Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Aree protette, Diritto processuale penale, Diritto venatorio e della pesca
Numero: 14950 | Data di udienza: 29 Gennaio 2014
AREE PROTETTE – Definizione di aree naturali protette – Art. 3, c.4, lett. a), L. n. 394/1991 – Convenzione di Ramsar – D.P.R. n. 448/1976 – Dir. 79/409/CEE – Dir. 92/43/CEE – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Effetti penali della successione di leggi extrapenali – Criteri di ermeneutica.
Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 1 Aprile 2014
Numero: 14950
Data di udienza: 29 Gennaio 2014
Presidente: Teresi
Estensore: Di Nicola
Premassima
AREE PROTETTE – Definizione di aree naturali protette – Art. 3, c.4, lett. a), L. n. 394/1991 – Convenzione di Ramsar – D.P.R. n. 448/1976 – Dir. 79/409/CEE – Dir. 92/43/CEE – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Effetti penali della successione di leggi extrapenali – Criteri di ermeneutica.
Massima
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 1 Aprile 2014 (Ud. 29/01/2014), Sentenza n. 14950
AREE PROTETTE – Definizione di aree naturali protette – Art. 3, c.4, lett. a), L. n. 394/1991 – Convenzione di Ramsar – D.P.R. n. 448/1976 – Dir. 79/409/CEE – Dir. 92/43/CEE.
Il concetto di “aree naturali protette” è più ampio di quello comprendente le categorie dei parchi nazionali, riserve naturali statali, parchi naturali interregionali, parchi naturali regionali e riserve naturali regionali, in quanto ricomprende anche le zone umide, le zone di protezione speciale, le zone speciali di conservazione ed altre aree naturali protette (Cass. Sez. 3, 07/10/2003, n. 44409, Natale).
(conferma sentenza del 11/06/2013 della Corte di appello di Caltanissetta) Pres. Teresi, Est. Di Nicola, Ric. Quattrocchi ed altro
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Effetti penali della successione di leggi extrapenali – Criteri di ermeneutica.
L’indagine sugli effetti penali della successione di leggi extrapenali va condotta facendo riferimento alla fattispecie astratta e non al fatto concreto: non basta riconoscere che oggi il fatto commesso dall’imputato non costituirebbe più reato, ma occorre prendere in esame la fattispecie e stabilire se la norma extrapenale modificata svolga in collegamento con la disposizione incriminatrice un ruolo tale da far ritenere che, pur essendo questa rimasta letteralmente immutata, la fattispecie risultante dal collegamento tra la norma penale e quella extrapenale sia cambiata e in parte non sia più prevista come reato.
(conferma sentenza del 11/06/2013 della Corte di appello di Caltanissetta) Pres. Teresi, Est. Di Nicola, Ric. Quattrocchi ed altro
Allegato
Titolo Completo
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 1 Aprile 2014 (Ud. 29/01/2014), Sentenza n. 14950SENTENZA
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE
Composta da – Presidente –
Alfredo Teresi – Relatore –
Mariapia Gaetana Savino
Lorenzo Orilia
Vito Di Nicola
Chiara Graziosi
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
– Quattrocchi Stefano, nato ad Acireale il 10/03/1966
– Marano Leonardo, nato a Catania il 31/07/1943
avverso la sentenza del 11/06/2013 della Corte di appello di Caltanissetta
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Vito Di Nicola;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Gioacchino Izzo, che ha concluso chiedendo
l’inammissibilità del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Caltanissetta confermava la decisione resa dal Tribunale di Gela, in composizione monocratica con la quale Stefano Quattrocchi e Leonardo Marano erano stati condannati alla pena di mesi tre di arresto ed € 600,00 di ammenda, oltre al pagamento delle spese processuali, per il reato di cui agli artt. 18, commi 1 e 2, e art.30, comma 1, lett. a), Legge 157/1992 (in relazione al calendario venatorio – D.A. 634 del 15.04.2009 – all. “A”, art. 3), art.21, comma 1, lett. b), artt. 2 e 3 L. 394/1991 e art. 30, comma 1, lett. d) L. 157/1992, per avere posto in essere l’esercizio della caccia in contrada Camera agro di Gela durante il periodo di divieto generale ed in area protetta (capo a) ed il fatto commettendo in Gela il 27 settembre 2009 nonché per il reato (capo b) di cui agli artt. 11, comma 3, lett. f), 30, comma 1, Legge 394/1991 e 61 n. 2 cod. pen. per avere, in assenza di autorizzazione, introdotto armi in contrada Camera agro di Gela, zona sottoposta a Protezione Speciale, con l’aggravante di aver commesso il reato al fine di commettere i reati di cui al capo a).
