Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Acqua - Inquinamento idrico, Agricoltura e zootecnia, Diritto processuale penale, Rifiuti Numero: 38866 | Data di udienza: 30 Maggio 2017

RIFIUTI – Attività di ricovero e custodia cani conto terzi – Esclusione dalla nozione di allevamento del bestiame – Effluenti di allevamento – Utilizzazione agronomica – Presupposti – Smaltimento mediante impianto rudimentale di termocombustione – ACQUA – INQUINAMENTO IDRICO – Disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni – Gestione non autorizzata di rifiuti pericolosi e non pericolosi – Reflui di allevamento (canile) – Risarcimento dei danni in favore della parte civile – Insussistenza di un danno concreto – Artt. 74, 101, 112, 124, 133, 137 c.1 e 256 d.lvo n.152/2006 – AGRICOLTURA E ZOOTECNIA – Imprese dedite all’allevamento di bestiame – Disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni – Effluenti di allevamento – Utilizzazione agronomica – Assimilazione alle acque reflue domestiche – Utilizzazione agronomica – Casi o limiti consentiti – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Ricorso in cassazione – Ricostruzione e valutazione dei fatti senza individuare vizi di logicità – Inammissibilità – Causa di esclusione della punibilità ex art. 131 bis cod.pen. – Inapplicabilità in caso di più reati della stessa indole – Giurisprudenza – Inammissibilità del ricorso in cassazione per motivi generici – Mancanza di specificità del motivo – Motivi che riproducono le ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame.


Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 4 Agosto 2017
Numero: 38866
Data di udienza: 30 Maggio 2017
Presidente: SAVANI
Estensore: Di Stasi


Premassima

RIFIUTI – Attività di ricovero e custodia cani conto terzi – Esclusione dalla nozione di allevamento del bestiame – Effluenti di allevamento – Utilizzazione agronomica – Presupposti – Smaltimento mediante impianto rudimentale di termocombustione – ACQUA – INQUINAMENTO IDRICO – Disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni – Gestione non autorizzata di rifiuti pericolosi e non pericolosi – Reflui di allevamento (canile) – Risarcimento dei danni in favore della parte civile – Insussistenza di un danno concreto – Artt. 74, 101, 112, 124, 133, 137 c.1 e 256 d.lvo n.152/2006 – AGRICOLTURA E ZOOTECNIA – Imprese dedite all’allevamento di bestiame – Disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni – Effluenti di allevamento – Utilizzazione agronomica – Assimilazione alle acque reflue domestiche – Utilizzazione agronomica – Casi o limiti consentiti – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Ricorso in cassazione – Ricostruzione e valutazione dei fatti senza individuare vizi di logicità – Inammissibilità – Causa di esclusione della punibilità ex art. 131 bis cod.pen. – Inapplicabilità in caso di più reati della stessa indole – Giurisprudenza – Inammissibilità del ricorso in cassazione per motivi generici – Mancanza di specificità del motivo – Motivi che riproducono le ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame.



Massima

 

 
 
  
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 04/08/2017 (ud. 30/05/2017), Sentenza n.38866
 
 
RIFIUTI – Attività di ricovero e custodia cani conto terzi – Esclusione dalla nozione di allevamento del bestiame – Effluenti di allevamento – Utilizzazione agronomica – Presupposti – Smaltimento mediante impianto rudimentale di termocombustione – ACQUA – INQUINAMENTO IDRICO – Disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni – Gestione non autorizzata di rifiuti pericolosi e non pericolosi – Reflui di allevamento (canile) – Risarcimento dei danni in favore della parte civile – Insussistenza di un danno concreto – Artt. 74, 101, 112, 124, 133, 137 c.1 e 256 d.lvo n.152/2006.
 
L’attività di ricovero e custodia cani conto terzi, tenuto conto anche del tipo di refluo accertato (deiezioni animali, residui di attività di toelettatura e di cura sanitaria) è un’attività di servizio ben diversa dal mero allevamento, che, secondo la comune nozione, è l’attività di custodire, far crescere ed opportunamente riprodurre animali in cattività, totale o parziale, per scopi produttivi o commerciali. Pertanto,  nella fattispecie in esame, la normativa invocata (art. 101, comma 7, d.lgs 152/2006 così come modificato dall’art. 2, comma 8, del d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4) non può trovare applicazione difettando il necessario presupposto della provenienza dei reflui da impresa dedita all’allevamento del bestiame.
 
