Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Beni culturali ed ambientali, Cave e miniere, Danno ambientale Numero: 18888 | Data di udienza: 24 Ottobre 2017

CAVE E MINIERE – Attività di cava e titolo abilitativo a fini paesaggistici – BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Piano di bonifica – Reato di cui all’art.181, c.1 d.lgs. n. 42/2004 – DANNO AMBIENTALE – Risarcimento del danno in favore della parte civile – Fattispecie: coltivazione abusiva di cava mascherata da bonifica.


Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 3 Maggio 2018
Numero: 18888
Data di udienza: 24 Ottobre 2017
Presidente: FIALE
Estensore: ANDRONIO


Premassima

CAVE E MINIERE – Attività di cava e titolo abilitativo a fini paesaggistici – BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Piano di bonifica – Reato di cui all’art.181, c.1 d.lgs. n. 42/2004 – DANNO AMBIENTALE – Risarcimento del danno in favore della parte civile – Fattispecie: coltivazione abusiva di cava mascherata da bonifica.



Massima

 

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 3^ 03/05/2018 (Ud. 24/10/2017), Sentenza n.18888

 
 
CAVE E MINIERE – Attività di cava e titolo abilitativo a fini paesaggistici – BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Piano di bonifica – Reato di cui all’art.181, c.1 d.lgs. n. 42/2004 – DANNO AMBIENTALE – Risarcimento del danno in favore della parte civile – Fattispecie: coltivazione abusiva di cava mascherata da bonifica.
 
In tema di coltivazioni di cave, sussiste la responsabilità penale e civile quando non è posta in essere la procedura prevista dall’art. 674 del d.P.R. n. 128 del 1959 (Norme di polizia delle miniere e delle cave), che disciplina gli interventi di vigilanza in situazioni di pericolo non immediato; procedura che non può, comunque, sostituire il rilascio del titolo abilitativo a fini paesaggistici. Sicché, deve essere riconosciuto il risarcimento del danno in favore della parte civile, per il reato di cui all’art. 181, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004, perché, in qualità di amministratore unico della società, titolare della concessione per lo sfruttamento della cava senza autorizzazione e in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, effettuava attività estrattiva di marmo. Nella specie, in conclusione, le mere interlocuzioni tra Asl e società non possono essere considerate alla stregua di autorizzazioni e sono, in ogni caso, irrilevanti ai fini paesaggistici, perché provenienti da un’autorità diversa rispetto quella preposta alla tutela del vincolo. 
 
(dich. inammissibile il ricorso avverso sentenza della CORTE D’APPELLO DI FIRENZE – 9/02/2017) Pres. FIALE, Rel. ANDRONIO, Ric. Luisi 

 


Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 3^ 03/05/2018 (Ud. 24/10/2017), Sentenza n.18888

SENTENZA

 

 

 
 
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 3^ 03/05/2018 (Ud. 24/10/2017), Sentenza n.18888
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
 
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
 
omissis
 
ha pronunciato la seguente
 
SENTENZA
 
sul ricorso proposto da Luisi Claudio, nato a Forte dei Marmi il 24 ottobre 1961;
 
avverso la sentenza della Corte d’appello di Firenze del 9 febbraio 2017;
 
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
 
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro M. Andronio;
 
udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale Paolo Canevelli, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
 
udito, per la parte civile, l’avv. Gian Paolo carabelli, che ha depositato conclusioni scritte e nota spese;
 
udito, per l’imputato, l’avv. Cristian Baroni, anche in sostituzione dell’avv. Giuliano Dinelli.
 
RITENUTOIN FATTO
 
1. – Con sentenza del 9 febbraio 2017, la Corte d’appello di Firenze ha confermato la sentenza del 26 maggio 2015 del Tribunale di Lucca, che – per quanto qui rileva – aveva condannato l’imputato alla pena di tre mesi di arresto ed € 32.000,00 di ammenda, oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile, per il reato di cui all’art. 181, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004, perché, in qualità di amministratore unico della società Tre Elle S.r.l., titolare della concessione per lo sfruttamento della cava Faniello-Rondonaio, senza autorizzazione e in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, effettuava attività estrattiva di marmo, tra cui uno scavo di circa 210 metri quadri e profondità media di circa 2,8 metri e alcuni tagli al monte, non quantificabili, in un piazzale superiore della cava.
 
2. – Avverso la sentenza l’imputato ha presentato, tramite il difensore, ricorso per cassazione.
 
Con un unico e articolato motivo di doglianza, si lamentano vizi della motivazione e la violazione dell’art. 111 Cost., e degli artt. 192, comma 1, 546, comma 1, lettera e), cod. proc. pen. 
 
In particolare, si contesta la manifesta illogicità della sentenza impugnata relativamente al tempo di realizzazione delle opere contestate, rilevante ai fini della prescrizione del reato. Secondo la Corte d’appello, considerata l’assenza di ossidazione del marmo in prossimità dei tagli del monte, questi sarebbero da ricondurre a qualche mese antecedente il sopralluogo sulla cava, avvenuto il 17 gennaio 2012. 
 
Tuttavia, secondo la prospettazione difensiva, l’affermazione dei giudici di merito sarebbe stata determinata sulla base delle asserzioni del teste Speroni, pubblico ufficiale in servizio all’ente parco Alpi Apuane, che nelle sue dichiarazioni ipotizzava un’esecuzione dei lavori in tempi recenti. 
 
