Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 24 Ottobre 2016
Numero: 44590
Data di udienza: 13 Luglio 2016
Presidente: ANDREAZZA
Estensore: RENOLDI
Premassima
DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Responsabilità del costruttore che esegue i lavori in violazione delle prescrizioni – Responsabilità del committente a titolo di extraneus – Reato di cui agli artt. 64 e 71 del D.P.R. n. 380/2001 – Artt. 31, 44, 53, 64 e 71 del D.P.R. n. 380/2001 – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Estinzione del reato per prescrizione – Prevalenza sulla causa di non punibilità.
Massima
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 24/10/2016 (Ud. 13/07/2016) Sentenza n.44590
Il reato contemplato dagli
artt. 64 e 71 del D.P.R. n. 380/2001, è configurabile non soltanto a carico del costruttore che esegue i lavori in violazione delle prescrizioni di cui all’
art. 64, ma anche del committente, il quale vi risponde a titolo di extraneus (sul punto Cass., Sez. 3, n. 21775 del 23/03/2011, Ronga e altri).
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Estinzione del reato per prescrizione – Prevalenza sulla causa di non punibilità – Art. 131-bis c.p..
L’estinzione del reato per prescrizione è destinata a prevalere sulla causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis del codice sostanziale, in quanto, estinguendo il reato, essa costituisce misura più favorevole per l’imputato, laddove la seconda lascia inalterato l’illecito penale nella sua materialità storica e giuridica (Cass. Sez. 6, n. 11040 del 27/01/2016, Calabrese; Sez., n. 27055 del 2015).
(annulla senza rinvio sentenza del 7/01/2014 della CORTE D’APPELLO DI GENOVA) Pres. ANDREAZZA, Rel. RENOLDI, Ric. Ponte ed altro
Allegato
Titolo Completo
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 24/10/2016 (Ud. 13/07/2016) Sentenza n.44590
SENTENZA
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 24/10/2016 (Ud. 13/07/2016) Sentenza n.44590
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Ponte Nadia, nata a Genova il 20/04/1971;
Barbalace Sergio, nato a Rosarno il 27/10/1948;
avverso la sentenza del 7/01/2014 della Corte d’appello di Genova;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Carlo Renoldi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Gabriele Mazzotta, che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per essersi i reati estinti per prescrizione.
RITENUTO IN FATTO
1. Nadia Ponte e Sergio Barbalace erano stati tratti a giudizio davanti al Tribunale di Genova in relazione alla contravvenzione di cui all’
art. 44, lett. c) del D.P.R. n. 380/2001, per avere realizzato, nelle rispettive qualità di proprietaria e committente e di esecutore dei lavori, su un terreno sito in Genova Via Del Brasile nn. 42/44/46, un ampliamento volumetrico del corpo di fabbrica eseguito attraverso la costruzione di un cordolo di collegamento in cemento armato di circa di 50 cm., posto sui parametri murali (capo a); nonché, la sola Ponte, del reato di cui agli
artt. 64 commi 2 e 4, 71, comma 1, del D.P.R. n. 380/01 per aver realizzato il predetto intervento attraverso il collocamento di una struttura in cemento armato senza la preventiva redazione di un progetto esecutivo da parte di un tecnico abilitato ed iscritto nel relativo albo, nonché senza la direzione di un tecnico abilitato iscritto nel relativo albo (capo b); ed ancora, entrambi gli imputati, in relazione alla contravvenzione di cui all’
art. 181, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004, per avere realizzato il suddetto intervento edilizio in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ed in assenza del relativo nulla osta (capo e).
Nel corso del dibattimento era emerso che, a seguito di sopralluogo in data 10/09/2009, eseguito dai tecnici del comune di Genova per verificare che i lavori venissero eseguiti nel rispetto delle prescrizioni contenute nel permesso di costruire n. 473/2008, rilasciato dal comune ligure, era stata effettivamente accertata la realizzazione, in difformità da quanto previsto nel progetto approvato, delle opere descritte al capo a) dell’imputazione.