  
ACQUA – AGRICOLTURA E ZOOTECNIA – Imprese dedite all’allevamento di bestiame – Disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni – Effluenti di allevamento – Utilizzazione agronomica – Assimilazione alle acque reflue domestiche – Utilizzazione agronomica – Casi o limiti consentiti.
 
L’art. 101, comma 7, d.lgs 152/2006 così come modificato dall’art. 2, comma 8, del d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, ha parificato, senza limitazioni, alle acque reflue domestiche le acque reflue provenienti dall’attività di allevamento del bestiame, la modifica normativa operata, comportando il venire meno della "connessione funzionale dell’allevamento con la coltivazione della terra" e dei criteri di individuazione di tale connessione, capovolge sostanzialmente i termini della questione rispetto alla disciplina regolata dal d.lgs. n. 152 del 2006. Sicchè, nell’attuale assetto normativo, per effetto della caducazione suindicata, l’assimilazione prevista dell’art. 101, c.7, delle acque reflue domestiche a quelle provenienti da imprese dedite all’allevamento di bestiame, diviene la regola. L’unica eccezione rimane quella – richiamata ad excludendum dell’art. 101, comma 7, – del d.lgs. n. 152 del 2006 – dell’art. 112 che regola l’utilizzazione agronomica, infatti, continua a mantenere rilevanza penale la sola utilizzazione agronomica- così come definita dall’art. 74, comma 1 lett. p) del d.lgs. n. 152/2006 – nelle ipotesi in cui la stessa avvenga al di fuori dei casi o dei limiti consentiti. In conclusione, le acque reflue provenienti da imprese dedite all’allevamento di bestiame sono assimilate alle acque reflue domestiche ai fini della disciplina degli scarichi e lo scarico senza autorizzazione degli effluenti d’allevamento non è più previsto dalla legge come reato, ma integra l’illecito amministrativo previsto dall’art. 133, comma secondo, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152. (Sez.3, n.26532 del 21/05/2008; Sez.3, n.9488 del 29/01/2009).
 

DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Ricorso in cassazione – Ricostruzione e valutazione dei fatti senza individuare vizi di logicità – Inammissibilità. 
 
Le censure che si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità, ricostruzione e valutazione, sono precluse in sede di giudizio di cassazione. Anche a seguito delle modifiche dell’art.606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. introdotte dalla L. n. 46 del 2006, art. 8 non è consentito dedurre il "travisamento del fatto", stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito ed in particolare di operare la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti. Pertanto, la Corte di Cassazione deve circoscrivere il suo sindacato di legittimità, sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell’assenza, in quest’ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con "atti del processo", specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa, tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Sez. 4 08/04/2010 n. 15081; Sez. 6 n. 38698 del 26/09/2006; Sez.5, n.6754 del 07/10/2014, dep.16/02/2015).


DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Causa di esclusione della punibilità ex art. 131 bis cod.pen. – Inapplicabilità in caso di più reati della stessa indole – Giurisprudenza.
 
La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis cod. pen. non può essere applicata, ai sensi del terzo comma del predetto articolo, qualora l’imputato abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima "ratio puniendi") poiché è la stessa previsione normativa a considerare il "fatto" nella sua dimensione "plurima", secondo una valutazione complessiva in cui perde rilevanza l’eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si articola (Sez.5,n.4852 del 14/11/2016, dep.01/02/2017; Sez.3, n.48318 del 11/10/2016; Sez.3, n.48315 del 11/10/2016; Sez.5, n.26813 del 10/02/2016; Sez.3, n.43816 del 01/07/2015; Sez.3, n.29897 del 28/05/2015).
 

DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Inammissibilità del ricorso in cassazione per motivi generici – Mancanza di specificità del motivo – Motivi che riproducono le ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame.
 
In tema di inammissibilità del ricorso per cassazione, i motivi devono ritenersi generici non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez.2, n.19951 del 15/05/2008; Sez.5, n. 28011 del 15/02/2013; Sez.2, n.11951 del 29/01/2014). La mancanza di specificità del motivo, invero, dev’essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell’art. 591 comma 1 lett. c), all’inammissibilità (Sez. 4, 29/03/2000, n. 5191, Barone; Sez. 1, 30/09/2004, n. 39598, Burzotta; Sez. 4, 03/07/2007, n. 34270, Scicchitano; Sez. 3, 06/07/2007, n. 35492, Tasca). Inoltre, deve essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591 comma 1, lett. e) cod. proc. pen., alla inammissibilità della impugnazione. 
 