Nel rigettare i motivi di appello, la Corte territoriale riteneva equiparabile le aree protette ai parchi naturali, stimando perciò ininfluente che il fatto fosse stato commesso fuori dal perimetro del parco ma all’interno di aree protette; riteneva come fosse risultato dall’esito dell’istruttoria la segnalazione dei divieti in loco con plurimi cartelli, pervenendo alla conclusione che detti divieti fossero per gli imputati conoscibili; rilevava come fosse ininfluente, ai fini dell’applicazione dell’art. 2 cod. pen., il fatto che la zona fosse stata riperimetrata con la conseguenza che il luogo di commissione del fatto era stato successivamente sottratto ai divieti nei quali erano incorsi gli imputati.
2. Per l’annullamento della sentenza impugnata ricorrono per cassazione, a mezzo del proprio difensore, Stefano Quattrocchi e Leonardo Marano, affidando il gravame ai quattro seguenti motivi.
2.1. Con il primo motivo, denunciano la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 11, comma 3, lett. f) e 30, comma 1, legge 6 dicembre 1991, n. 394, per inosservanza ed erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale nonché per mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, risultando il vizio dal testo del provvedimento impugnato.
Si assume che la legge n. 394 del 1991, ha specificamente dettato (art. 2) la definizione di aree protette, come luoghi fisici e specifici distinti in parchi e riserve naturali e in aree protette marine, con la conseguenza che deve ritenersi errata l’equiparazione cui è giunta la Corte di merito per rigettare il motivo del ricorso.
2.2. Con il secondo motivo di gravame denunciano la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., in relazione all’art. 30, comma 1, lett. a), legge 11 febbraio 1992 n. 157 per inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si debba tener conto nell’applicazione della legge penale.
Si sostiene, più precisamente, l’illogicità della motivazione in quanto affetta da una palese violazione di legge laddove è stato ritenuta la penale responsabilità dei ricorrenti con riferimento al reato di cui al capo A) della rubrica, limitatamente all’esercizio della caccia “durante il periodo di divieto generale”, ex art.30, comma 1, lett. a), legge n.157 del 1992 nonostante fosse stato documentalmente comprovato che il giorno 27 settembre 2009 l’esercizio dell’attività venatoria in Sicilia era regolarmente consentito, atteso che l’apertura della stagione venatoria era avvenuta in data 3 settembre 2009, così come previsto nel calendario venatorio 2009-2010 approvato con Decreto dei 15 aprile 2009, allegato anche al ricorso.
2.3. Con il terzo motivo di gravame, lamentano la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., in relazione agli artt.21, comma 1, lett. b), e 30, comma 1, lett. d), della L.157/1992 nonché dell’art. 10 L. 157/1992 in relazione agli artt.22 e ss. legge 6 dicembre 1991 n.394 e artt. 21, comma 3, e 45 L.R. 1 settembre 1997 n.33.
Si sostiene che i giudici di merito siano incorsi in una palese violazione ed erronea applicazione della legislazione nazionale e regionale in materia di esercizio venatorio, circostanza che rende assolutamente viziata la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui ritiene provata la responsabilità degli imputati in ordine all’esercizio della caccia all’interno dell’area protetta e del conseguente onere di conoscibilità del divieto, essendo risultato dalla deposizione testimoniale del maresciallo Di Leonardo che nel punto cui si trovavano i ricorrenti l’area non era perimetrata da idonea tabellazione che rendesse chiaramente visibili i confini.
2.4. Con il quarto ed ultimo motivo di gravame, denunciano la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. per inosservanza o erronea applicazione del Decreto Assessoriale 11 novembre 2009 e mancata applicazione dell’art. 2 cod. pen. in relazione all’art. 30 Legge n.157 del 1992.
