Un vizio motivazionale non dà mai luogo a violazione di legge se non quando il difetto della motivazione consista nel fatto di non esistere graficamente o di essere apparente mentre l’eventuale illogicità manifesta può denunciarsi, nel giudizio di legittimità, soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell’art. 606 c.p.p..
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 3^, 3 Marzo 2014 (Ud. 07/01/2014), Sentenza n.10034
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Terza Sezione Penale
Composta dai Signori:
1. dr. Mario Gentile – Presidente
2. dr. Giovanni Amoroso – Consigliere
3. dr.ssa Guicla Mulliri – Consigliere rel.
4. dr. Andrea Gentili – Consigliere
5. dr. Alessio Scarcella – Consigliere
all’esito dell’udienza pubblica del 7 gennaio 2014 ha pronunciato e pubblicato
mediante lettura del dispositivo la seguente
SENTENZA
– sui ricorsi proposti da:
Calabrò Carmelo, nato a Castroreale il 26.12.61
Lenzo Antonino, nato a Messina 1’1.7.84
Lenzo Vincenzo, nato a Piraino il 28.7.44 imputati art. 674 c.p.
– avverso la sentenza dei Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto dell’8.2.12
– Sentita, in pubblica udienza, la relazione del cons. Guicla Mùlliri;
– Sentito il P.M., nella persona del P.G. dr. Pietro Gaeta, che ha chiesto una
declaratoria di inammissibilità di entrambi i ricorsi;
– Sentito il difensore di Lenzo Vincenzo e Lenzo Antonino avv. Carmelo Occhiuto,
che ha insistito per l’accoglimento del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato – Con la sentenza impugnata, il
Tribunale ha condannato i ricorrenti per la violazione dell’art. 674 c.p. Il reato è stato ravvisato nella condotta, ascritta ai ricorrenti, di avere, Calabrò – quale titolare dell’omonima ditta titolare del servizio di gestione e manutenzione dell’impianto di depurazione dei reflui del comune di Furnari – Lenzo Antonio – quale a.u.- e Lenzo Vincenzo – direttore responsabile tecnico della soc. titolare del servizio di manutenzione dell’impianto centralizzato di depurazione dei reflui civili del citato comune – effettuato scarichi reflui fognari non depurati aventi parametri tabellari non rispondenti ai valori-limite previsti dalla disciplina ambientale.
In tale condotta, è stato, pertanto, ravvisato il gettito di cose pericolose.
2. Motivi del ricorso – Avverso tale decisione, i condannati hanno proposto ricorso, tramite i rispettivi difensori, deducendo:
Calabrò
1) violazione di legge per essere stata respinta, senza motivazione adeguata, la domanda di oblazione, ed insussistenza del fatto per mancanza di prova della responsabilità dell’imputato “oltre ogni ragionevole dubbio” in considerazione del fatto che lo stesso Calabrò aveva denunciato le inadeguatezze dell’impianto, anche il campione analizzato evidenziava parametri inferiori a quelli massimi fissati dalle tabelle della legge regionale ed il comune di Furnari aveva dato luogo ad una serie di inadempienze che erano alla base dei fatti poi verificatisi, sì da scriminare il Calabrò;
Lenzo Antonino e Lenzo Vincenzo
1) violazione di legge perché, nella motivazione, non viene precisato in cosa consista 1″attitudine della condotta a provocare molestie alle persone che, invece, costituisce elemento essenziale della fattispecie di pericolo ipotizzata dalla norma;
2) violazione di legge perché difetta qualsiasi motivazione in ordine alla responsabilità personale individuale degli imputati. Mentre, infatti, la sentenza fa riferimento al Calabrò, nulla dice circa il contributo dato dagli imputati.
Con atto depositato il 18.9.13 la difesa dei ricorrenti Lenzo, ribattendo alla
proposta di trasmissione del fascicolo alla VII sez. di questa S.C. per inammissibilità del ricorso, ha fatto notare che il giudice ha ritenuto la responsabilità per il reato di cui all’art. 674 c.p. senza neppure accertare se la condotta molesta fosse avvenuta in luogo frequentato o frequentabile da persone né ha spiegato in che misura lo sversamento di scarichi che mutavano la colorazione dell’acqua potesse molestare le persone che si fossero trovate a contatto con il mare nel tratto antistante il depuratore. Di fatto, perciò, il giudice ha fatto discendere il reato dalla semplice colorazione dell’acqua ma non è stata dimostrata “l’attitudine della condotta a provocare molestie alle persone” come, invece, prescritto per la sussistenza del reato ipotizzato (cass. 10.11.98 n. 13278). A tal fine, si ricorda, invece, che recente giurisprudenza di
legittimità (Sez. III, 25.5.11, n. 25031) ha escluso la sussistenza della prova dell’elemento oggettivo in difetto di dimostrazione che il gettito fosse avvenuto in luogo di pubblico transito ovvero in luogo privato di uso comune o altrui.
Infine, si rammenta anche che la S.C. ha sottolineato la necessità che, per la ricorrenza del reato in esame, sia stata realizzata una condotta attiva e non una mera omissione di apprestamento di mezzi idonei ad impedire il riversamento.
I ricorrenti concludono invocando l’annullamento della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Motivi della decisione – I ricorsi meritano differenti decisioni come di seguito precisate.