Si rileva, dunque, la violazione degli artt. 220 e 233, cod. proc. pen., dal momento che una valutazione tecnica, quale quella effettuata dal teste, sarebbe riservata esclusivamente al perito o al consulente tecnico di parte. 
 
Inoltre, la sentenza impugnata ometterebbe di fornire sul punto una giustificazione esterna, ossia una motivazione in ordine all’utilizzo della legge scientifica, che spiegherebbe l’ossidazione del marmo con il passare del tempo. 
 
Secondo il ricorrente, dunque, il tempus commissi delicti dovrebbe essere retrodatato all’agosto 2010, periodo individuato dai testi Andrei (consulente tecnico della Tre Elle S.r.l) e Torri (direttore responsabile per la sicurezza della cava) e dalle produzioni documentali. 
 
Per quanto riguarda la contestazione relativa allo scavo di 200 metri quadri, la Corte d’appello avrebbe sostenuto che la sua realizzazione sarebbe stata effettuata in mancanza di autorizzazione, sia da parte della ASL che da parte del Comune. 
 
Secondo la prospettazione difensiva, invece, dal 1997 l’ASL avrebbe indicato la necessità di addivenire alla messa in sicurezza del piazzale superiore della cava, e in funzione di ciò sarebbe stato elaborato un programma di bonifica, che prevedeva la costruzione di un letto idoneo a impedire il precipitare, in modo incontrollato, delle porzioni di roccia che sarebbero state tagliate durante i lavori; e tale letto costituirebbe lo scavo oggetto dell’imputazione. 
 
Circostanza provata, secondo il ricorrente, oltre che dai testi escussi in dibattimento, anche dallo scambio di comunicazioni tra la stessa ASL e la Tre Elle S.r.l., relative al piano di bonifica. Si sarebbe, dunque, attuata la procedura prevista dall’art. 674 del d.P.R. n. 128 del 1959, che disciplina gli interventi di vigilanza in situazioni di pericolo non immediato, a fronte delle quali la ASL invita il direttore responsabile della cava a presentare un progetto di bonifica, da sottoporre all’approvazione della ASL. 
 
In tali situazioni, non sarebbe prevista, dunque, alcuna autorizzazione del Comune territorialmente competente, necessaria solo qualora gli interventi di bonifica comportino una variazione al progetto di coltivazione autorizzato; ipotesi non verificatasi nel caso di specie. In ogni caso, secondo il ricorrente, l’autorizzazione comunale sarebbe stata richiesta e ottenuta con il provvedimento n.11 del 27 luglio 2012 del Comune di Vagli di Sotto.
 
CONSIDERATO IN DIRITTO
 
3. – Il ricorso è inammissibile.
 
Esso si basa su mere ipotesi difensive che si pongono in contrasto radicale con le risultanze istruttorie, correttamente prese in considerazione dai giudici di primo secondo grado. In particolare, la retrodatazione dell’illecito al 2010 è stata esclusa dalle testimonianze espletate, da cui è emerso che le opere delle quali si tratta non erano state ancora eseguite il 16 settembre 2011 ed erano di poco precedenti al sopralluogo del 17 gennaio 2012, dal quale era emerso sia che il marmo esposto era privo di ossidazione sia che vi era la presenza di macchine predisposte per il taglio di quel marmo. 
 
Risulta smentita dagli atti anche la ricostruzione difensiva secondo cui lo scavo era stato richiesto per ragioni sanitarie, trattandosi invece di una semplice coltivazione abusiva mascherata da bonifica.
 
Le mere interlocuzioni tra Asl e società non possono essere considerate alla stregua di autorizzazioni e sono, in ogni caso, irrilevanti ai fini paesaggistici, perché provenienti da un’autorità diversa rispetto quella preposta alla tutela del vincolo. 
 
Dalla semplice lettura delle testimonianze riportate nel ricorso emerge, del resto, che vi erano stati rapporti tra Asl e società relativi alla messa in sicurezza dell’area e che tali rapporti non erano mai sfociati in un provvedimento di prescrizioni adempiuti dalla società dell’imputato in epoca corrispondente al momento di commissione del reato contestato. 
 
Tanto che la stessa difesa richiama la risalente prescrizione del 24 marzo 1997, che nulla a che vedere con i lavori poi svolti a ridosso del gennaio 2012, nonché la prescrizione del 16 febbraio 2012, addirittura successiva alla commissione del reato e ulteriore documentazione ancora successiva. Del tutto correttamente, dunque, i giudici di primo e secondo grado hanno ritenuto sussistente la responsabilità penale e civile dell’imputato, rilevando che non era stata posta in essere la procedura prevista dall’art. 674 del d.P.R. n. 128 del 1959, che disciplina gli interventi di vigilanza in situazioni di pericolo non immediato; procedura che – lo si ripete – non può sostituire il rilascio del titolo abilitativo a fini paesaggistici. E deve essere esclusa la prescrizione del reato, commesso il 17 gennaio 2012, in presenza dei periodi di sospensione computati dalla Corte d’appello, che portano la scadenza del termine finale al 22 novembre 2017.
 
4. – Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in ( 2.000,00. L’imputato deve eanche essere condannato alla rifusione delle spese sostenute nel grado della parte civile Comune di Vagli di Sotto, da liquidarsi in ( 3000,00, oltre spese generali e accessori di legge.
 
P.Q.M.
 
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di ( 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado della parte civile Comune di Vagli di Sotto, che liquida in ( 3000,00 oltre spese generali e accessori di legge.
 
Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2017.
 

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