarcimento del danno extracontrattuale, che le società assumono di avere subito per effetto della revoca degli atti di gara (di cui al motivo di appello incidentale sub f) dell’esposizione in fatto), mentre ritiene fondata, nei sensi e limiti di seguito esposti, la domanda di risarcimento del danno subito per responsabilità precontrattuale (di cui al motivo sub g) dell’esposizione in fatto).

In tema di risarcimento del danno conseguente a revoca di atti di gara (e più precisamente, di aggiudicazione), questo Consiglio di Stato si è già espresso con sentenza sez. IV, 7 febbraio 2012 n. 662, dalle considerazioni della quale – nella misura in cui le stesse risultano applicabili nel presente giudizio – non vi è motivo di discostarsi.

Orbene, nel caso di revoca di provvedimento amministrativo (come è quello in esame, riferito agli atti di una gara d’appalto), possono ricorrere situazioni diverse, cui il legislatore (e la stessa giurisprudenza) riconnettono differenti discipline e conseguenze.

Occorre, infatti, distinguere tra:

– obbligo dell’amministrazione all’indennizzo, ex art. 21- quinquies l. n. 241/1990, per il caso di revoca del provvedimento amministrativo che abbia un beneficiario già individuato (ipotesi che non forma oggetto del presente giudizio);

– risarcimento del danno conseguente a constatata illegittimità del provvedimento di revoca, laddove venga accertata l’esistenza degli ulteriori presupposti di configurazione del danno risarcibile;

– risarcimento del danno derivante da accertata responsabilità contrattuale, laddove la revoca del provvedimento giunga a determinare la caducazione del contratto già stipulato (caso non ricorrente nella presente sede);

– risarcimento del danno derivante da responsabilità extracontrattuale e/o precontrattuale della Pubblica amministrazione, ex art. 1337 c.c..

Quanto al primo caso, ai sensi dell’art. 21- quinquies l. n. 241/1990, la revoca del provvedimento amministrativo determina che se la stessa “comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro indennizzo” (comma 1).

La misura di tale indennizzo è stata, successivamente, definita, per la revoca di atti amministrativi incidenti su rapporti negoziali, dallo stesso legislatore che ha parametrato detta misura “al solo danno emergente”, e tenendo conto “sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo oggetto di revoca all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico”.

L’obbligo di indennizzo gravante sulla Pubblica Amministrazione, come previsto e definito nella sua misura dall’art. 21- quinquies, non presuppone – come si è già avuto modo di affermare – elementi di responsabilità della stessa, ma si fonda su valori puramente equitativi considerati dal legislatore, onde consentire il giusto bilanciamento tra il perseguimento dell’interesse pubblico attuale da parte dell’amministrazione e la sfera patrimoniale del destinatario (incolpevole) dell’atto di revoca, cui non possono essere addossati integralmente i conseguenti sacrifici.

Ricorre, dunque, l’ipotesi che suole definirsi come di responsabilità della Pubblica Amministrazione per attività legittima (forma conosciuta dal nostro ordinamento, come conseguente ad atti leciti, fin dall’art. 46 l. 25 giugno 1865 n. 2359), la quale, lungi dal trovare il proprio presupposto in fatti o atti illeciti ovvero in atti illegittimi imputabili alla stessa amministrazione, più propriamente risponde ad intenti equitativi, e, a stretto rigore, non potrebbe essere definita utilizzando il termine “responsabilità”.

Tale ipotesi differisce nettamente da quella risarcitoria, di modo che anche le due azioni devono essere tenute distinte, sia con riferimento alla causa petendi, sia con riferimento al petitum.

La causa petendi, nel giudizio volto ad ottenere l’indennizzo, deve essere ravvisata nella legittimità dell’atto adottato dall’amministrazione, ovvero nella liceità della condotta da questa tenuta, e che ha causato il pregiudizio; mentre nel giudizio risarcitorio, essa consiste nel fatto o nell’atto produttivo del danno.