(dichiara inammissibili i ricorsi avverso  sentenza del 23/09/2016 della CORTE DI APPELLO DI MILANO) Pres. SAVANI, Rel. DI STASI, Ric. Midgley

Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 04/08/2017 (ud. 30/05/2017), Sentenza n.38866

SENTENZA

 

 

 
 
 
 
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 04/08/2017 (ud. 30/05/2017), Sentenza n.38866
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
 
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
 
omissis
 
ha pronunciato la seguente
 
SENTENZA 
 
sui ricorsi proposti da:
 
MIDGLEY DEBORAH ANNIE, nata in Gran Bretagna il 24/05/1962;
 
CIRILLO PIETRO ANTONIO, nato a Boscotrecase il 13/10/1950;
 
avverso la sentenza del 23/09/2016 della Corte di appello di Milano;
 
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
 
udita la relazione svolta dal consigliere Dott.ssa Antonella Di Stasi;
 
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Fulvio Baldi, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
 
udito per la parte civile l’avv. Alessandra Zimmiti che ha concluso chiedendo la conferma della sentenza.
 
RITENUTO IN FATTO
 
1. Con sentenza del 18.12.2015, il Tribunale di Milano dichiarava Midgley Annie Deborah responsabile dei reati di cui agli artt. 137 comma 1 e 124 d.lvo 152/2006 – per avere, quale amministratore unico della società "Il Molino", presso la cui sede esercitava attività di ricovero e custodia cani per conto terzi, aperto quattro nuovi scarichi ed effettuato tre nuovi scarichi in assenza di autorizzazione nella Roggia Cadora- e Cirillo Pietro Antonio del reato di cui all’art. 256 comma 1 lett. a) e b) divo 152/2006- perché effettuava una gestione non autorizzata di rifiuti pericolosi e non pericolosi con attività di smaltimento mediante impianto rudimentale di termocombustione – e condannava la prima alla pena di euro 5000 di ammenda ed il secondo alla pena di mesi quattro di arresto ed euro 2000 di ammenda nonché entrambi al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita.
 
Con sentenza del 23/09/2016, la Corte di appello di Milano in parziale riforma della predetta sentenza concedeva a Midgley Annie Deborah il beneficio della sospensione condizionale della pena e confermava nel resto.
 
 
2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati, per il tramite dei rispettivi difensori, articolando i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 comma 1, disp. att. cod. proc. pen. 
 
Midgley Annie Deborah propone sei motivi di ricorso.
 
Con il primo motivo deduce violazione di legge in relazione al reato di cui all’art. 137 dlgs 152/2006, argomenta che erroneamente i Giudici di merito non ritenevano i reflui riferibili al canile gestito dalla Midgley quali effluvi d’allevamento e, come tali, non più penalmente rilevanti.
 
Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione in relazione al valore probatorio degli accertamenti ARPA, argomentando che tali accertamenti non comprovavano con assoluta certezza l’effettiva sussistenza di scarichi in acqua e la loro consistenza.
 
Con il terzo motivo deduce erronea applicazione dell’art. 74 dlgs n. 152/2006, argomentando che gli accertamenti ARPA non avrebbero dimostrato la presenza di uno sistema stabile di collegamento senza soluzione di continuità tra il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore né tale circostanza sarebbe emersa dalle dichiarazioni dei testi e dalla documentazione in atti.
 
Con il quarto motivo deduce erronea applicazione dell’art. 45 cod.pen., argomentando che gli accertamenti eseguiti dall’ARPA nel sopralluogo del 20.6.2012 avrebbero potuto determinare una rottura dei canali o un loro scollegamento a causa dell’eccessiva pressione dell’acqua e che le dichiarazioni rese dal teste Bellini e le risultanze della Ctu espletata dal dott. Gino davano atto di come l’improvviso scarico fosse dovuto ad un evento imprevedibile derivante dall’attività di accertamento degli agenti di PG.
 
Con il quinto motivo deduce violazione di legge in relazione all’art. 131 bis cod.pen, argomentando che la motivazione della Corte territoriale posta a fondamento del diniego di applicabilità della causa di non punibilità dell’art. 131 bis cod.pen. sarebbe errata e non condivisibile.
 
Con il sesto motivo deduce vizio di motivazione in relazione alla condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile, argomentando che la richiesta di risarcimento, alla luce di quanto emerso dalla Ctu espletata dall’ing. Gino, sarebbe sfornita di fondamento per insussistenza di un danno concreto.
 
