Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Diritto processuale penale, Diritto urbanistico - edilizia Numero: 6125 | Data di udienza: 21 Gennaio 2016

DIRITTO URBANISTICO – Precarietà di un’opera – Criteri – Uso realmente precario e temporaneo per fini specifici contingenti e limitati nel tempo – Giurisprudenza – Art. 44, lett. c), d.P.R. n.380/2001DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Vizi della motivazione – Illogicità della motivazione – Controllo del Giudice di legittimità – Rilettura degli elementi di fatto – Preclusione – Art.606, comma 1, lett e), cod. proc. pen..


Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 15 Febbraio 2016
Numero: 6125
Data di udienza: 21 Gennaio 2016
Presidente: Ramacci
Estensore: Mengoni


Premassima

DIRITTO URBANISTICO – Precarietà di un’opera – Criteri – Uso realmente precario e temporaneo per fini specifici contingenti e limitati nel tempo – Giurisprudenza – Art. 44, lett. c), d.P.R. n.380/2001DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Vizi della motivazione – Illogicità della motivazione – Controllo del Giudice di legittimità – Rilettura degli elementi di fatto – Preclusione – Art.606, comma 1, lett e), cod. proc. pen..



Massima

 

 

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez.3^ 15/02/2016 (Ud.21/01/2016) Sentenza n.6125


DIRITTO URBANISTICO – Precarietà di un’opera – Criteri – Uso realmente precario e temporaneo per fini specifici contingenti e limitati nel tempo – Giurisprudenza – Art. 44, lett. c), d.P.R. n.380/2001
 
Il carattere della precarietà non può essere desunto dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all’opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale della stessa ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione, non risultando, peraltro, sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo (tra le altre, Cass. Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014, Manfredini; Sez. 3, n. 22054 del 25/2/2009, Frank; Sez. 3, n. 20189 del 21/3/2006, Cavallini).
 


DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Vizi della motivazione – Illogicità della motivazione – Controllo del Giudice di legittimità – Rilettura degli elementi di fatto – Preclusione – Art.606, comma 1, lett e), cod. proc. pen.
 
Il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110). L’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art.606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi; ciò in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella). In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene alla ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del Giudice di merito, ma è limitato alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e altri; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano).
 
 
(dich. inamm. il ricorso avveso sentenza della Corte di appello di Trento del 7/11/2014) Pres. RAMACCI, Rel. MENGONI, Ric. Arcese e altri
 
 

Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez.3^ 15/02/2016 (Ud.21/01/2016) Sentenza n.6125

SENTENZA

 

 
 
 
 
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez.3^ 15/02/2016 (Ud.21/01/2016) Sentenza n.6125

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
TERZA SEZIONE PENALE
 
 
 
Composta da
 
omissis 
 
ha pronunciato la seguente

SENTENZA 
 
sui ricorsi proposti da: 
– Arcese Eleuterio, nato ad Aree (Fr) il 2/7/1933
– Stanga Gianni, nato a Riva del Garda (Tn) il 6/9/1965
– Stanga Paolo, nato ad Arco (Tn) I 29/6/1973
– Rabbi Giorgio, nato a Valeggio sul Mincio (Vr) il 18/2/1963
 
avverso la sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Trento in data 7/11/2014;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Felicetta Marinelli, che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso
sentite le conclusioni del difensore del ricorrente, Avv. Graziella Colaiacomo in sostituzione degli Avv. Filippo Vicentini e Tiburzio De Zuani, che ha concluso per l’accoglimento dei ricorsi 
 
RITENUTO IN FATTO
 
1. Con sentenza del 7/11/2014, la Corte di appello di Trento, in parziale riforma della pronuncia emessa l’11/12/2012 dal Tribunale di Rovereto, riduceva la pena inflitta a Giorgio Rabbi, con sostituzione di quella detentiva e determinazione complessiva in 35.000,00 euro di ammenda, confermando invece appieno la pronuncia di condanna nei confronti di Eleuterio Arcese, Gianni Stanga e Paolo Stanga; a questi soggetti, nelle rispettive qualità (Arcese come committente; gli Stanga e Rabbi quali esecutori materiali), era contestata la consumazione di plurime violazioni dell’art. 44, lett. c), d.P.R. 6 giugno 2001, n.380, nonché la violazione dell’art. 256, comma 1, lett. a), d. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, tutte realizzate nell’ambito di un cantiere sito in Tenno ed accertate il 27/9/2011.
 
2. Propongono ricorso per cassazione gli imputati, deducendo seguenti motivi:
 
Gianni e Paolo Stanga:
Mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna degli Stanga quanto alla realizzazione della pista di cantiere e della casetta in legno (capo e) pur difettando ogni elemento a sostegno dell’accusa. La prima opera, infatti, risulterebbe precaria e funzionale soltanto all’esecuzione delle altre opere; la baracca, invece, sarebbe stata messa a disposizione dalla “Arcese Immobiliare s.r.l.”, senza alcun intervento ad opera dei ricorrenti;
 
Arcese:
Illogicità e contraddittorietà della motivazione. La Corte di merito avrebbe condannato l’Arcese senza considerare che lo stesso è al vertice di una società molto ampia, con oltre 2000 dipendenti, e senza che, pertanto, possa essergli addebitato qualsivoglia evento; il crollo del precedente manufatto, peraltro, sarebbe stato palesemente accidentale, senza alcuna responsabilità in capo allo stesso. Da ultimo, la baracca di cantiere costituirebbe intervento precario, facilmente rimovibile e non destinato ad abitazione;
 
Rabbi:
Illogicità e contraddittorietà della motivazione. La sentenza avrebbe ribadito la condanna dedicando poche righe al ricorrente, e senza valutare che il dibattimento non avrebbe fornito alcun elemento in ordine al presunto incarico, affidato al Rabbi, di eseguire lavori nel sito in oggetto; altre, infatti, sarebbero state le opere regolarmente assentite. 
Sul punto, quindi, la Corte di appello avrebbe operato un’inversione dell’onere della prova.

