Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Beni culturali ed ambientali Numero: 29070 | Data di udienza: 8 Maggio 2013

* BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Beni d’interesse artistico, storico o archeologico – Appartenenza allo Stato – Accertamento dell’interesse culturale oggettivo – Artt. 2, 10, 13, 91 e 176 d.lgs n.42/04.


Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 9 Luglio 2013
Numero: 29070
Data di udienza: 8 Maggio 2013
Presidente: Squassoni
Estensore: Mulliri


Premassima

* BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Beni d’interesse artistico, storico o archeologico – Appartenenza allo Stato – Accertamento dell’interesse culturale oggettivo – Artt. 2, 10, 13, 91 e 176 d.lgs n.42/04.



Massima

 

 

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^  9 Luglio 2013 (Ud. 8/5/2013) Sentenza n. 29070

BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Beni d’interesse artistico, storico o archeologico – Appartenenza allo Stato – Accertamento dell’interesse culturale oggettivo – Artt. 2, 10, 13, 91 e 176 d.lgs n.42/04.
 
In tema di tutela dei beni culturali, ove si tratti di beni appartenenti allo Stato, non è richiesto l’accertamento del cosiddetto interesse culturale (né che i medesimi siano qualificati come culturali da un provvedimento amministrativo), essendo sufficiente che la “culturalità” sia desumibile dalle caratteristiche del bene mostrando sufficiente un interesse culturale oggettivo, derivante da tipologia, localizzazione, rarità o altri analoghi criteri, e la cui prova può desumersi o dalla testimonianza di organi della P.A. o da una perizia disposta dall’autorità giudiziaria. Pertanto, il presupposto logico di tali asserzioni risiede nel principio secondo cui i reperti archeologici, a mente dell’art. 91 D.Lg.vo 42/04, “appartengono allo Stato” “da chiunque ritrovati”, salva la prova, fornita dal detentore, di averli legittimamente acquisiti. Sicché, anche nell’eventualità in cui il procedimento penale avente ad oggetto beni d’interesse artistico, storico o archeologico sia stato definito con archiviazione, «questi ultimi devono essere restituiti allo Stato, non soltanto, in caso di positiva verifica del loro “interesse culturale”, ma anche, nel caso in cui, risoltasi negativamente detta verifica, il detentore non fornisca prova della legittimità della detenzione, in quanto il giudizio d’infondatezza della notizia di reato non impedisce l’operatività della presunzione della loro appartenenza al patrimonio indisponibile dello Stato, ovvero al demanio pubblico.
 
(conferma sentenza della Corte d’Appello di Palermo del 12.7.12) Pres. Squassoni, Est. Mulliri, Ric. Alagna
 

Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 9 Luglio 2013 (Ud. 8/5/2013) Sentenza n. 29070

SENTENZA

 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Terza Sezione Penale
 
Composta dai Signori:
 
1. dr.ssa Claudia Squassoni          – Presidente
2. dr. Alfredo Maria Lombardi – Consigliere
3. dr.ssa Guicla Mulliri            – Consigliere Rel.
4. dr.ssa Elisabeta Rosi – Consigliere
5. dr. Gastone Andreazza – Consigliere
 
all’esito dell’udienza oubblica dell’8 maggio 2013  ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente
 
SENTENZA
 
– sul ricorso proposto da Alagna Michelangelo, nato ad Erice il 17.6.83
– imputato art. 176 d.lgs 42/04
– avverso la sentenza della Corte d’Appello di Palermo del 12.7.12
– Sentita la relazione del cons. Guicla Mùlliri;
– Sentito il P.M., nella persona del P.G. dr. Gioacchino Izzo, che ha chiesto una declaratoria di inammissibilità del ricorso;
 
RITENUTO IN FATTO
 
1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato – Con la sentenza impugnata, la Corte d’appello ha confermato la condanna inflitta al ricorrente per violazione dell’art.176 d.lgs 42/04 perché lo stesso si era impossessato di beni culturali rientranti nell’art. 10 stesso d.lgs , appartenenti allo Stato. Si trattava, detto in breve, di un puntale ed un collo di anfora di tipo romano o greco, di frammenti di terracotta di produzione punica, frammenti di mosaico, frammenti metallici e 372 reperti, numismatici e metallici, in bronzo, argento ed oro.
 