Quanto al petitum, nel giudizio per responsabilità da atti legittimi o leciti, esso è limitato al pregiudizio immediatamente subito, ed è quindi limitato al cd. danno emergente, mentre nel giudizio risarcitorio esso si estende – fermi, ovviamente, i necessari presupposti probatori – a tutto il pregiudizio (danno emergente e lucro cessante), conseguente all’illegittima violazione della sfera giuridico – patrimoniale del soggetto leso.

Con riferimento alla revoca ed alle sue conseguenze, l’art. 21 – quinquies rappresenta, come è noto, un punto di arrivo di un percorso giurisprudenziale che, inizialmente, e fino a tempi recenti, era nel senso di escludere qualsiasi indennizzo per il soggetto nei cui confronti fosse intervenuta la revoca in modo legittimo di un precedente provvedimento amministrativo per lui vantaggioso (Cons. St., sez. VI, 6 giugno 1969, n. 266), salvo ipotizzarla solo in casi particolari (Cass. Sez. Un. 2 aprile 1959, n. 672).

Attualmente, dunque, l’attribuzione dell’indennizzo a favore del soggetto che direttamente subisce il pregiudizio, presuppone innanzitutto la legittimità del provvedimento di revoca, atteso che in caso di revoca illegittima subentra eventualmente, sussistendone gli ulteriori presupposti, la diversa ipotesi del risarcimento del danno (Cons. Stato, sez. V, 6 ottobre 2010 n. 7334 e 14 aprile 2008, n. 1667; sez. VI, 8 settembre 2009, n. 5266).

Inoltre, poiché, nel caso dell’indennizzo ora considerato, e per le ragioni esposte, non sussiste una responsabilità contrattuale o extracontrattuale (e segnatamente, precontrattuale), che determini l’insorgere di tale obbligazione, non vi è luogo per accertare la sussistenza di colpa nell’apparato amministrativo (Cons. St., sez. V, 10 febbraio 2010 n. 671).

Infine, l’indennizzo spettante al soggetto direttamente pregiudicato dalla revoca di un provvedimento va circoscritto al “danno emergente”, sia perché ciò è espressamente stabilito dalla norma, sia perché esso risponde ai principi generali in tema di obbligo di indennizzo da parte della P.A. per pregiudizio derivante da sua attività legittima o lecita, sia perché esso costituisce applicazione particolare di una previsione in via generale introdotta per le conseguenze dell’esercizio del potere di autotutela.

Infatti, è altresì previsto, in forme non dissimili da quanto statuito per la revoca, l’obbligo di indennizzo per il caso di annullamento di provvedimento amministrativo incidente su rapporti contrattuali.

L’art. 1, comma 136, l. 30 dicembre 2004 n. 311, prevede che “al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche, può sempre essere disposto l’annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l’esecuzione degli stessi sia ancora in corso. L’annullamento di cui al primo periodo di provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall’eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni dall’acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante”.

Come la giurisprudenza ha già avuto modo di osservare (Cons. Stato, sez. VI, 18 settembre 2009 n. 5621), la disposizione nel suo contenuto prescrittivo è volta a rendere recessivo il c.d. consolidamento delle situazioni soggettive del privato derivanti da provvedimenti inficiati da vizi di legittimità, consentendo l’autotutela indipendentemente dal lasso temporale decorso dall’adozione dell’atto, ma, come reso evidente dal termine “può” che precede la scelta di disporre dell’annullamento d’ufficio, essa non fa venir meno la natura ampiamente discrezionale di detta potestà che non può essere resa coercibile ad iniziativa del destinatario del provvedimento o di un terzo interessato.

Allo stesso, tempo, la norma prevede, per i provvedimenti “incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali”, un termine all’esercizio del potere di annullamento (tre anni dall’acquisita efficacia dell’atto annullando), nonché la necessità di “tenere indenni i privati stessi dall’eventuale pregiudizio patrimoniale derivante”.