CONSIDERATO IN DIRITTO
 
3. I ricorsi sono palesemente privi di fondamento.
 
Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa Corte in forza del quale l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art.606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi; ciò in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074).
 
In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene alla Ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del Giudice di merito, ma è limitato alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv. 251760).
 
Se questa, dunque, è l’ottica ermeneutica nella quale deve svolgersi il giudizio della Suprema Corte, le censure che i ricorrenti muovono al provvedimento impugnato si evidenziano come manifestamente infondate; ed invero, dietro la parvenza di un difetto motivazionale, gli stessi di fatto invocano una nuova ed alternativa lettura di tutte le risultanze istruttorie già esaminate in sede di merito, sollecitandone una valutazione diversa e più favorevole.
 
Il che, come riportato, non è consentito in questa sede.
 
4. Gli stessi gravami, inoltre, obliterano che la sentenza in esame ha confermato la pronuncia di primo grado in forza di un più che adeguato percorso argomentativo, privo di ogni illogicità manifesta ed insuscettibile di censure da parte di questa Corte. In particolare, con riguardo all’Arcese, la sentenza ha sottolineato che questi – legale rappresentante della società proprietaria dell’immobile e dell’area interessata dai lavori – doveva all’evidenza ritenersi responsabile delle scelte gestionali dell’ente medesimo, specie considerando che la difesa non aveva allegato – né, tantomeno, provato – «l’eventuale autonoma gestione da parte di altri del settore concernente le ristrutturazioni di immobili della società»; ancora, la Corte di appello ha evidenziato che la portata delle opere abusive – ben rappresentata dalle fotografie in atti – impediva di ritenere che le stesse potessero esser state realizzate in assenza di un previo e totale accordo con il committente. E senza che, pertanto, possa aver rilievo in questa sede il riferimento al numero dei dipendenti che lavorano presso la “Arcese Immobiliare s.r.l.”.
 
5. Negli stessi termini, ancora con riguardo all’Arcese, la sentenza ha poi redatto un più che congruo argomento in ordine all’asserito crollo dell’originario manufatto, e della sua inverosimiglianza. Ed invero – e sia pur richiamando la deposizione in tal senso “possibilista” del tecnico comunale Malossini – la Corte di merito ha evidenziato che l’eventuale crollo 1) non avrebbe comunque comportato la totale distruzione dell’immobile, come dedotto, né giustificato interventi volti ad occultare l’evento medesimo; 2) avrebbe imposto una pronta comunicazione all’amministrazione comunale, al fine di ottenere il necessario titolo abilitativo.
 
6. Del pari, poi, la sentenza poi contiene un’adeguata motivazione quanto alla responsabilità degli Stanga e del Rabbi, legali rappresentanti delle due società esecutrici dei lavori tutti, comprese le opere qui in contestazione; responsabilità che, con congruo argomento, è stata riconosciuta per i primi – quanto al capo e) – anche in ordine alla pista di cantiere ed alla casa prefabbricata in legno (le altre opere di cui al capo medesimo non sono state contestate in appello). In particolare, ed esclusa la riferibilità dell’esecuzione di queste opere ad altri soggetti (invero giammai neppure menzionati), la Corte ne ha evidenziato il carattere non precario, affermando che l’oggettiva destinazione di entrambe evidenziava il soddisfacimento di bisogni non provvisori o di esigenze transitorie, a prescindere dalla rimovibilità/non rimovibilità delle stesse strutture. Ciò – quanto alla casetta – alla luce del piano di calcestruzzo sul quale era stata realizzata, delle fosse settiche, della predisposizione degli impianti e, addirittura, della antenna televisiva; ciò – quanto alla strada – alla luce della sua larghezza e della sua struttura. Elementi, peraltro, del tutto disattesi nei presenti ricorsi, a muover da quello degli Stanga, nei quali ci si limita a richiamare documenti che attesterebbero la riferibilità della casetta alla sola “Arcese Immobiliare”. Responsabilità, da ultimo, riconosciuta anche quanto al Rabbi, un 
cui dipendente era stato trovato a bordo dell’escavatore nell’esecuzione dei lavori; e senza che possa ravvisarsi, quindi, la dedotta inversione dell’onere della prova.
 
Orbene, in tal modo la sentenza ha aderito al costante indirizzo di questa Corte in forza del quale il carattere della precarietà non può essere desunto dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all’opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale della stessa ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione, non risultando, peraltro, sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo (tra le altre, Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014, Manfredini, Rv. 261636; Sez. 3, n. 22054 del 25/2/2009, Frank, Rv. 243710; Sez. 3, n. 20189 del 21/3/2006, Cavallini, Rv. 234325).
 
7. I ricorsi, pertanto, debbono essere dichiarati inammissibili. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen. ed a carico di ciascun ricorrente, l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 1.000,00.
 
P.Q.M.
 
Dichiara inammissibile i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
 
Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2016
 
 

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