Infatti, nonostante che il progetto prevedesse esclusivamente interventi di risanamento conservativo, nel corso dei lavori era stato realizzato un cordolo, non previsto dal progetto stesso, di 30 cm. di altezza, il quale aveva comportato degli aumenti di volumetria. Inoltre, il cordolo in questione era stato realizzato in cemento armato e in assenza di un progetto esecutivo redatto da un tecnico abilitato iscritto all’albo. Infine, sulla base dell’informazioni fornite dalla Regione Liguria, era altresì emerso che l’area in questione non era in realtà sottoposta a vincolo paesaggistico.
1.1. Con sentenza in data 29/02/2012 del Tribunale di Genova affermò la responsabilità dei due imputati, i quali vennero conseguentemente condannati, riconosciute ad entrambi le attenuanti generiche e riqualificato il reato indicato sub a) del decreto di citazione come violazione della lett. b) dell’art. 44 del D.P.R. n. 380/2001, alla pena di 20 giorni di arresto e di 8.000,00 euro di ammenda e, la sola Ponte, alla ulteriore pena di 500,00 euro di ammenda per il reato sub B) del decreto di citazione, con condanna degli stessi al pagamento delle spese processuali. Ai due imputati furono, altresì, concessi i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna. Ai sensi dell’
art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 fu, infine, disposta la demolizione delle opere realizzate abusivamente.
Con lo stesso provvedimento, il Tribunale assolse i due imputati, con la formula “perché il fatto non sussiste”, in relazione alla contravvenzione di cui all’art. 181, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004.
2. Avverso la sentenza di primo grado propose appello il difensore di Nadia Ponte chiedendo, con il primo motivo, l’assoluzione dal reato di cui all’
art. 44 del D.P.R. n. 380/01 sul presupposto che l’intervento realizzato fosse consistito in un innalzamento tecnico e non volumetrico e che, quanto alla realizzazione del cordolo, si sarebbe trattato di opera necessaria per il risanamento conservativo dei parametri murali.
Con il secondo motivo l’imputata censurò le conclusioni del giudice di prime cure, richiamando la giurisprudenza secondo cui devono considerarsi opere in conglomerato cementizio armato solo quelle che assolvono una funzione statica, rappresentando elementi strutturali dell’edificio e non, come nel caso di specie, rivestenti funzione di nessuna o, al più, limitata importanza nel contesto statico dell’opera.
Con il terzo motivo l’imputata lamentò che, nel periodo in cui erano stati realizzati interventi, ella era stata assente da Genova e, dunque, non in grado di verificare l’esecuzione dei lavori, affidata a Sergio Barbalace, tecnico qualificato.
Infine, Nadia Ponte si dolse dell’eccessività della pena inflitta.
La difesa di Sergio Barbalace chiese l’integrale riforma della sentenza sollecitando, in principalità, l’assoluzione dell’imputato e, in subordine, la trasmissione degli atti al Pubblico ministero in quanto il fatto eventualmente addebitabile allo stesso Barbalace sarebbe stato diverso da come descritto nel decreto di citazione a giudizio.
In via di ulteriore subordine l’appellante invocò la derubricazione dell’ipotesi contravvenzionale in contestazione in quella prevista dalla
lett. a) dell’art. 44, con restituzione nei termini per la domanda di oblazione.
2.1. Con sentenza della Corte d’Appello di Genova in data 7/01/2014 la sentenza di primo grado fu integralmente confermata.
Riepilogati gli accertamenti in fatto compiuti dal primo giudice, la Corte territoriale ritenne innanzitutto infondato il primo motivo d’appello proposto dalla difesa di Nadia PONTE, secondo cui l’intervento in contestazione sarebbe consistito in un mero “innalzamento tecnico”, senza comportare un effettivo incremento volumetrico.
In realtà, il teste Roberto MICHI, funzionario dell’Ispettorato Edilizio del comune di Genova e, dunque, dotato di specifica competenza tecnica, aveva riferito a dibattimento, nel corso dell’udienza del 26/09/2011, di aver accertato, attraverso l’esame dello stato dei luoghi e la comparazione delle opere realizzate con quanto assentite, che la realizzazione del cordolo di cemento armato, dell’altezza di circa 30 cm, aveva determinato la maggiorazione dell’altezza interna dell’immobile, determinando un sensibile incremento volumetrico, non certamente qualificabile in termini di mero “innalzamento tecnico”.