Anche in questo caso, ed a maggior ragione, trattandosi di intervento in autotutela su provvedimento illegittimo, la natura dell’obbligazione dell’amministrazione è indennitaria e non risarcitoria; presuppone che non vi sia stata conoscenza, secondo criteri di media diligenza, dell’illegittimità dell’atto da parte del suo destinatario (che invece ha confidato nella sua legittimità), e che non vi sia stato il concorso nella produzione del vizio di legittimità inficiante l’atto. La misura dell’indennizzo, infine, deve ritenersi limitata al danno emergente.

In definitiva, per le ipotesi di esercizio di potere di autotutela su provvedimenti inerenti a rapporti contrattuali (revoca o annullamento d’ufficio), ferma la necessità di riscontrare la sussistenza degli altri presupposti previsti, l’indennizzo è parametrato al solo “danno emergente”.

8. Diversamente da quanto affermato per l’indennizzo, l’obbligazione della pubblica amministrazione per responsabilità contrattuale o extracontrattuale ha natura risarcitoria e, nel caso della responsabilità precontrattuale (che, per le ragioni di seguito esposte, il Collegio ritiene che ricorra nel caso in esame e che costituisce species della responsabilità extracontrattuale: Cons. St., sez. V, 10 novembre 2008 n. 5574), si fonda, ai sensi dell’art. 1337 cod. civ., sulla violazione dei principi di correttezza e buona fede “nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto”.

Come ha chiarito anche l’Adunanza Plenaria (dec. 5 settembre 2005 n. 6), l’accertamento della eventuale responsabilità precontrattuale dell’amministrazione non è esclusa dalla dichiarata legittimità del provvedimento (di annullamento o, in particolare, di revoca) assunto in via di autotutela, posto che, se “la revoca dell’aggiudicazione e degli atti della relativa procedura (vale) a porre al riparo l’interesse pubblico dalla stipula di un contratto che l’amministrazione non avrebbe potuto fronteggiare per carenza delle risorse finanziarie occorrenti” (tale il presupposto della revoca nel caso considerato), permane tuttavia “il fatto incancellabile degli “affidamenti” suscitati nell’impresa dagli atti della procedura di evidenza pubblica poi rimossi (affidamenti che sono perdurati fino a quando non è stata comunicata alla parte privata la revoca degli atti. . . .”, posto che “l’impresa non poteva non confidare, durante il procedimento di evidenza pubblica, dapprima sulla “possibilità” di diventare affidataria del contratto e più tardi – ad aggiudicazione intervenuta – sulla disponibilità di un titolo che l’abilitava ad accedere alla stipula del contratto stesso.”.

Precisa, inoltre, l’Adunanza Plenaria che “occorre, naturalmente, che i comportamenti predetti – per porsi quali fatti generatori di responsabilità precontrattuale – risultino contrastanti con le regole di correttezza e di buona fede di cui all’art. 1337 del c.c..”.

In sostanza, ai fini della configurabilità della responsabilità precontrattuale della p.a. non si deve tener conto della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica cristallizzato nel provvedimento amministrativo, ma della correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall’Amministrazione durante il corso delle trattative e della formazione del contratto, alla luce dell’obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede ai sensi dell’art. 1337 c.c. (Cons. St., sez. V, 7 settembre 2009 n . 5245).

Se, per un verso, si è affermato che la responsabilità precontrattuale non è configurabile anteriormente alla scelta del contraente, come nella fase in cui gli interessati sono solo meri partecipanti alla gara (Cons. St., sez. V, 28 maggio 2010 n. 3393; 8 settembre 2010 n. 6489), per altro verso si è anche sostenuto (Cons. St., sez. VI, 17 dicembre 2008 n. 6264) che non vi sono ragioni sistematiche onde escludere la configurabilità di una responsabilità di carattere precontrattuale in capo all’Amministrazione in ipotesi in cui il mancato rispetto dei generali canoni di buona fede e correttezza in contrahendo si sia risolto in un’attività nel suo complesso illegittima, la quale abbia comunque determinato l’impossibilità del sorgere del vincolo contrattuale. Ciò in quanto – per un verso – le trattative fra le parti sono state interrotte al mero stadio dell’aggiudicazione provvisoria (fase in cui, anche nel sistema anteriore all’entrata in vigore del c.d. “codice dei contratti” era pacifica l’assenza di un vincolo stricto sensu contrattuale) e che – per altro verso – nel corso di tale fase grava sul soggetto pubblico l’obbligo di comportarsi secondo buona fede, atteso che nel corso delle trattative sorge tra le parti un rapporto di affidamento che l’ordinamento ritiene meritevole di tutela.