Il ricorso di Calabrò è inammissibile perché entrambi i difensori, avv.ti Cicero e Coppolini, non sono abilitati a patrocinare dinanzi a questa S.C. per perché non iscritti nel prescritto albo speciale ex art. 613 c.p.p..
Per quel che attiene al ricorso di Lenzo Antonio e Lenzo Vincenzo, la pronunzia deve essere di reiezione.
Nel precisare meglio le ragioni di tale declaratoria, in primo luogo, sembra il caso di stigmatizzare la inesattezza di una doglianza che denuncia erronea applicazione della legge sulla base di presunti vizi motivazionali.
Ed infatti, un vizio motivazionale non dà mai luogo a violazione di legge se non quando il difetto della motivazione consista nel fatto di non esistere graficamente o di essere apparente mentre l’eventuale illogicità manifesta può denunciarsi, nel giudizio di legittimità, soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell’art. 606 stesso codice (S.1.1, 28.1.04, Bevilacqua, Rv. 226710).
Sta di fatto, poi, che anche esaminando la decisione impugnata secondo i parametri appena detti, non si perviene alle conclusioni auspicate dalla difesa dei due ricorrenti dal momento che il provvedimento risulta congruamente motivato in rapporto alle emergenze acquisite e queste ultime sono state commentate in modo coerente con i principi della logica ed i dettami giurisprudenziali in materia di gettito di cose pericolose.
Innanzitutto, va rammentato che la contravvenzione di cui trattasi è da considerare, per giurisprudenza assolutamente costante (sez. VI, 4.7.89, Toffarin, Rv. 183994; Sez. I, 25.10.94, Montini, Rv. 199888; Sez. I, 28.9.9, Grandoni, Rv. 197893; Sez. III, 6.12.06, Parziale, Rv. 235580) un reato di pericolo.
E’, quindi, in tale ottica che va valutata la condotta qui in esame. Come si ricorda in sentenza, copiosa documentazione testimonia il mancato e/o cattivo funzionamento del depuratore come pure è risultato acclarato dall’esame dei reflui che l’impianto non depurava permettendo l’immissione in mare aperto di scarichi fognari. Al di là dell’accertato superamento dei valori solidi sospesi e del C.O.D. in uscita, è un dato certo anche che le acque del mare avevano mutato colore.
Mentre la genericità del ricorso nulla aveva dedotto a riguardo, nella memoria successiva del 18.9.13, i ricorrenti hanno sviluppato maggiori argomenti difensivi tesi a sostenere che difetterebbe, nella specie, la prova della molestia arrecata alle persone anche perché nulla si dice a proposito del tratto di mare che aveva cambiato colorazione e del rischio che esso fosse visibile a passanti.
In realtà, proprio rifacendosi alla giurisprudenza di questa S.C., giustamente i giudici di merito hanno, in primo luogo, distinto tra il reato di cui all’art. 674 e quello p. e p. dall’art. 734 c.p. escludendo quest’ultimo proprio sul presupposto che non fosse stato provato il danno («la semplice colorazione mutevole dell’acqua riscontrata a seguito di controllo non appare idonea in tal senso»). Ciò, però, vale per l’evento “deturpamento delle bellezze naturali”. Per ragioni uguali e contrarie, però, diversamente deve concludersi con riferimento al reato in questione visto che è principio interpretativo altrettanto consolidato che «non è necessario che le emissioni di gas, di vapori o di fumo provochino un effettivo nocumento, essendo sufficiente l’attitudine delle stesse ad offendere, imbrattare o molestare persone, cioè arrecare ad esse disagio, fastidio o disturbo ovvero turbarne il modo di vivere quotidiano» (sez.
I, 28.9.93, Grandoni, cit.) e che «costituisce molestia anche il fatto di arrecare alle persone preoccupazione ed allarme circa eventuali danni alla salute» (Sez. III, 14.3.03, Di Grado, Rv. 225304). In buona sostanza, «devono farsi rientrare nel concetto di “molestia” tutte le situazioni di fastidio, disagio, disturbo e comunque di turbamento della tranquillità» (Sez. III, 18.6.04, Providenti, Rv. 229618).
Orbene, è appunto l’evidenziazione di un dato di fatto oggettivo – riferito dai
testi – la mutevole colorazione del mare, a giustificare la decisione dei giudici di ravvisare gli estremi del reato di cui all’art. 674 c.p. risultando palmare ed intrinseco il turbamento che suscita nella comunità la visione del mare di un colore diverso da quello suo proprio.
Nessun pregio ha, del resto la pretesa di maggiori accertamenti circa la possibilità di accesso al pubblico del tratto di mare interessato visto che esso tanto era visibile che è stato colto agevolmente dai testi che hanno riferito in proposito (dep. Montanaro) né vi è dubbio che la circostanza sia dimostrabile in tal modo senza ricorso a perizie o esami tecnici (sez. III, 30.1.98, n. 6141 Rv. 210959).
Di qui l’infondatezza del motivo.
Alla presente statuizione segue, per legge, la condanna di tutti i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché, il solo Calabrò, anche al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di 1000 C.
P.Q.M.
Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p.
Dichiara inammissibile il ricorso di Calabrò Carmelo che condanna al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di 1000 C. Rigetta il ricorso di Lenzo Antonino e Lenzo Vincenzo e condanna entrambi al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 7 gennaio 2014