Su tali premesse, la Corte respinse i motivi di gravame dedotti anche da Sergio BARBALACE, sul presupposto che la natura ed entità delle opere in contestazione ne impedissero l’inquadramento nella fattispecie prevista dalla lett. a) dell’art. 44 D.P.R. 380/01, trattandosi di difformità rilevanti ed essenziali rispetto al progetto approvato; e considerato, altresì, che, nella sua qualità di direttore ed esecutore dei lavori, egli non poteva non rispondere penalmente di tali difformità.
Parimenti infondato fu ritenuto l’ulteriore motivo di appello proposto da BARBALACE, secondo cui la modificazione dell’imputazione indicata sub A) – qualificata originariamente quale violazione di cui all’
art. 44 lett. c) e successivamente quali ipotesi di cui alla lett. b) dello stesso articolo, essendo stata accertata l’insussistenza del vincolo paesaggistico – avrebbe dovuto determinare, ai sensi dell’
art. 521, comma 2, cod. proc. pen., la restituzione degli atti al Pubblico Ministero, trattandosi di “fatto diverso” rispetto a quello contestato. Ciò in quanto, nel caso di specie, si sarebbe trattato di una mera modifica della qualificazione giuridica dello stesso fatto, rientrante nella disciplina del comma 1 dello stesso articolo.
Quanto al secondo motivo di appello, con cui la difesa di Nadia PONTE aveva contestato che il cordolo costituisse un’opera in conglomerato cementizio armato, dovendo in questo modo qualificarsi solo gli interventi idonei ad assolvere a una funzione statica in quanto configurabili come elementi strutturali dell’edificio, la Corte rilevò che, sulla base degli accertamenti di fatto, era emersa la funzione strutturale dell’intervento, volto a garantire una migliore stabilità alla costruzione, sicché le opere dovevano considerarsi rientranti nella disciplina posta dagli
artt. 64 e 71 D.P.R. n. 380/01. Ciò in quanto il cordolo, in precedenza in materiale ligneo, era stato realizzato in cemento armato proprio per sostenere, unitamente ai muri portanti, il soprastante tetto e, dunque, con la finalità del consolidamento statico dell’edificio, sicché, ai sensi dell’art. 4 della legge n. 1086/71, le opere in questione avrebbero dovuto essere denunciate dal costruttore all’Ufficio Tecnico competente, previa redazione di un progetto tecnico esecutivo redatto da soggetto abilitato, prima dell’inizio di esecuzione dei lavori.
Quanto, poi, alla censura proposta dalla PONTE, secondo cui, nel periodo in cui le opere erano state realizzate, ella sarebbe stata assente da Genova e, dunque, non in grado di verificare l’esecuzione dei lavori, affidata a Barbalace, la Corte rilevò che il committente dei lavori è investito della relativa “posizione di garanzia” e che, come tale, è tenuto a rispondere, anche penalmente, della realizzazione delle opere, salvo la dimostrazione, che in questo caso non era stata fornita, che le stesse fossero state realizzate non soltanto a sua insaputa (ciò che potrebbe comunque determinare una responsabilità per culpa in vigilando) ma addirittura contro la sua volontà.
Con riferimento al trattamento sanzionatorio la Corte ritenne di condividere la quantificazione della pena inflitta a ciascun imputato, tenuto conto del ruolo svolto e delle condizioni soggettive di ciascuno di essi.
3. Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione, a mezzo dei propri difensore, entrambi gli imputati.
Secondo l’assunto dell’imputato, la sentenza di primo grado ne avrebbe affermato la responsabilità penale sulla base di una non corretta interpretazione del concetto di totale difformità del manufatto edilizio, la quale presupporrebbe la realizzazione di un “organismo edilizio integralmente diverso, ovvero di volumi edilizi tali da costituire un organismo edilizio, o parti di esso, con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile”. Nel caso di specie, invece, potrebbe al più configurarsi una situazione di parziale difformità, come tale non suscettibile di integrare la fattispecie contravvenzionale ritenuta.
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la mancanza di motivazione in cui sarebbero incorsi i giudici di merito nell’avere totalmente pretermesso di considerare le dichiarazioni dei testi indicati dalla difesa ed esaminati in primo grado.