Secondo tale giurisprudenza, se, infatti, durante la fase formativa di un negozio giuridico la p.a. viola il dovere di lealtà e correttezza, ponendo in essere comportamenti che non salvaguardano l’affidamento della controparte in modo da sorprendere la sua fiducia sulla conclusione del contratto, essa risponde per responsabilità precontrattuale ai sensi dell’art. 1337 c.c.

Al contrario, è stata esclusa la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione allorché la stipulazione del contratto avverrebbe in violazione di norme imperative (Cons. St., sez. VI, 3 febbraio 2011 n. 780). Occorre, infatti, ricordare che l’art. 1337 mira a tutelare nella fase precontrattuale il contraente di buona fede, ingannato o fuorviato da una situazione apparente, non conforme a quella vera, e, comunque, dall’ignoranza della causa di invalidità del contratto, che né doveva da egli essere conosciuta (come nel caso di violazione di norme imperative), né poteva essere conosciuta con l’ordinaria diligenza (Cass. Civ., sez. III, 8 luglio 2010 n. 16149; sez. I, 13 maggio 2009 n. 11135).

9. Così ricostruiti gli aspetti salienti della responsabilità precontrattuale, il Collegio rileva che, secondo un orientamento affermato in giurisprudenza (Cons. St., sez. VI, 17 dicembre 2008 n. 6264), il danno risarcibile a titolo di responsabilità precontrattuale da parte della pubblica Amministrazione a seguito della mancata stipula dal contratto, debba intendersi limitato:

a) al rimborso dalle spese inutilmente sopportate nel corso delle trattative svolte in vista della conclusione del contratto (danno emergente);

b) al ristoro della perdita, se adeguatamente provata, di ulteriori occasioni di stipulazione con altri di contratti altrettanto o maggiormente vantaggiosi, impedite proprio dalle trattative indebitamente interrotte (lucro cessante), con esclusione del mancato guadagno che sarebbe stato realizzato con la stipulazione e l’esecuzione del contratto (in tal senso, ex plurimis: Cons. Stato, Sez. IV, 6 giugno 2008, n. 2680; id., Sez. V, sent. 14 aprile 2008, n. 1667 e 10 novembre 2008 n. 5574; Cons. giust. Sicilia, 25 gennaio 2011 n. 63).

Tuttavia, a fronte di tale orientamento, che – positivamente ricondotto il danno risarcibile al cd. “interesse negativo”, cioè all’interesse del soggetto a non essere leso nell’esercizio della sua libertà negoziale. – richiede che sia comunque fornita la prova della esistenza di ulteriori occasioni di stipulazione di altri contratti, impedite nel loro realizzarsi proprio dalle trattative indebitamente interrotte, si pone altra giurisprudenza (Cons. St., Ad. Plen., 5 settembre 2005 n. 6), che afferma come “anche con riferimento alla perdita di altre occasioni da parte dell’impresa, sembra preferibile conformarsi al criterio equitativo . . . (già adottato qualche volta dalla giurisprudenza amministrativa), del riconoscimento al concorrente dell’utile economico che sarebbe derivato dalla gestione del servizio messo in gara nella misura del 10% dell’ammontare dell’offerta”.

Il Collegio osserva, innanzi tutto, che la misura del risarcimento del danno, conseguente a responsabilità precontrattuale, non è concettualmente riducibile al solo “danno emergente”.

Può dirsi, infatti, sufficientemente condiviso che la responsabilità precontrattuale comporta obbligo di risarcimento del danno nei limiti del cd. interesse negativo, e cioè dell’interesse del soggetto a non essere leso nell’esercizio della sua libertà negoziale. (laddove l’interesse positivo è interesse all’esecuzione del contratto).