Cirillo Pietro Antonio proporne un unico motivo di ricorso con il quale deduce vizio di motivazione in ordine all’affermazione di responsabilità in relazione 256 comma 1 lett. a) e b) divo 152/2006, lamentando che la Corte territoriale avrebbe confermato la sentenza di primo grado con affermazioni apodittiche e senza valutare i motivi di appello.
 
Chiedono, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.
 
 
CONSIDERATO IN DIRITTO
 
 
1. Il ricorso proposto da Midgley Annie Deborah va dichiarato inammissibile.
 
 
1.1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
 
Va premesso che l’art. 101, comma 7, d.lgs 152/2006 dispone poi che «ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, sono assimilate alle acque reflue domestiche le acque reflue: b) provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame».
 
Tale disposizione è stata modificata dall’art. 2, comma 8, del d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, che ha eliminato le successive parole «che, per quanto riguarda gli effluenti di allevamento, praticano l’utilizzazione agronomica in conformità alla disciplina regionale stabilita sulla base dei criteri e delle norme tecniche generali di cui all’articolo 112, comma 2, e che dispongono di almeno un ettaro di terreno agricolo per ognuna delle quantità indicate nella Tabella 6 dell’Allegato 5 alla parte terza del presente decreto».
 
Quindi, innovando sensibilmente la precedente disciplina, l’attuale normativa ha parificato, senza limitazioni, alle acque reflue domestiche le acque reflue provenienti dall’attività di allevamento del bestiame.
 
E’ stato osservato che la modifica normativa operata, comportando il venire meno della "connessione funzionale dell’allevamento con la coltivazione della terra" e dei criteri di individuazione di tale connessione, capovolge sostanzialmente i termini della questione rispetto alla disciplina regolata dal d.lgs. n. 152 del 2006.
 
Mentre, infatti, con la normativa pregressa le acque reflue provenienti da una attività di allevamento del bestiame andavano considerate, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, come acque reflue industriali, e solo eccezionalmente potevano essere assimilate, ai detti fini, alle acque reflue domestiche qualora fosse dimostrata la presenza delle condizioni indicate dal D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, art. 28, comma 7, lett. b), e poi d.lgs. n. 152 del 2006, art. 101, comma 7, ossia quando vi era la prova della connessione del terreno agricolo con le attività di allevamento (Sez. 3, n.4500 del 17/11/2005, Rv. 233283); nell’attuale assetto normativo, per effetto della caducazione suindicata, l’assimilazione prevista dell’art. 101, comma 7, delle acque reflue domestiche a quelle provenienti da imprese dedite all’allevamento di bestiame, diviene la regola (cfr in termini Sez.3, n.26532 del 21/05/2008, Rv.240552).
 
Per effetto di tali modifiche si è ritenuto, pertanto, sanzionato solo in via amministrativa, ai sensi del d.lgs. 152 del 2006, art. 133, comma 2, lo scarico senza autorizzazione degli effluenti di allevamento. L’unica eccezione rimane quella – richiamata ad excludendum dell’art. 101, comma 7, – del d.lgs. n. 152 del 2006 – dell’ art. 112 che regola l’utilizzazione agronomica: per effetto del combinato delle disposizioni del d.lgs. n. 152 del 2006, art. 101 comma 7, art. 112 e art. 137, comma 14, nel caso di gestione degli effluenti di allevamento, infatti, continua a mantenere rilevanza penale la sola utilizzazione agronomica- così come definita dall’art. 74, comma 1 lett. p) del d.lgs. n. 152/2006 – nelle ipotesi in cui la stessa avvenga al di fuori dei casi o dei limiti consentiti.
 
Secondo la normativa attualmente vigente, quindi, le acque reflue provenienti da imprese dedite all’allevamento di bestiame sono assimilate alle acque reflue domestiche ai fini della disciplina degli scarichi e lo scarico senza autorizzazione degli effluenti d’allevamento non è più previsto dalla legge come reato, ma integra l’illecito amministrativo previsto dall’art. 133, comma secondo, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152. (Sez.3, n.26532 del 21/05/2008, Rv.240552;Sez.3, n.9488 del 29/01/2009, Rv.243112).
 
Tanto premesso, nel caso di specie, la deduzione difensiva che invoca l’operatività della normativa relativa allo scarico senza autorizzazione degli effluenti di allevamento non coglie nel segno.
 
