Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Diritto urbanistico - edilizia
Numero: 13843 | Data di udienza: 11 Febbraio 2014
DIRITTO URBANISTICO – Opera precaria – Natura oggettivamente temporanea e contingente – Necessità – Opere precarie e non precarie – Criterio di distinzione – Giurisprudenza – Artt. 3, c.1°, lett.e, 5, 6, 10, c.1°, lett.a, 22, c.3°, lett.b, e 44, lett.c), D.P.R. 380/2001.
Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 24 Marzo 2014
Numero: 13843
Data di udienza: 11 Febbraio 2014
Presidente: Squassoni
Estensore: Aceto
Premassima
DIRITTO URBANISTICO – Opera precaria – Natura oggettivamente temporanea e contingente – Necessità – Opere precarie e non precarie – Criterio di distinzione – Giurisprudenza – Artt. 3, c.1°, lett.e, 5, 6, 10, c.1°, lett.a, 22, c.3°, lett.b, e 44, lett.c), D.P.R. 380/2001.
Massima
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 24 Marzo 2014 (Ud. 11/02/2014), Sentenza n. 13843
DIRITTO URBANISTICO – Opera precaria – Natura oggettivamente temporanea e contingente – Necessità – Artt. art. 3, c.1°, lett.e, 5, 6, 10, c.1°, lett.a, 22, c.3°, lett.b, e 44, lett.c), D.P.R. 380/2001.
La natura precaria dell’opera edilizia non deriva dalla tipologia dei materiali impiegati per la sua realizzazione, tanto meno dalla sua facile amovibilità; quel che conta è la oggettiva temporaneità e contingenza delle esigenze che l’opera è destinata a soddisfare. Chiaro è, in tal senso, il dettato normativo che, nel definire gli interventi di nuova costruzione, per i quali è necessario il permesso di costruire o altro titolo equipollente (artt. 10, comma 1°, lett. a, e 22, comma 3°, lett. b, d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380), individua – tra gli altri – i manufatti leggeri e le strutture di qualsiasi genere che siano utilizzati come depositi, magazzini e simili e “che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee” (art. 3, comma 1°, lett. e.5, d.P.R. 380/2001 cit.). La natura oggettivamente temporanea e contingente delle esigenze da soddisfare è richiamata anche dall’art. 6, comma 2°, lett. b, d.P.R. 380/2001 per individuare le opere che, previa mera comunicazione dell’inizio lavori, possono essere liberamente eseguite. Si tratta di criterio che significativamente, sia pure ad altri fini, l’art. 812 cod. civ. utilizza per collocare nella categoria dei beni immobili gli edifici galleggianti saldamente ancorati alla riva o all’alveo e destinati ad esserlo in modo permanente per la loro utilizzazione, così diversificandoli dai galleggianti mobili adibiti alla navigazione o al traffico in acque marittime o interne, di cui all’art. 136 cod. nav. e che, a norma dell’art. 815 cod. civ., costituiscono, invece, beni mobili soggetti a registrazione.
(conferma sentenza del 18/01/2013 della Corte di appello di Trento) Pres. Squassoni, Est. Aceto, Ric. Zulian
DIRITTO URBANISTICO – Opere precarie e non precarie – Criterio di distinzione – Giurisprudenza.
In tema di opere precarie, bisogna verificare l’oggettiva destinazione dell’opera a soddisfare bisogni non provvisori, la sua conseguente attitudine ad una utilizzazione non temporanea, né contingente, è criterio da sempre utilizzato dalla giurisprudenza per distinguere l’opera assoggettabile a regime concessorio (oggi permesso di costruire) da quella realizzabile liberamente, a prescindere dall’incorporamento al suolo o dai materiali utilizzati (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 9229 del 12/02/1976, Sez. 3, Sentenza n. 1927 del 23/11/1981, Sez. 3, Sentenza n. 5497 del 11/03/1983, Sez. 3, Sentenza n. 6172 del 23/03/1994, Sez. 3, Sentenza n. 12022 del 20/11/1997, Sez. 3, Sentenza n. 11839 del 12/07/1999, Sez. 3, Sentenza n. 22054 del 25/02/2009). Nemmeno il carattere stagionale dell’attività implica di per sé la precarietà dell’opera (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 34763 del 21/06/2011, Sez. 3, Sentenza n. 13705 del 21/02/2006, Sez. 3, Sentenza n. 11880 del 19/02/2004, Sez. 3, Sentenza n. 22054 del 25/02/2009). Si tratta di principio talmente consolidato da far ritenere, per esempio, di natura eccezionale e non applicabile oltre i casi in esse tassativamente previsti, le disposizioni introdotte dalle leggi della Regione Sicilia che, privilegiando il dato strutturale su quello funzionale, hanno ricondotto nell’ambito dell’attività edilizia libera la chiusura di terrazze di collegamento oppure di terrazze non superiori a metri quadrati 50 e/o la copertura di spazi interni con strutture precarie, la chiusura di verande o balconi con strutture precarie (così, da ultimo, l’art. 20 L. Reg. Sicilia 4/2003 che definisce precarie le strutture realizzate in modo tale da essere suscettibili di facile rimozione) (sul punto, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 16492 del 16/03/2010 e Sez. 3, Sentenza n. 35011 del 26/04/2007 che hanno avuto modo di precisare che, in questi casi, la facile amovibilità delle strutture deve essere interpretata in senso assolutamente restrittivo).