Mentre l’interesse positivo consiste nella perdita che il soggetto avrebbe evitato (danno emergente) e nel vantaggio economico che avrebbe conseguito (lucro cessante) se il contratto fosse stato eseguito, al contrario il danno proprio dell’interesse negativo consiste nel pregiudizio che il soggetto subisce per avere inutilmente confidato nella conclusione e nella validità del contratto ovvero per avere stipulato un contratto che senza l’altrui ingerenza non avrebbe stipulato o avrebbe stipulato a condizioni diverse.

Ne consegue che, nel caso di mancata conclusione del contratto, il soggetto avrà diritto al risarcimento del danno consistente innanzi tutto nelle spese inutilmente sostenute, e consistente inoltre nella perdita di favorevoli occasioni contrattuali, cioè di ulteriori possibilità vantaggiose sfuggite al contraente a causa della trattativa inutilmente intercorsa, ovvero a causa dell’inutile stipulazione del contratto.

A tali voci, ritiene il Collegio che possa essere aggiunto il cd. “danno curriculare”, cioè quel danno consistente nell’impossibilità di far valere, nelle future contrattazioni, il requisito economico pari al valore dell’appalto non eseguito.

E ciò nei casi in cui la responsabilità precontrattuale della P.A. non si configura con riferimento ad una interruzione delle trattative, che determina la mancata stipula del contratto, intervenuta in un generico momento delle stesse, bensì laddove si era già addivenuti alla sicura individuazione del contraente, a maggior ragione se per il tramite dell’aggiudicazione definitiva ed in presenza di un contenuto contrattuale già compiutamente definito, per il tramite del bando di gara e dell’offerta aggiudicataria.

In definitiva:

– mentre nel caso di indennizzo ex art. 21 – quinquies, la misura del medesimo è parametrata al solo “danno emergente”;

– nel caso di responsabilità precontrattuale, la misura del risarcimento comprende sia il danno emergente, sia (ove provato) il danno derivante dalla perdita di ulteriori favorevoli occasioni contrattuali, sia (laddove vi sia mancata stipulazione del contratto a fronte di aggiudicazione definitiva o di plausibile futura acquisizione dello status di aggiudicatario), il cd. danno curriculare.

Ove si voglia diversamente considerare, appare singolare e privo di ragionevolezza che l’ordinamento riconosca due attribuzioni patrimoniali, distinte ma di identica misura, benché nel primo caso ( ex art. 21- quinquies l. n. 241/1990), non vi sia alcuna attività illegittima o illecita dell’amministrazione, mentre nel secondo – in modo ben diverso e più grave – vi è un accertato illecito comportamento della medesima, tale da fondare responsabilità precontrattuale.

10. Già tale considerazione – afferente al titolo causale dell’attribuzione patrimoniale – induce ad una ricerca più attenta sulla esatta misura del danno risarcibile, laddove, come nel caso di specie, vi sia stata revoca (illegittima) dell’atto di aggiudicazione definitiva.

Ulteriori considerazioni, volte a determinare diversamente la misura del danno da responsabilità precontrattuale, discendono dall’esame della giurisprudenza in tema di risarcimento del danno da provvedimento illegittimo (come nel caso in cui vi sia successivo annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione definitiva).

Innanzi tutto, occorre ricordare, in via generale, che, secondo il Consiglio di Stato (sez. V, n. 490/2008) “il danno, per essere risarcibile, deve essere certo e non meramente probabile, o comunque deve esservi una rilevante probabilità del risultato utile” e ciò è quello che “distingue la chance risarcibile dalla mera e astratta possibilità del risultato utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale irrisarcibile”.

In tal senso, la giurisprudenza ha ancorato il risarcimento del danno cd. “da perdita di chance” a indefettibili presupposti di certezza dello stesso, escludendo il caso in cui l’atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una “eventualità” di conseguimento del bene della vita. Ed infatti, in tale ultimo caso, risulta pienamente esaustiva la tutela ripristinatoria offerta dall’annullamento e dalle sue conseguenze (in tal senso, Cons. Stato, sez. V, 3 agosto 2004 n. 5440; sez. V, 25 febbraio 2003 n. 1014; sez. VI, 23 luglio 2009 n. 4628; Cass. civ., sez. I, 17 luglio 2007 n. 15947).