In particolare, non sarebbero state adeguatamente valutate le testimonianze dell’arch. Stefano Juvara, dell’ing. Giacomo Zunino, del geom. Marco Baldoni e del geom. Roberto Giannoni, dal complesso delle quali sarebbe emerso che l’intervento era stato compiuto con finalità di intervento conservativo e che in tale contesto era necessario procedere alla sostituzione della parte terminale dei muri perimetrali, il cd. dormiente, e che, per tale motivo, era stato realizzato il cordolo in calcestruzzo, il quale non aveva però determinato alcun aumento consistente di volumetria, sicché l’innalzamento sarebbe stato stato “tecnico” e non “volumetrico”.
Con il terzo motivo di impugnazione viene dedotta, ai sensi dell’
art. 606, comma 1, lett. b) del codice di rito, l’inosservanza e/o l’erronea applicazione degli artt. 53, comma 1, lett. a), 64, comma 24 e 71 del d.p.r. n. 380 del 2001, nonché ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. a) cod. proc. pen., la mancanza o manifesta illogicità della motivazione nel ritenere che il cordolo di cemento assolvesse ad una funzione statica in ordine alle opere realizzate. Il cordolo in calcestruzzo non potrebbe essere qualificato alla stregua di uno degli elementi strutturali del fabbricato, aventi la funzione di assicurarne la stabilità globale, atteso che la funzione di sostegno del tetto sarebbe stata svolta dai muri perimetrali.
Con il quarto motivo di ricorso, viene dedotta, ai sensi dell’
art. 606, comma 1, lett. b) del codice di rito, l’inosservanza e/o l’erronea applicazione dell’art. 42, comma 4, cod. pen., nonché ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., la mancanza di motivazione della sentenza nella parte in cui aveva ritenuto la colpa dell’imputata senza svolgere adeguati accertamenti in merito. All’epoca della realizzazione del cordolo, infatti, la donna si sarebbe trovata in un’altra regione e, dunque, ben lontano dal luogo di realizzazione delle opere edilizie, sicché nessun rimprovero, nemmeno a livello di colpa, potrebbe essere formulato nei suoi confronti.
Né potrebbe configurarsi, a carico della stessa, alcuna culpa in vigilando, avendo l’imputata delegato il controllo sulle attività edilizia ad un direttore dei lavori e non sussistendo alcun concreto elemento alla stregua del quale ella avrebbe potuto sospettare che vi fosse bisogno di una sua più incisiva azione di vigilanza.
3.2. Con un unico, articolato motivo, Sergio Barbalace lamenta la violazione dell’
art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., per erronea applicazione della legge penale e per mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità e/o mera apparenza della motivazione risultante dal testo del provvedimento censurato e dagli atti del processo specificamente indicati nel ricorso.
Secondo l’assunto dell’imputato, la sentenza di primo grado ne avrebbe affermato la responsabilità penale in relazione alla contravvenzione di cui al capo a) sulla base di un supposto aumento delle volumetrie che in realtà non troverebbe riscontro nelle misurazioni svolte in relazione all’altezza dei locali, le quali sarebbero incomplete ed inesatte perché effettuate soltanto internamente e non anche esternamente, secondo quanto sarebbe stato puntualmente messo in rilievo dal consulente di parte Arch. Stefano Juvara.
Sotto altro profilo, il ricorrente ha dedotto che nella specie non sarebbe stata integrata la contravvenzione di cui all’
art. 44 lett. b) che punisce “l’esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso”. Tale nozione, infatti, ricorrerebbe, ai sensi dell’
art. 31 D.P.R. 380/2001, nel caso della realizzazione di un organismo che per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche, di utilizzazione o dimensionali sia completamente diverso da quello autorizzato. Per variazioni essenziali rispetto al progetto assentito, invece, dovrebbero intendersi, in base agli
artt. 31 e 32 D.P.R. n. 380/2001, gli interventi con cui si realizzi un manufatto che presenti tali differenze dal permesso rilasciato da far ritenere che si sia voluto edificare quasi “a prescindere” dal progetto assentito, sicché l’opera conservi apparentemente qualche legame strutturale ed architettonico con l’edificio autorizzato, ma in realtà sia stato costruito un quid alii rispetto al progetto approvato dal comune. Ancora: le opere eseguite in parziale difformità rispetto al progetto assentito ricorrerebbero, ex
art. 34 D.P.R. n. 380/2001, in presenza di variazioni al permesso circoscritte dal punto di vista qualitativo e quantitativo, che non configurino totale difformità, né variazione essenziale. Secondo dottrina e giurisprudenza, “a valle” della “parziale difformità” sussisterebbe un’ulteriore categoria di opere abusive, quella delle “varianti in corso d’opera” non tempestivamente denunciate, ex
art. 22 comma 2, D.P.R. 380/2001 soggette a DIA, non incidendo sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificando la destinazione d’uso e la categoria edilizia, non alterando la sagoma dell’edificio e non violando le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire. E a tale categoria sarebbero riconducibili, secondo il ricorrente, le opere in contestazione.