(conferma sentenza del 18/01/2013 della Corte di appello di Trento) Pres. Squassoni, Est. Aceto, Ric. Zulian
Allegato
Titolo Completo
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 24 Marzo 2014 (Ud. 11/02/2014), Sentenza n. 13843SENTENZA
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE
Composta da:
Claudia Squassoni – Presidente
Mario Gentile
Aldo Aceto – Relatore
Andrea Gentili
Alessio Scarcella
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da Zulian Stefano, n. Pozza di Fassa (TN) il 26/12/1964
avverso la sentenza del 18/01/2013 della Corte di appello di Trento
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Aldo Aceto;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Francesco Salzano, che ha concluso
chiedendo il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
I. Con sentenza del 18 gennaio 2013, la Corte di Appello di Trento ha rigettato l’impugnazione proposta dal sig. Stefano Zulian avverso la sentenza del 3 ottobre 2011 con la quale il Tribunale di Trento, Sez. dist. di Cavalese, l’aveva condannato alla pena di € 11.380,00 di ammenda (di cui € 380,00 in sostituzione di giorni 10 di arresto) per il reato di cui all’art. 44, lett. c), D.P.R. 380/2001, per aver, in assenza di autorizzazione urbanistica e paesaggistica, realizzato abusivamente, in aderenza ad una preesistente baita, una tettoia in legno sorretta da pali di legno (alcuni infissi, altri poggianti sul terreno) e con copertura in lamiera, in zona (località ‘Buffature di Sora’, Comune di Pozza di Fassa) ricadente, secondo il vigente PRG, nelle aree sciabili, per impianti sciistici e pascolo, soggette a vincolo paesaggistico, ambientale e provinciale. Il fatto, si legge nella rubrica, era stato commesso nell’autunno 2008 ed accertato il 31 luglio 2009.
Osservava al riguardo la Corte d’Appello che:
1) il 31 luglio 2009, a seguito di denunzia sporta da tal Pascol Paolo (proprietario della baita nei cui pressi era stato realizzato l’abuso), personale della polizia forestale aveva accertato che, nel luogo indicato nella rubrica, insisteva una tettoia in legno, delle dimensioni in pianta di mt. 2,80 (larghezza) per mt. 4,50 (lunghezza) ed alta da mt. 1,80, nel punto più alto, a mt. 1,40 in quello più basso, con copertura in lamiera;
2) il manufatto, realizzato in assenza di titoli edilizi e paesaggistici, veniva utilizzato come deposito di materiale vario (materiale legnoso, sedie di plastica, guaina isolante in plastica, sedie in alluminio e legno, tubazioni in plastica) ed era stato demolito dopo l’accertamento;
3) si trattava di struttura che non poteva ritenersi precaria in considerazione del fatto che alcuni dei pali di sostegno erano infissi nel terreno e della sua utilizzazione durevole come deposito e riparo dagli agenti atmosferici del materiale ivi ricoverato;
4) si trattava, inoltre, di opera che non poteva dirsi parte di preesistente edificio perché non costituiva pertinenza dell’immobile a cui si appoggiava;
5) non v’era la prova diretta della sua realizzazione in epoca anteriore all’autunno 2008, non potendosi tale prova ricavare né dalle cartoline illustrate prodotte dalla difesa (poco chiare e senza data, come anche osservato dal giudice di primo grado), né dalle testimonianze addotte, imprecise, non univoche ed anche favorevoli alla tesi accusatoria (un testimone aveva riferito che gli sembrava di ricordare che forse la tettoia era presente nel 2001; altro aveva affermato che, nel 2005/2006, vi erano solo dei pezzi di lamiera poggiati sul materiale), e comunque tali da non porre in serio dubbio la portata direttamente accusatoria delle testimonianze provenienti dalla polizia giudiziaria secondo le quali la presenza della tettoia era stata rilevata solo nel 2009;
6) benché l’opera non ricadesse su area di proprietà dell’imputato, ma in prossimità del suo fondo, tuttavia dalle prove testimoniali era emerso che il materiale ricoverato era suo, o comunque in sua disponibilità, sicché, pur non essendovi la prova diretta della materiale esecuzione del manufatto da parte dello stesso, gli andava comunque attribuita la responsabilità perché unico soggetto realmente interessato al ricovero del materiale (e dunque all’esistenza e all’utilizzazione dell’opera) e destinatario dei provvedimenti che ne avevano ordinato la rimozione era stato proprio lui.