Si rileva come sia pacifico che con decreto dell’assessore regionale dell’Il novembre 2009 intervenne una riperimetrazione della zona interdetta all’esercizio venatorio, a seguito della quale la località “CAMERA”, facente parte della ZPS Torre Manfria, Biviere , piana di Gela, in cui il giorno 27 settembre 2009 i ricorrenti vennero contravvenzionati, venne esclusa dal divieto dell’esercizio della caccia, con la conseguenza che deve ritenersi erronea la soluzione cui è giunta dalla Corte di merito laddove ha escluso, a seguito della riperimetrazione, la sopravvenuta irrilevanza penale della condotta.
Ed infatti, siccome per norma incriminatrice, che definisce il precetto penale, deve intendersi qualsiasi norma, anche extrapenale, che interferisce sulla struttura essenziale e circostanziale del reato, il richiamato decreto assessoriale doveva ritenersi, secondo i ricorrenti, fonte integratrice della fattispecie penale, al pari delle precedenti che il divieto sancivano in relazione alla zona di esecuzione della condotta, con la conseguenza che qualsiasi modifica delle fonti integratrici, comportando un mutamento dell’ambito di operatività della norma penale incriminatrice, deve ritenersi governata dai principi stabiliti dall’art. 2 del codice penale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato sulla base delle considerazioni che seguono.
2. Con il primo motivo di gravame, si sostiene che i Giudici del merito siano incorsi nella violazione di legge sul presupposto di aver esteso la tutela penale, predisposta esclusivamente con riferimento ai parchi, alle aree cosiddette protette, che di per sé non rientrerebbero nel raggio dell’incriminazione.
Ed infatti l’art. 30 della legge n. 394 del 1991, avuto riguardo alle previsioni di cui all’art. 11, comma 3, stessa legge, sanziona l’introduzione delle armi e di altri oggetti esclusivamente al’interno dei parchi, mentre per tutte le altre violazioni delle disposizioni emanate dagli organismi di gestione delle aree protette e dunque con esclusione dell’ente parco) l’art. 30, comma,2, prevede l’applicazione di una sanzione amministrativa.
Peraltro, se anche si volessero equiparare ai parchi le riserve naturali e le arie protette marine, secondo la definizione di aree protette offerta dall’art. 2 della legge n. 394 del 1991, sarebbero tuttavia esclusi dal raggio dell’incriminazione, secondo l’assunto dei ricorrenti, gli illeciti, previsti dalla legge n. 394 del 1991, commessi all’interno di zone sottoposte a speciale conservazione (ZSC) e di quelle a protezione speciale (ZPS) perché dette zone, per essere equiparate, quanto alla tutela penale, ai parchi ed alle aree protette, non è sufficiente che siano ricomprese nel decreto ministeriale, che ai sensi dell’art. 4 legge n. 394 del 1991, può ampliare la tipologia delle aree da proteggere, essendo invece necessario che il legislatore regionale recepisca, con propria regolamentazione, il dettato normativo di cui alla legge quadro, con la conseguenza che, in assenza di una espressa regolamentazione regionale in tal senso, gli illeciti previsti della legge n. 394 del 1991 non possono configurarsi per le violazioni commesse, come nella specie, all’interno di una ZPS non operando perciò la disciplina sanzionatoria ex art. 30 legge n. 394 del 1991. 2.1. L’assunto è infondato.
La Legge quadro per le aree protette (n. 394 del 1991) ha disciplinato per la prima volta in maniera organica e unitaria, l’intera materia delle aree naturali protette in applicazione degli articoli 9 (Tutela del paesaggio) e 32 (Tutela della salute) della Costituzione, che rappresentano la sorgente costituzionale da cui la legge è scaturita e, nel rispetto degli accordi internazionali, essa «detta principi fondamentali per l’istituzione e la gestione delle aree naturali protette, al fine di garantire e di promuovere, in forma coordinata, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale del paese» (art. 1. Legge n. 394 del 1991).
Le aree protette rappresentano quindi lo strumento giuridico attraverso il quale si realizza la gestione del “patrimonio naturale” del Paese.