4. In data 26/06/2016, l’avv. Bruno Ferrari ha depositato, nell’interesse di Nadia Ponte, una memoria contenente motivi aggiunti.
Con il primo, è stato chiesto il riconoscimento della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen., avuto riguardo alle caratteristiche dell’opera in questione, consistita nell’avere provveduto a rifare, in cemento armato, il dormiente ormai ammalorato dei muri perimetrali di una costruzione, in quanto originariamente realizzato in legno; e considerato che il cordolo in cemento aveva interessato uno spazio di pochi centimetri di altezza e aveva assolto all’unica funzione di rendere complanare la testa dei muri perimetrali. A conferma della tenuità del fatto, è stato rilevato che il Giudice di primo grado aveva qualificato le opere, a pag. 2 della sentenza, come di “entità modesta e di ben misera utilità effettiva”, evidenziando altresì, a pag. 3, “la ridotta gravità del fatto”.
Con il secondo motivo aggiunto, la difesa ha Dedotto la tenuta maturazione del termine di prescrizione di tutte le fattispecie contravvenzionali contestate, maturata il 10/09/2014, avuto riguardo alla data dell’accertamento, avvenuto il 10/09/2009.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I motivi di ricorso dedotti dagli imputati sono infondati.
Nondimeno, deve rilevarsi come i reati agli stessi contestati siano ormai estinti per prescrizione, non emergendo, allo stato, cause di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., che, per poter essere dichiarate, devono essere rilevabili con una mera attività ricognitiva, da cui emerga l’assoluta assenza della prova di colpevolezza a carico dell’imputato ovvero la prova positiva della sua innocenza e non una mera contraddittorietà o insufficienza della prova, la quale richiederebbe un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze (cfr., Sez. 6, n. 10284 del 22/01/2014, Culicchia, Rv. 259445; Sez. 1, n. 35627 del 18/04/2012, Amurri, Rv. 253458).
1.1. Entrambi gli imputati hanno sollevato, in primo luogo, questioni che attengono alla configurabilità della contravvenzione di cui alla lett. b) dell’
art. 44, comma 1 del d.p.r. n. 380 del 2001, sotto il profilo della possibilità di configurare una totale difformità o una variazione essenziale delle opere rispetto al titolo abilitativo.
Sul punto, osserva il Collegio che sia le sentenze di merito che gli stessi atti difensivi degli imputati abbiano correttamente definito i limiti concettuali di tali categorie. Ciò che, invece, è controverso attiene alla sussistenza, per effetto del posizionamento del cordolo in cemento armato, avente una maggiore altezza rispetto alla preesistente struttura lignea, di un effettivo aumento volumetrico. Tale circostanza, a ben vedere, costituisce un mero profilo di fatto, come tale sottratto alla cognizione del giudice di legittimità, se non nei limiti della congruità logica della motivazione adottata dai giudici di merito.
Sul punto, è appena il caso di rilevare come le sentenze impugnate abbiano evidenziato il dato, difficilmente confutabile dal punto di vista logico, per cui l’aumento dell’altezza della struttura portante, conseguente all’utilizzo di un dormiente avente un’altezza superiore di circa 30 cm., abbia necessariamente determinato un aumento degli spazi interni dell’immobile e, dunque, della sua volumetria.
Tale argomentazione, per quanto eventualmente confutabile alla stregua di concreti elementi fattuali, peraltro nemmeno esaurientemente offerti dagli imputati, i quali si sono limitati a formulare delle semplici ipotesi in argomento, appare idonea a configurare quella non manifesta assenza della prova di colpevolezza dell’imputato che consente, ai sensi dell
‘art. 129 cod. proc. pen., di rilevare, come si dirà (v. infra § _), la maturazione della prescrizione.