2. Ricorre per Cassazione lo Zulian, chiedendo, per il tramite del difensore di fiducia, l’annullamento della sentenza ed articolando tre motivi di doglianza.
1.1. Con il primo motivo denunzia violazione dell’art. 606, comma 1°, Iett. b ed e, cod. proc. pen., per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione e violazione e falsa applicazione dell’art. 192, comma 1°, cod. proc. pen., in merito alle risultanze istruttorie. Osserva il ricorrente come l’affermazione della sua penale responsabilità fondi esclusivamente su considerazioni logiche, che non provano il suo reale contributo alla realizzazione, peraltro su suolo altrui, dell’opera. Pur essendo vero che egli era (ed è) proprietario e titolare del rifugio “La Baita”, oggetto di importante intervento di ristrutturazione nel 2007, e che parte del materiale di cantiere era stato posizionato sotto la tettoia in questione, ciò nondimeno è altrettanto vero che l’opera era stata realizzata su fondo non di sua proprietà e che nessun altro elemento probatorio consentiva di attribuirgliene la realizzazione. Sicché, gli unici elementi certi emersi nel processo (proprietà dell’immobile adiacente e l’uso, a fini di deposito, della tettoia) non potevano essere valorizzati come prova della riconducibilità alla sua persona dell’azione incriminata.
1.2. Con il secondo motivo di ricorso denunzia violazione dell’art. 606, comma 1°, Iett. b ed e, cod. proc. pen., per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione e violazione e falsa applicazione dell’art. 192, comma 1°, cod. proc. pen. in merito alla insussistenza del reato contestato. L’opera contestata, osserva, è di natura precaria: due pali verticali in legno ed uno trasversale sulla sommità, con copertura in lamiere non fissate, ma appoggiate al materiale ivi ricoverato con dei pesi posizionati al fine di evitare la loro facile rimozione. Inoltre si tratta di opera costituente parte di preesistente edificio e dunque di struttura accessoria, di protezione e/o riparo di spazi liberi da agenti atmosferici. Le sue ridotte dimensioni, in uno con le considerazioni che precedono, la sottraggono alla necessità del permesso di costruire.
1.3. Con l’ultimo motivo di ricorso denunzia violazione dell’art. 606, comma 1°, Iett. b e c, cod. proc. pen., per inosservanza o erronea applicazione dell’art. 157 cod. pen. in merito alla maturata prescrizione del reato. I testimoni della difesa, osserva il ricorrente, non lasciano adito a dubbi sul fatto che l’opera doveva ritenersi realizzata già nel 2005, come ricordato dai testimoni Sindivar Vasile Florin e Lorenz Luciano e come ulteriormente documentato dalle fotografie depositate dalla difesa dalle quali si evince che l’opera era presente ancor prima della ristrutturazione del rifugio “Baita Cruz” avvenuta nel 2007. In ogni caso, il termine prescrizionale non potrebbe mai computarsi da epoca successiva all’autunno 2008, come indicato nella rubrica.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato.
4. Va preliminarmente affrontato il tema, posto dal secondo motivo di ricorso, circa il regime edilizio dell’opera poiché esso riguarda la sussistenza stessa del reato, prima ancora della sua attribuibilità all’imputato (primo motivo di ricorso) e della sua estinzione.