La Legge quadro per le aree protette (art. 2) classifica dette aree in (a) parchi nazionali; (b) parchi naturali regionali; (c) riserve naturali. Non si tratta di un elenco fisso ed immutabile, quanto piuttosto di uno strumento aggiornabile nel corso del tempo in relazione all’evoluzione del Sistema Nazionale delle Aree Protette, che viene ufficializzato mediante pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Ed infatti l’art. 3, comma 4, lett. a), della legge n. 394 del 1991 attribuiva al Comitato per le aree naturali protette il compito, tra gli altri, di integrare la classificazione delle aree protette.
Detto Comitato (del quale il d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281 ha disposto, ex art. 7, comma 1, la soppressione attribuendo le relative funzioni alla Conferenza Stato – regioni) ha, con l’art. 1 della deliberazione 2 dicembre 1996, decretato, ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge 6 dicembre 1991, n. 394, e ad integrazione della propria deliberazione del 21 dicembre 1993, la seguente classificazione delle aree protette:
a) parco nazionale;
b) riserva naturale statale;
c) parco naturale interregionale;
d) parco naturale regionale;
e) riserva naturale regionale;
f) zona umida di importanza internazionale (ai sensi della convenzione di Ramsar, di cui al decreto del presidente della Repubblica n. 448 del 13 marzo 1976);
g) zona di protezione speciale (ZPS), (ai sensi della direttiva 79/409/CEE concernente la conservazione degli uccelli selvatici);
h) zona speciale di conservazione (ZSC), (ai sensi della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche);
i) altre aree naturali protette.
Ciò che rileva, per quanto qui interessa, è che nell’architettura della legge quadro i parchi rappresentano una species del genus “aree protette” con la conseguenza che i principi portanti della legge n. 394 del 1991, tra i quali gli artt. 11 e 30, non si applicano esclusivamente ai parchi ma a tutte le aree naturali protette.
Tra queste vanno ricomprese le zone a protezione speciale (d’ora in poi ZPS).
Va, sul punto, ricordato che tale classificazione è avvenuta, con la richiamata deliberazione del 2 dicembre 1996 (v. preambolo), sulla base della direttiva 79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici, la quale fa espressamente riferimento alla esigenza di tutela delle ZPS, che, insieme alle Zone Speciali di Conservazione (ZSC), di cui alla direttiva 92/43/CEE, costituisce la rete ecologica europea Natura 2000.
L’Unione europea infatti mira a garantire la biodiversità mediante la conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche sul territorio degli Stati membri.
A tale scopo è stata creata una rete ecologica di zone speciali protette, denominata «Natura 2000» preceduta dalla direttiva 92/43/CEE del Consiglio del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, emessa a complemento della direttiva 79/409/CEE al fine di istituire un sistema generale di protezione di talune specie di fauna e di flora, con la previsione di misure di gestione per talune specie, qualora il loro stato di conservazione lo avesse giustificato, compreso il divieto di taluni modi di cattura o di uccisione, pur contemplando la possibilità di deroghe, subordinate a talune condizioni.
Ed è significativo osservare come la normativa nazionale del 1991 (legge n. 394) abbia significativamente anticipato l’emanazione della direttiva comunitaria 92/43/CEE.
Va chiarito come non rilevi la circostanza che il D.M. 25 marzo 2005 (emanato dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e pubblicato nella Gazz. Uff. 6 luglio 2005, n. 155) abbia annullato la deliberazione 2 dicembre 1996 del Comitato per le aree naturali protette in quanto il T.A.R. Lazio, Sez. H Bis, con ordinanza 24 novembre 2005, n. 6856, confermata dal Consiglio di Stato, ha disposto la sospensione del suddetto decreto ministeriale che, conseguentemente, non è produttivo di effetti giuridici sicché la deliberazione del 2 dicembre 1996 spiega tuttora la sua efficacia.
Infine, il decreto ministeriale 19 giugno 2009 (emanato dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio in G.U. n. 157 del 9 luglio 2009) elenca le ZPS classificate ai sensi della direttiva 79/409/CEE e tra queste, per la regione Sicilia al codice ITA050012, il sito Torre Manfria, Biviere e Piana di Gela.