2.2. Quanto poi agli ulteriori motivi di ricorso, relativi alla configurabilità della contravvenzione contestata alla lettera b) dell’imputazione, giova ricordare come, anche in questo caso, alle pur suggestive deduzioni svolte dalle difese, i giudici di merito abbiano opposto l’argomentazione, invero difficilmente confutabile dal punto di vista logico, secondo cui la stessa presenza del dormiente fosse indicativa della sua necessarietà ai fini del complessivo equilibrio statico della costruzione, attesa la ritenuta insufficienza delle sole mura perimetrali a sorreggere il tetto.
Ne consegue, dunque, che, pure con riferimento alla fattispecie contestata al capo b), non può certamente configurarsi l’acquisizione della prova manifesta della non colpevolezza o meno dell’innocenza dell’imputata, sicché anche in relazione a tale ipotesi contravvenzionale può essere dichiarata la prescrizione (v. infra).
2.3. Nessun dubbio, del resto, può sussistere in ordine alla responsabilità dell’imputata sul piano soggettivo, pure ipotizzata nei relativi motivi di ricorso.
Quanto, alla Ponte, l’intervento edilizio era stato da lei certamente commissionato, non essendo stato neanche dedotto dall’interessata che le opere fossero state realizzate a sua insaputa, sicché appare totalmente irrilevante la circostanza che ella non fosse presente in loco durante l’esecuzione. E, del resto, con specifico riferimento alla contravvenzione contestata al capo b), è stata correttamente richiamata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui il reato contemplato dagli artt. 64 e 71 del D.P.R. n. 380/2001, è configurabile non soltanto a carico del costruttore che esegue i lavori in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 64, ma anche del committente, il quale vi risponde a titolo di extraneus (sul punto si veda, tra l’altro, Sez. 3, n. 21775 del 23/03/2011, Ronga e altri, Rv. 250377).
3. Alla stregua del argomentazioni diffusamente svolte nei paragrafi che precedono, ritiene il Collegio che non ricorra alcuna ipotesi di evidente insussistenza di prove della responsabilità dei due imputati, sicché ricorrono le condizioni per la declaratoria di avvenuta estinzione dei reati contestati ai capi a) e b) dell’imputazione.
A questo riguardo deve osservarsi che, al momento dell’accertamento, avvenuto il 10/09/2009, i lavori erano ancora in corso.
Nondimeno, secondo quanto riferito dal teste, Michi era stato emesso un ordine di sospensione dei lavori in data 15/09/2009, dalla data del quale, dunque, deve ritenersi decorrente il termine quinquennale previsto per le fattispecie contravvenzionali in contestazione (Sez. 3, n. 49990 del 4/11/2015, P.G. in proc. Quartieri e altri, Rv. 265626, secondo cui “la permanenza del reato di edificazione abusiva cessa a seguito dell’interruzione dei lavori conseguente all’ordine di sospensione emanato dall’autorità comunale”).
Detto termine, considerati i periodi di sospensione conseguenti al rinvio del processo (dal 19/12/2011 al 17/02/2012), deve ritenersi spirato in data 8/11/2014. Ne consegue che i reati in contestazione devono ritenersi ormai estinti per prescrizione.
4. Da ultimo è appena il caso di rilevare come secondo l’interpretazione accolta da questo giudice di legittimità l’estinzione del reato per prescrizione sia destinata a prevalere sulla causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis del codice sostanziale, in quanto, estinguendo il reato, essa costituisce misura più favorevole per l’imputato, laddove la seconda lascia inalterato l’illecito penale nella sua materialità storica e giuridica (Sez. 6, n. 11040 del 27/01/2016, Calabrese, Rv. 266505; Sez., n. 27055 del 2015, Rv. 263885).
5. Sulla base delle considerazioni che precedono, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, per essersi i reati estinti per intervenuta
prescrizione.
PER QUESTI MOTIVI
Annulla senza rinvio il provvedimento impugnato per essersi i reati estinti per prescrizione.
Così deciso in Roma, il 13/07/2016