La natura precaria dell’opera edilizia non deriva dalla tipologia dei materiali impiegati per la sua realizzazione, tanto meno dalla sua facile amovibilità; quel che conta è la oggettiva temporaneità e contingenza delle esigenze che l’opera è destinata a soddisfare. Chiaro è, in tal senso, il dettato normativo che, nel definire gli interventi di nuova costruzione, per i quali è necessario il permesso di costruire o altro titolo equipollente (artt. 10, comma 1°, lett. a, e 22, comma 3°, lett. b, d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380), individua – tra gli altri – i manufatti leggeri e le strutture di qualsiasi genere che siano utilizzati come depositi, magazzini e simili e “che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee” (art. 3, comma 1°, lett. e.5, d.P.R. 380/2001 cit.). La natura oggettivamente temporanea e contingente delle esigenze da soddisfare è richiamata anche dall’art. 6, comma 2°, lett. b, d.P.R. 380/2001 per individuare le opere che, previa mera comunicazione dell’inizio lavori, possono essere liberamente eseguite. Si tratta di criterio che significativamente, sia pure ad altri fini, l’art. 812 cod. civ. utilizza per collocare nella categoria dei beni immobili gli edifici galleggianti saldamente ancorati alla riva o all’alveo e destinati ad esserlo in modo permanente per la loro utilizzazione, così diversificandoli dai galleggianti mobili adibiti alla navigazione o al traffico in acque marittime o interne, di cui all’art. 136 cod. nav. e che, a norma dell’art. 815 cod. civ., costituiscono, invece, beni mobili soggetti a registrazione.
La oggettiva destinazione dell’opera a soddisfare bisogni non provvisori, la sua conseguente attitudine ad una utilizzazione non temporanea, né contingente, è criterio da sempre utilizzato dalla giurisprudenza di questa Corte per distinguere l’opera assoggettabile a regime concessorio (oggi permesso di costruire) da quella realizzabile liberamente, a prescindere dall’incorporamento al suolo o dai materiali utilizzati (Sez. 3, Sentenza n. 9229 del 12/02/1976, Sez. 3, Sentenza n. 1927 del 23/11/1981, Sez. 3, Sentenza n. 5497 del 11/03/1983, Sez. 3, Sentenza n. 6172 del 23/03/1994, Sez. 3, Sentenza n. 12022 del 20/11/1997, Sez. 3, Sentenza n. 11839 del 12/07/1999, Sez. 3, Sentenza n. 22054 del 25/02/2009, quest’ultima con richiamo ad ulteriori precedenti conformi di questa Corte e del Consiglio di Stato). Nemmeno il carattere stagionale dell’attività implica di per sé la precarietà dell’opera (Sez. 3, Sentenza n. 34763 del 21/06/2011, Sez. 3, Sentenza n. 13705 del 21/02/2006, Sez. 3, Sentenza n. 11880 del 19/02/2004, Sez. 3, Sentenza n. 22054 del 25/02/2009 cit.). Si tratta di principio talmente consolidato da far ritenere, per esempio, di natura eccezionale e non applicabile oltre i casi in esse tassativamente previsti, le disposizioni introdotte dalle leggi della Regione Sicilia che, privilegiando il dato strutturale su quello funzionale, hanno ricondotto nell’ambito dell’attività edilizia libera la chiusura di terrazze di collegamento oppure di terrazze non superiori a metri quadrati 50 e/o la copertura di spazi interni con strutture precarie, la chiusura di verande o balconi con strutture precarie (così, da ultimo, l’art. 20 I.r. Reg. Sicilia 4/2003 che definisce precarie le strutture realizzate in modo tale da essere suscettibili di facile rimozione) (cfr., sul punto, Sez. 3, Sentenza n. 16492 del 16/03/2010 e Sez. 3, Sentenza n. 35011 del 26/04/2007 che hanno avuto modo di precisare che, in questi casi, la facile amovibilità delle strutture deve essere interpretata in senso assolutamente restrittivo). Il riferimento alla temporaneità e alla contingenza dell’esigenza, piuttosto che alle caratteristiche strutturali dell’opera edilizia ed al materiale impiegato per la sua realizzazione, deriva dal fatto che nella riflessione dottrinaria e giurisprudenziale del secondo dopoguerra si è venuta consolidando la consapevolezza che il territorio non può più essere considerato strumento destinato al solo assetto ed incremento edilizio (art. 1 L. 1150/42), ma come luogo sul quale convergono interessi di ben più ampio respiro che dalle modalità del suo utilizzo (o del suo non utilizzo) possono trovare giovamento o, al contrario, pregiudizio, sì che la sua trasformazione urbanistica ed edilizia (così l’art. 1 L. 10/77 che, si noti, operando un rivolgimento copernicano rispetto all’art. 1 L. 1150/42, ha posto l’attività edilizia in secondo piano rispetto a quella urbanistica) costituisce oggetto di compiuta valutazione e comparazione degli interessi in gioco e, dunque, vera e propria attività di governo (così l’art. 117, comma 3°, Cost.), non sempre, e non solo, appannaggio esclusivo della collettività che lo abita.