Quanto al requisito soggettivo della colpa, questa deve essere valutata tenendo conto dei vizi che inficiano il provvedimento, della gravità delle violazioni ad essa imputabili (anche alla luce del potere discrezionale concretamente esercitato), delle condizioni concrete e dell’apporto eventualmente dato dai privati al procedimento (Cons. Stato, sez. VI, 15 giugno 2009 n. 3827). Il requisito è inoltre integrato dalla violazione delle regole procedimentali in tema di autotutela (Cons. Stato, sez. V, 21 agosto 2009 n. 5004).

In ogni caso, non è configurabile un danno risarcibile per equivalente, allorché, per effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione, vi sia ripetizione della gara d’appalto (e della connessa attività amministrativa), e quindi il ripristino della chance di aggiudicazione (Cons. Stato, sez. V, 28 agosto 2009 n. 5105).

Quanto alle “voci” del danno risarcibile, esse consistono (Cons. Stato, sez. V, n. 491/2008; sez. VI, n. 2384/2010):

a) nel danno emergente, costituito dalle spese e dai costi sostenuti per la preparazione dell’offerta e per la partecipazione alla procedura (secondo Cons. Stato, sez. VI, 21 maggio 2009 n. 3144, solo in caso di illegittima esclusione dalla gara);

b) nel lucro cessante, determinato nel 10% del valore dell’appalto, precisandosi anche che il lucro cessante è innanzi tutto determinato sulla base dell’offerta economica presentata al seggio di gara (Cons. Stato, sez. V, 6 aprile 2009 n. 2143);

c) una ulteriore percentuale del valore dell’appalto, “a titolo di perdita di chance, legata alla impossibilità di far valere, nelle future contrattazioni, il requisito economico pari al valore dell’appalto non eseguito”, cd. “danno curriculare” (in senso conforme, Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2008 n. 2751; sez. V., 23 luglio 2009 n. 4594; secondo Cons. Stato, sez. VI, n. 3144/2009, la percentuale del “danno curriculare” va calcolata sulla misura del lucro cessante e non già sull’importo dell’appalto);

d) il danno, equitativamente liquidato, per il mancato ammortamento di attrezzature e macchinari;

e) infine, il danno esistenziale, posto che “il diritto all’immagine, concretizzantesi nella considerazione che un soggetto ha di sé e nella reputazione di cui gode, non può essere considerato appannaggio esclusivo della persona fisica e va anzi riconosciuto anche alle persone giuridiche”.

Orbene, come è dato osservare, nelle ipotesi di risarcimento del danno da provvedimento illegittimo (come nel caso del danno subito dal partecipante alla gara secondo classificato che avrebbe dovuto essere aggiudicatario, e che ha quindi subito gli effetti di un provvedimento illegittimo), la prova dell’esistenza del medesimo interviene in base ad una verifica del caso concreto, che faccia concludere per la “certezza” del danno, sussistente sia laddove questo possa essere a tutta evidenza riscontrato, sia laddove vi sia “una rilevante probabilità del risultato utile”.

In definitiva, l’esame della sussistenza del danno da perdita di chance interviene:

– o attraverso la constatazione in concreto della sua esistenza, ottenuta attraverso elementi probatori (ad esempio, si è in presenza di un contratto eseguito o in esecuzione, che avrebbe dovuto essere certamente eseguito da una diversa impresa, in luogo di quella beneficiaria di aggiudicazione illegittima);

– o attraverso una articolazione di argomentazioni logiche, che, sulla base di un processo deduttivo rigorosamente sorvegliato, inducono a concludere per la sua sussistenza;

– ovvero ancora attraverso un processo deduttivo secondo il criterio, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, del c.d. “più probabile che non” (Cass. civ., n. 22022/2010), e cioè “alla luce di una regola di giudizio che ben può essere integrata dai dati della comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali” (Cass., sez. III civ., n. 22837/2010).