Ciò posto, siccome l’art. 11, comma 3, lettera f), della legge 6 dicembre 1991, n. 394, vieta l’introduzione di armi all’interno dei parchi, ai quali devono essere equiparate, in forza della deliberazione 2 dicembre 1996 del soppresso Comitato per le aree naturali protette, sia le ZPS (Zone di protezione speciale) ai sensi della direttiva 79/409/CEE e sia le ZSC (Zone speciali di conservazione) ai sensi della direttiva 93/43/CEE, ne consegue come la caccia all’interno delle ZPS sia una condotta penalmente sanzionata ai sensi dell’art. 30 della legge 394 del 1991, essendo le ZPS, in forza dell’assimilazione ai parchi, sottoposte alla disciplina generale sulle aree protette.
Deve pertanto essere ribadito il principio di diritto già enunciato da questa Sezione secondo il quale il concetto di “aree naturali protette” è più ampio di quello comprendente le categorie dei parchi nazionali, riserve naturali statali, parchi naturali interregionali, parchi naturali regionali e riserve naturali regionali, in quanto ricomprende anche le zone umide, le zone di protezione speciale, le zone speciali di conservazione ed altre aree naturali protette (Sez. 3, 07/10/2003, n. 44409, Natale, Rv. 226400).
3. Il secondo motivo di gravame è parimenti infondato.
Con esso i ricorrenti si dolgono che, alla data del fatto contestato ossia al 27 settembre 2009, la stagione venatoria fosse aperta come stabilito dal decreto del 15 aprile 2009 con il quale l’assessorato dell’agricoltura e delle foreste della regione Sicilia aveva disposto l’apertura della caccia a partire dal 3 settembre 2009.
Il rilievo è infondato, non essendosi tenuto conto di quanto ha condivisibilmente affermato il Tribunale (e peraltro risultante anche a pag. 14 e 23 del calendario venatorio allegato al ricorso) ossia che tra le zone sottoposte a protezione dove era stato precluso l’esercizio venatorio vi era l’area “Bievere di Gela” (pag. 20 del calendario), rientrante nel comune di Gela, all’interno della quale si trova la contrada Camera e tutta l’area includente la ZPS dove, ad eccezione della caccia degli ungolati, era stabilito il divieto di esercizio dell’attività venatoria in data antecedente l’1 ottobre 2009 (pag. 14 del calendario).
Il TAR (ordinanze 730, 731 e 732 del 2009) aveva tuttavia sospeso l’efficacia del decreto assessoriale del 15 aprile 2009 ed il calendario venatorio fu modificato con successivo decreto n. 1719 del 31 agosto 2009 ribadendosi che nella ZPS ricadenti lungo le rotte di migrazione il prelievo venatorio, nelle more di adozione dei piani di gestione, era consentito solo a partire dall’i ottobre 2009, con la conseguenza che alla data di accertamento del fatto (29 settembre 2009) la condotta contestata era vietata.
4. Anche il terzo motivo di gravame è infondato.
La Corte territoriale, con logica ed adeguata motivazione, pertanto insindacabile in sede di legittimità, ha ritenuto, sulla base della deposizione del teste Di Leonardo, ufficiale di polizia giudiziaria esaminato all’udienza del 12 aprile 2012, che nella zona ove furono rinvenuti i ricorrenti si trovavano numerosi cartelli che la perimetravano, rendendo conoscibili di divieti, con la conseguenza che non è fondato l’assunto difensivo secondo il quale doveva ritenersi che i ricorrenti nutrissero il fondato convincimento di trovarsi, sulla base della legislazione regionale, in una zona nella quale non fosse preclusa l’attività venatoria, tanto in mancanza di apposita tabellazione, come prescritta dalla legge regionale n. 33 del 1997, «sul punto>> ove erano stati trovati gli imputati stessi, allorquando furono fermati dai verbalizzanti.
La Corte di merito ha invero fondato il proprio convincimento sulla decisiva circostanza che i cartelli si trovavano a 30, 40 e 50 metri dal luogo in cui furono intercettati i ricorrenti, da ciò desumendo l’esistenza di idonea tabellazione, non rilevando il fatto che nel luogo preciso del loro rinvenimento non vi fossero, per avventura, cartelli esplicitanti il divieto stesso perché ciò che rileva è la idonea perimetrazione del luogo ove vige il divieto, sicché con la tabellazione il divieto stesso si presume noto e l’accusa non deve dimostrare la conoscenza da parte del trasgressore. Senza la tabellazione il divieto si presume ignoto e deve essere l’accusa a dimostrare che, nonostante la mancanza di tabellazione, il trasgressore fosse a conoscenza del divieto (Sez. 3, 25/01/2012, n. 9576, Falco ed altro, Rv. 252249).