In questo contesto, appare evidente che la temporaneità dell’esigenza che l’opera precaria è destinata a soddisfare è quella (e solo quella) che non è suscettibile di incidere in modo permanente e tendenzialmente definitivo sull’assetto e sull’uso del territorio.
Nel caso di specie, emerge dalla gravata sentenza che l’opera in questione risalisse ad epoca risalente all’autunno 2008 (il ricorrente, sia pure per altri fini, la retrodata, addirittura ad epoca ben anteriore) e che fosse destinata a funzioni di protezione di un deposito di materiale esistente da epoca ben anteriore. E’ evidente, dunque, la non contingenza e la non occasionalità delle esigenze che la stessa intendeva soddisfare.
5. Parimenti inammissibile, perché manifestamente infondato, è il primo motivo di ricorso.
La corte territoriale ha, come detto, valorizzato la circostanza che l’imputato fosse il solo soggetto interessato all’esistenza e alla utilizzazione dell’opera, ancorché la stessa fosse stata realizzata su suolo non di sua proprietà (ma adiacente alla baita ristrutturata).
Tale considerazione, tuttavia, si coniugava con gli ulteriori rilievi di fatto che:
1) l’imputato era anche il proprietario del materiale depositato (o ne aveva comunque la disponibilità), come pure affermato nella sentenza di primo grado, richiamata da quella della Corte d’appello e non contestata sul punto dall’odierno ricorrente;
2) in ogni caso, alla luce delle testimonianze difensive addotte, egli stesso aveva dato prova di poter disporre per lungo tempo del deposito attraverso i suoi dipendenti;
3) l’imputato stesso, anche quale destinatario dei provvedimenti amministrativi ripristinatori, aveva provveduto a demolire l’opera in questione (così dimostrando di poter legittimamente esercitare una facoltà tipica del diritto di proprietà).
La valorizzazione dell’interesse all’esistenza dell’opera, dunque, letta alla luce delle ulteriori evenienze di fatto pure richiamate nella gravata sentenza, costituisce certamente elemento logicamente coerente con le conclusioni censurate dall’imputato, sì che la motivazione non appare, sul punto, né contraddittoria, né manifestamente illogica e certamente non mancante (Sez. 1, Sentenza n. 41738 del 19/10/2011).
6. E’ inammissibile anche, perché manifestamente infondato, anche l’ultimo motivo di ricorso.
La rubrica colloca la consumazione del reato nell’autunno 2008; il suo accertamento al 31 luglio 2009.
Nell’impugnata sentenza si dà atto, secondo un percorso logico immune da censure e del tutto coerente con le risultanze istruttorie illustrate nella motivazione, che l’opera certamente non poteva essere stata realizzata in epoca antecedente la ristrutturazione della “Baita Cruz”, avvenuta nel 2007.
Nel far ciò, come visto, la sentenza richiama anche le testimonianze addotte dalla difesa, del cui contenuto dà atto nella motivazione.
Il ricorrente, nel censurare le conclusioni cui è pervenuta la corte territoriale, si limita a richiamare, genericamente, le testimonianze del Sindivar e del Lorenz senza, tuttavia, denunziarne lo scollamento rispetto a quanto riferito in sede dibattimentale ed inammissibilmente proponendone una diversa lettura.
La rubrica, come detto, colloca genericamente il fatto nell’autunno 2008 e dunque in un arco temporale che va dal 21 settembre 2008 al 21 dicembre 2008.
Trattandosi di reato istantaneo con effetti permanenti, dovendo, nella prospettiva più favorevole all’imputato, prendere come punto di riferimento il 21 settembre 2008 (Sez. 1, Sentenza n. 49086 del 24/05/2012, Sez. 3, Sentenza n. 1182 del 17/10/2007, Sez. 4, Sentenza n. 12177 del 28/11/1988), il termine prescrizionale sarebbe maturato alla data del 21 settembre 2013, in epoca comunque successiva alla sentenza di appello. In conformità all’insegnamento di Sez. U, Sentenza n. 32 del 22/11/2000, alla luce della inammissibilità del ricorso, non è possibile rilevare e dichiarare l’avvenuta estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
7. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma, a favore della cassa delle ammende, che si stima equo indicare in € 1.000,00.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso l’11 febbraio 2014