L’attività svolta nella struttura dell’imputata- attività di ricovero e custodia cani conto terzi- tenuto conto anche del tipo di refluo accertato (deiezioni animali, residui di attività di toelettatura e di cura sanitaria) è un’attività di servizio ben diversa dal mero allevamento, che, secondo la comune nozione, è l’attività di custodire, far crescere ed opportunamente riprodurre animali in cattività, totale o parziale, per scopi produttivi o commerciali.
 
La normativa invocata, quindi, non può trovare applicazione nella fattispecie in esame difettando il necessario presupposto della provenienza dei reflui da impresa dedita all’allevamento del bestiame.
 
 
1.2. Il secondo, il terzo ed il quarto motivo sono inammissibili perché espongono, in sostanza, censure di merito ed in fatto che tendono alla rivalutazione del materiale probatorio.
 
Le censure, infatti, si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità, ricostruzione e valutazione, quindi, precluse in sede di giudizio di cassazione (cfr. Sez. 1, 16.11.2006, n. 42369, De Vita, rv. 235507; sez. 6, 3.10.2006, n. 36546, Bruzzese, Rv. 235510; Sez. 3, 27.9.2006, n. 37006, Piras, rv. 235508).
 
Va ribadito, a tale proposito, che, anche a seguito delle modifiche dell’art.606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. introdotte dalla L. n. 46 del 2006, art. 8 non è consentito dedurre il "travisamento del fatto", stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez.6,n.27429 del 04/07/2006, Rv.234559; Sez. 5, n. 39048/2007, Rv. 238215; Sez. 6, n. 25255 del 2012, Rv.253099) ed in particolare di operare la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, (dr. Sez.6, 26.4.2006, n. 22256, Rv. 234148).
 
La Corte di Cassazione deve circoscrivere il suo sindacato di legittimità, sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell’assenza, in quest’ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con "atti del processo", specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa, tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Sez. 4 08/04/2010 n. 15081; Sez. 6 n. 38698 del 26/09/2006, Rv. 234989; Sez.5, n.6754 del 07/10/2014, dep.16/02/2015, Rv.262722).
 
 
1.3. Il quinto motivo di ricorso è manifestamente infondato.
 
I Giudici di merito hanno escluso l’applicabilità della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131 bis cod.pen., rimarcando quale elemento ostativo la commissione da parte dell’imputato di più reati della stessa indole e, comunque, la non configurabilità di un pericolo lieve o esiguo. Hanno, poi, riconosciuto la 1 sussistenza di un danno risarcibile in favore della parte civile, la Citta Metropolitana di Milano, quale ente esponenziale dell’interesse dei consociati alla corretta gestione dei rifiuti e per la tutela del suo territorio e, come tale tale, istituzionalmente preposto al controllo ed alla vigilanza.
 
La motivazione è congrua e logica ed in linea con i principi di diritto affermati da questa Corte in subiecta materia.
 
Va ricordato, quanto alla causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131 bis cod.pen. che la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis cod. pen. non può essere applicata, ai sensi del terzo comma del predetto articolo, qualora l’imputato abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima "ratio puniendi")- come avvenuto nella specie e rilevato dal Giudice di merito- poiché è la stessa previsione normativa a considerare il "fatto" nella sua dimensione "plurima", secondo una valutazione complessiva in cui perde rilevanza l’eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si articola (Sez.5,n.4852 del 14/11/2016, dep.01/02/2017,Rv.269092; Sez.3, n.48318 del 11/10/2016, Rv.268566; Sez.3, n.48315 del 11/10/2016, Rv.268498; Sez.5, n.26813 del 10/02/2016, Rv.267262; Sez.3, n.43816 del 01/07/2015, Rv.265084; Sez.3, n.29897 del 28/05/2015,Rv.264034).
 
 
1.4. Il sesto motivo di ricorso è inammissibile per genericità.
 
La censura mossa dalla ricorrente è genericamente formulata e non si confronta criticamente con le argomentazioni svolte sul punto dalla Corte territoriale.
 
Trova dunque applicazione il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui, in tema di inammissibilità del ricorso per cassazione ,i motivi devono ritenersi generici non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez.2, n.19951 del 15/05/2008, Rv.240109; Sez.5, n. 28011 del 15/02/2013, Rv. 255568; Sez.2, n.11951 del 29/01/2014, Rv.259425).
 