Inoltre, quanto alla determinazione dell’entità del risarcimento, occorre osservare che la giurisprudenza riconosce, in pratica, una misura dello stesso non dissimile da quella che conseguirebbe in base alla cd. responsabilità contrattuale (danno emergente e lucro cessante): e ciò in quanto la stipulazione e l’esecuzione del contratto vi è stata, ma diverso (da quello che avrebbe dovuto legittimamente essere) è stato il soggetto parte del contratto.

Ciò che differenzia, quindi, il risarcimento del danno da atto illegittimo (cui consegue l’instaurazione di un rapporto contrattuale) da quello derivante da responsabilità precontrattuale, è che solo nel primo e non nel secondo caso, vi è l’effettiva esecuzione del contratto. Di modo che, solo nel primo e non nel secondo caso, potrà riconoscersi il lucro cessante, derivante dal mancato conseguimento dell’utile conseguibile con la esecuzione del contratto, impedita dalla precedente, illegittima attività dell’amministrazione.

A diverse conclusioni deve, invece, giungersi, per il danno curriculare.

Posto che quest’ultimo consegue alla mancata esecuzione del contratto, sia che ciò dipenda dalla non assunta qualità di parte del contratto e del rapporto per illegittima attività dell’amministrazione, sia che ciò dipenda dalla mancata stipulazione di un contratto, del quale sono già individuati con certezza o forte plausibilità parte contraente (per il tramite dell’aggiudicazione definitiva) e contenuto (per il tramite del bando di gara e dell’offerta), per nuova, legittima determinazione, assunta dall’amministrazione in via di autotutela.

11. Alla luce di quanto sin qui esposto, il Collegio ritiene che non sussista un danno extracontrattuale (ex art. 2043 cod. civ.), tale da comportare risarcimento da parte del Ministero delle Infrastrutture in favore delle imprese appellanti incidentali.

Queste ultime individuano il danno subito per effetto dell’illecito extracontrattuale dell’amministrazione nella “violazione dei doveri procedimentali fondamentali (mancata conclusione del procedimento e mancata convocazione della commissione di gara per la proclamazione formale dell’aggiudicazione provvisoria per la quale erano intervenuti tutti i presupposti).

Si è già detto che, secondo la giurisprudenza, “il danno, per essere risarcibile, deve essere certo e non meramente probabile, o comunque deve esservi una rilevante probabilità del risultato utile” e ciò è quello che “distingue la chance risarcibile dalla mera e astratta possibilità del risultato utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale irrisarcibile”.

Nel caso di specie, e per le ragioni già esposte al precedente punto 6, l’ATI delle imprese appellate non ha conseguito né l’aggiudicazione provvisoria, né l’aggiudicazione definitiva, per effetto della revoca degli atti di gara, disposta dall’amministrazione, poi dichiarata illegittima dal giudice amministrativo.

Da ciò consegue che deve ritenersi satisfattorio delle posizioni giuridiche delle interessate l’effetto ripristinatorio derivante dall’annullamento della revoca degli atti di gara.

In tal senso depongono gli stessi presupposti, innanzi citati (violazioni di doveri procedimentali), ai quali le appellanti collegano la domanda di risarcimento del danno.

Il Collegio ritiene, invece, sussistente la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, posto che quest’ultima ha, a tutta evidenza, tenuto un comportamento tale da determinare il mancato rispetto dei generali canoni di buona fede e correttezza in contraendo, che si è risolto in un’attività nel suo complesso illegittima, la quale ha comunque determinato l’impossibilità del sorgere del vincolo contrattuale, atteso che – per un verso – le trattative fra le parti sono state interrotte al mero stadio dell’aggiudicazione provvisoria (ancorchè non formalmente intervenuta)e che – per altro verso – nel corso di tale fase grava sul soggetto pubblico l’obbligo di comportarsi secondo buona fede, atteso che nel corso delle trattative sorge tra le parti un rapporto di affidamento che l’ordinamento ritiene meritevole di tutela.