5. Anche il quarto motivo di gravame è infondato.
Effettivamente non ha trovato soluzioni uniformi nella giurisprudenza di questa Sezione la questione circa la rilevanza penale dell’ esercizio di attività venatoria in zone protette a seguito della riperimetrazione dell’area ad opera di un provvedimento amministrativo che, ridefinendo i limiti di dette aree, determini diversamente il luogo di svolgimento dell’attività venatoria.
Un primo orientamento ha ritenuto che, in una vicenda relativa al reato di esercizio di attività venatoria nei parchi, la riperimetrazione della riserva naturale ad opera di un provvedimento amministrativo della Regione Sicilia avesse eliminato il disvalore penale del fatto commesso, in quanto era venuta successivamente a mancare la qualifica di parco dell’area di svolgimento dell’attività venatoria e tanto sul rilievo che l’istituto della successione delle leggi penali nel tempo riguarda le norme che definiscono la struttura essenziale e circostanziata del reato; pertanto, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2 cod. pen., si deve tenere conto anche di quelle fonti normative subprimarie che, pur non ricomprese nel precetto penale, ne integrano tuttavia il contenuto (Sez. 3, 01/02/2005, n. 9482, Pitrella, Rv. 231228). Sulla stessa linea si era immediatamente collocato l’indirizzo secondo il quale, in materia di caccia, la facoltà delle Regioni di provvedere all’eventuale riperimetrazione dei parchi naturali regionali, ove restringere il divieto sancito dalla legge statale, ex art. 21, legge 11 febbraio 1992 n. 157, anche se esercitata con decreto dell’assessore regionale, determina la abolizione della fonte subprimaria integrativa della fattispecie ed il conseguente disvalore penale dell’attività di caccia, in quanto viene a mancare uno degli elementi costitutivi della condotta punibile ( Sez. 3, del 01/03/2005, n. 11143, Cannilla ed altri, Rv. 230986).
In precedenza altro orientamento – in una fattispecie relativa ad esercizio di attività venatoria vietata da una legge regionale al momento della commissione del fatto, e successivamente consentita in virtù di abrogazione della medesima legge – si era espresso nel senso che l’istituto della successione delle leggi penali (art.2 cod. pen.) riguarda la successione nel tempo delle norme incriminatrici, ovvero di quelle norme che definiscono la struttura essenziale e circostanziata del reato. Nell’ambito di operatività dell’istituto in esame non rientrano, invece, le vicende successorie di norme extra-penali che non integrano la fattispecie incriminatrice né quelle di atti o fatti amministrativi che, pur influendo sulla punibilità o meno di determinate condotte, non implicano una modifica della disposizione sanzionatoria penale, che resta, pertanto, immutata e quindi in vigore. Ne consegue che la successione di norme extra-penali determina esclusivamente una variazione del contenuto del precetto con decorrenza dalla emanazione del successivo provvedimento e che, in tale ipotesi, non viene meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso. (Sez. 3, del 19/03/1999, n. 5457, P.M.in proc. Arlati ed altri, Rv. 213465).
Recentemente sulla stessa scia si è posto l’indirizzo secondo il quale la modifica di un elemento normativo di natura extrapenale assume effetto retroattivo solo se il medesimo integri la fattispecie penale in tal modo venendo a partecipare della natura di questa e, in applicazione di tale principio, in una fattispecie di introduzione di armi in area protetta, è stato escluso l’effetto retroattivo scriminante alla riperimetrazione del parco dell’Aspromonte di cui al d.P.R. 10 luglio 2008, non avendo le disposizioni ivi contenute natura integratrice del precetto (Sez. 3, 11/01/2011, n. 15481, Guttà ed altro, Rv. 250119).
Quest’ultimo filone, che si colloca in continuità con l’indirizzo espresso dalla Sezioni Unite Magera, appare al Collegio maggiormente condivisibile.