La mancanza di specificità del motivo, invero, dev’essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell’art. 591 comma 1 lett. c), all’inammissibilità (Sez. 4, 29/03/2000, n. 5191, Barone, Rv. 216473; Sez. 1, 30/09/2004, n. 39598, Burzotta, Rv. 230634; Sez. 4, 03/07/2007, n. 34270, Scicchitano, Rv. 236945; Sez. 3, 06/07/2007, n. 35492, Tasca, Rv. 237596).
 
 
2. Il ricorso proposto da Cirillo Pietro Antonio va dichiarato inammissibile.
 
Va ricordato che è’ pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591 comma 1, lett. e) cod. proc. pen., alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso sez. 2, n. 29108 del 15.7.2011, Cannavacciuolo non mass.; conf. sez. 5, n. 28011 del 15.2.2013, Sammarco, rv. 255568; sez. 4, n. 18826 del 9.2.2012, Pezzo, rv. 253849; sez. 2, n. 19951 del 15.5.2008, Lo Piccolo, rv. 240109; sez. 4, n. 34270 del 3.7.2007, Scicchitano, rv. 236945; sez. 1, n. 39598 del 30.9.2004, Burzotta, rv. 230634; sez. 4, n. 15497 del 22.2.2002, Palma, rv. 221693). Ancora di recente, questa Corte di legittimità ha ribadito come sia inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l’appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l’insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (sez. 3, n. 44882 del 18.7.2014, Cariolo e altri, rv. 260608).
 
Va, poi, evidenziato che ci si trova di fronte ad una "doppia conforme" affermazione di responsabilità e che, legittimamente, in tale caso, è pienamente ammissibile la motivazione della sentenza di appello per relationem a quella della sentenza di primo grado, sempre che le censure formulate contro la decisione impugnata non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi.
 
E’, infatti, giurisprudenza pacifica di questa Suprema Corte che la sentenza appellata e quella di appello, quando non vi è difformità sui punti denunciati, si integrano vicendevolmente, formando un tutto organico ed inscindibile, una sola entità logico- giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e completando con quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella di appello (Sez. 1, 22/11/1993- 4/2/1994, n. 1309, Albergamo, riv. 197250; Sez. 3, 14/2- 23/4/1994, n. 4700, Scauri, riv. 197497; Sez. 2, 2/3- 4/5/1994, n. 5112, Palazzotto,riv. 198487; Sez. 2, 13/11-5/12/1997, n. 11220, Ambrosino, riv. 209145; Sez. 6, 20/113/3/2003, n. 224079). Ne consegue che il giudice di appello, in caso di pronuncia conforme a quella appellata, può limitarsi a rinviare per relationem a quest’ultima sia nella ricostruzione del fatto sia nelle parti non oggetto di specifiche censure, dovendo soltanto rispondere in modo congruo alle singole doglianze prospettate dall’appellante. In questo caso il controllo del giudice di legittimità si estenderà alla verifica della congruità e logicità delle risposte fornite alle predette censure.
 
Nella specie, le motivazioni delle due sentenze si saldano fornendo un’unica e complessa trama argomentativa, non scalfita dalla censura mossa dal ricorrente che ripropone gli stessi motivi proposti con l’appello e motivatamente respinti in secondo grado.
 
La Corte di Appello di Milano non si è limitata a richiamare la sentenza di primo grado, ma ha risposto specificamente alla doglianza oggi riproposta, rimarcando, in particolare, il ruolo del Cirillo quale gestore di fatto dell’area adiacente al canile nella quale erano stati rinvenuti i rifiuti pericolosi che venivano smaltiti senza autorizzazione.
 
La motivazione è basata su argomentazioni congrue e logiche e si sottrae, pertanto, al sindacato di legittimità.
 
 
3. Essendo i ricorsi inammissibili e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.
 
 
4. I ricorrenti vanno, inoltre, condannati alla rifusione delle spese del grado sostenute dalla parte civile che, avuto riguardo ai parametri di cui alle tabelle allegate al D.M. n. 55/2014, all’impegno profuso, all’oggetto e alla natura del processo, si ritiene dì dover liquidare nella misura complessiva di Euro 1.900,00 per compenso professionale, oltre Iva ed accessori di legge.
 
 
P.Q.M.
 
 
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende nonché alla rifusione delle spese di parte civile che si liquidano in complessivi euro 1.900,00, oltre Iva ed accessori di legge.
 
Così deciso il 30/05/2017
 
 
 
 

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