Nel caso di specie (ed ai fini di cui all’art.34, co. 4, Cpa), il risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale deve consistere:

– nel danno emergente, consistente nelle spese sostenute per la partecipazione alla gara;

– nel cd. danno curriculare, derivante dalla mancata stipulazione ed esecuzione del contratto, non potendosi far valere, da parte dell’impresa appellante incolpevole, nelle contrattazioni successive, il requisito economico pari al valore dell’appalto non eseguito, posto che ciò è derivato dalla sopravvenuta illegittima attività dell’amministrazione. Tale voce va equitativamente determinata nella misura del 3% del valore dell’appalto, come definibile dalla misura dell’offerta delle imprese appellanti incidentali (Cons. St., sez. V, 12 febbraio 2008 n. 491 e 23 ottobre 2007 n. 5592).

Contrariamente a quanto affermato ai fini del riconoscimento del cd. danno curriculare, non può essere, invece, riconosciuto il danno consistente nell’utile che sarebbe derivato dall’esecuzione del contratto (normalmente definito nel 10% del valore dell’appalto), dato che, nel caso di specie, non vi è stata esecuzione del contratto da parte di altro contraente (come nel caso di risarcimento del danno da illegittima aggiudicazione ad altro concorrente).

Allo stesso modo, non può essere riconosciuto il ristoro della perdita di ulteriori occasioni di stipulazione con altri di contratti altrettanto o maggiormente vantaggiosi, impedite proprio dalle trattative indebitamente interrotte (lucro cessante), con esclusione del mancato guadagno che sarebbe stato realizzato con la stipulazione e l’esecuzione del contratto. Ciò in quanto le appellanti incidentali non hanno idoneamente provato sia l’esistenza di occasioni contrattuali non sfruttate, sia il nesso di causalità tra “concentrazione” delle energie imprenditoriali verso la stipulazione del contratto de quo e mancata stipulazione di altri contratti (v. in part. pagg. 62 – 63 memoria del 14 novembre 2011).

Giova, inoltre, osservare che la perdita di occasioni contrattuali per costituire evento di danno e quindi presupposto di obbligazione risarcitoria della P.A. non deve proporsi come effetto di una scelta imprenditoriale “libera”, anche se dettata da criteri di maggiore convenienza o opportunità, ciò rientrando nella piena disponibilità dell’imprenditore.

Al contrario, essa deve costituire la conseguenza di una situazione in cui – per la natura dell’appalto, lo stato della procedura di affidamento, le modalità di esecuzione e i contenuti del contratto da stipularsi – la scelta dell’imprenditore appare “necessitata”, in relazione alle obbligazioni che egli assumerebbe per effetto del contratto alla stipulazione del quale non si è pervenuti per responsabilità dell’amministrazione appaltante.

7 . Per le ragioni sin qui esposte, l’appello incidentale deve essere accolto, in relazione al motivo sub g) dell’esposizione in fatto, con conseguente, parziale riforma della sentenza appellata e parziale accoglimento del ricorso instaurativo del giudizio di I grado.

Ne consegue che l’amministrazione provvederà a formulare all’appellante una proposta, nei termini disposti dalla presente sentenza, ex art. 34, co. 4, Cpa.,

Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull’appello proposto dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e dal Ministero della Giustizia (n. 8696/2011 r.g.):

a) rigetta l’appello;

b) accoglie, nei sensi e limiti di cui in motivazione, l’appello incidentale proposto dalle società Aet ed altre, come in epigrafe indicate, e, in parziale riforma della sentenza impugnata, accoglie in parte il ricorso instaurativo del giudizio di I grado;

c) condanna il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti ed il Ministero della Giustizia, in solido, al pagamento, in favore delle imprese appellate costituite, delle spese, diritti ed onorari di giudizio, che liquida in complessivi Euro tremila/00 (3.000,00)

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 marzo 2012 con l’intervento dei magistrati:

Anna Leoni, Presidente FF
Sergio De Felice, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere
Raffaele Potenza, Consigliere
Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE

IL PRESIDENTE
 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 14/01/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
 

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