Le Sezioni Unite penali hanno infatti espresso il principio secondo il quale in tema di successione di leggi penali, la modificazione della norma extrapenale richiamata dalla disposizione incriminatrice esclude la punibilità del fatto precedentemente commesso se tale norma è integratrice di quella penale oppure ha essa stessa efficacia retroattiva (Sez. U, 27/09/2007, n. 2451(dep. 16/01/2008 ), P.G. In proc. Magera Rv. 238197).
Nel pervenire a tale conclusione le Sezioni unite hanno ribadito i criteri già affermati in tema di successione di leggi penali con la sentenza 26 marzo 2003, n. 25887, Giordano, laddove le stesse Sezioni unite esclusero la possibilità di accogliere la teoria della doppia punibilità in concreto ed affermarono il principio che per individuare il campo di applicazione del secondo comma dell’art. 2 cod. pen. non ci si può limitare a considerare se il fatto, punito in base alla legge anteriore, sia punito, o meno, anche in base a quella posteriore, non potendosi escluderei che un fatto, divenuto non punibile per la legge extrapenale posteriore, rimanga punibile per la legge anteriore, vigente al momento della sua commissione.
Logico corollario di tale affermazione è che “l’indagine sugli effetti penali della successione di leggi extrapenali va condotta facendo riferimento alla fattispecie astratta e non al fatto concreto: non basta riconoscere che oggi il fatto commesso dall’imputato non costituirebbe più reato, ma occorre prendere in esame la fattispecie e stabilire se la norma extrapenale modificata svolga in collegamento con la disposizione incriminatrice un ruolo tale da far ritenere che, pur essendo questa rimasta letteralmente immutata, la fattispecie risultante dal collegamento tra la norma penale e quella extrapenale sia cambiata e in parte non sia più prevista come reato. In questo caso ci si trova in presenza di un’abolitio criminis parziale, analoga a quella che si verifica quando è la stessa disposizione penale ad essere modificata con l’esclusione di una porzione di fattispecie che prima ne faceva parte (…) La successione avvenuta tra norme extrapenali non incide invece sulla fattispecie astratta, ma comporta più semplicemente un caso in cui in concreto il reato non è più configurabile, quando rispetto alla norma incriminatrice la modificazione della norma extrapenale comporta solo una nuova e diversa situazione di fatto”.
Sulla base di tale indirizzo, occorre allora stabilire se, nel caso di specie, la riperimetrazione di un’area protetta, attraverso la modificazione di una fonte secondaria la quale abbia provveduto a rideterminare una parte del perimetro di detta area, abbia inciso sulla fattispecie, assumendo il rango di disposizione penale integratrice del precetto penale, oppure abbia solo dato luogo ad una modificazione della situazione di fatto, che abbia reso lecita, esatte le altre condizioni, l’esercizio dell’attività venatoria e l’introduzione di armi in una parte del perimetro in precedenza colpito dal divieto, rimanendo il precetto, ora come allora, tipizzato unicamente dalla norma penale impositiva del divieto stesso.
Posto che una vicenda successoria di questo tipo non sarebbe governabile secondo i parametri di cui all’art. 2, comma 4, cod. pen., disposizione, quest’ultima, che attiene alla modificazione delle incriminazioni, regolando cioè l’ipotesi in cui, in seguito a una successione di leggi penali, il fatto continui a costituire reato ma sia trattato in modo diverso, la tesi di un’abolitio criminis parziale, predicabile solo al cospetto di fonti extrapenali integratici del precetto, sconterebbe il fatto indiscutibile di avere l’incriminazione de qua conservato intatti tutti i suoi elementi costitutivi, risultandone modificata una situazione (il perimetro dell’area protetta al cui interno continua a vigere il divieto) estranea rispetto all’economia precettiva o valutativa del reato, così come astrattamente configurato dal legislatore nella fattispecie penale incriminatrice.
Restando immutata la disposizione sanzionatoria penale, la successione di fonti normative o sub normative extrapenali determinano, nella specie, esclusivamente una variazione del fatto e non della fattispecie, restando perciò le vicende successorie indifferenti rispetto all’economia precettiva del reato, cosicché non viene neppure meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso.
Ne consegue il rigetto del ricorso e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 29/01/2014