2. Motivi del ricorso – Avverso tale decisione, il condannato ha proposto ricorso, tramite difensore, deducendo:
1) l’avvenuta prescrizione del reato che, secondo il ricorrente, per reati con pena inferiore a cinque anni, dovrebbe essere di 6 anni e decorrere dal 21.12.05, data della perquisizione e, quindi, dell’accertamento;
2) violazione di legge per sua erronea applicazione  dal momento che:
– manca una dichiarazione ex art. 13 d.lgs 42/04 di valore storico ed archeologico dei beni sequestrati;
– l’all. A) d.lgs 42/04 l’art. 2 decies, introdotto dal d.lgs 109/05, non comprende, tra le collezioni di interesse storico e numismatico, quelle aventi ad oggetto monete antiche e moderne di modesto valore o ripetitive, come è il caso in esame;
– questa S.C., con sentenza 9470/99, ha escluso che la condotta in esame si possa realizzare con qualsiasi oggetto proveniente dall’antichità;
3) vizio di motivazione perché la Corte attribuisce la illiceità della condotta all’imputato perché i beni provenivano da una condotta illegittima di scavo quando, però, il reato di ricettazione é stato escluso ed il reato ascritto all’Alagna non é quello di scavo clandestino bensì di impossessamento ex art. 176 d.lgs 42/04.
 
Si ricorda, inoltre, che le monete rinvenute non hanno alcuna rilevanza normativa come attestato anche dalla consulenza della dr.ssa Molinari che aveva indotto il P.M. a chieder l’archiviazione del procedimento.
 
Il ricorrente conclude invocando l’annullamento della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO
 
3. Motivi della decisione – Il ricorso è infondato.
 
3.1. I rilievi svolti nel primo motivo allo scopo di sostenere la sopraggiunta estinzione per prescrizione del reato ipotizzato, non sono corretti.
 
Ed infatti, è ben vero che il reato punito dall‘art. 176 d.lgs 42/04 si prescrive ordinariamente nel termine di 6 anni ma è anche vero che detto termine è stato interrotto con il decreto di citazione del P.M. del 21.6.07. Per l’effetto, esso è ricominciato a decorrere ma, non potendo comunque superare il limite di cui all’art. 161 c.p.p., si estingue dopo 7 anni e 6 mesi dall’inizio, 21.12.05 (data dell’accertamento) e, quindi, il 21.6.13.
 
Peraltro – visto che la questione della estinzione della punibilità penale della presente fattispecie viene evocata al fine di ottenere la revoca della confisca – è appena il caso di soggiungere che è stato già stato precisato da questa S.C. (sez. III, 3.2.09, Raffaele, Rv. 244102) che, anche nella eventualità in cui il procedimento penale avente ad oggetto beni d’interesse artistico, storico o archeologico sia stato definito con archiviazione, «questi ultimi devono essere restituiti allo Stato, non soltanto, in caso di positiva verifica del loro “interesse culturale”, ma anche, nel caso in cui, risoltasi negativamente detta verifica, il detentore non fornisca prova della legittimità della detenzione, in quanto il giudizio d’infondatezza della notizia di reato non impedisce l’operatività della presunzione della loro appartenenza al patrimonio indisponibile dello Stato, ovvero al demanio pubblico».
 
Come meglio si preciserà in prosieguo, è da escludere che il ricorrente abbia fornito prova di una legittimità della sua detenzione.
 
3.2. Il principio di diritto appena enunciato, sgombra il campo da dubbi soverchi circa la validità della pronuncia qui in discussione cui i giudici sono pervenuti con motivazione specifica e corretta che ha bene smentito l’assunto svolto dal ricorrente nel secondo motivo. 
 
Deve, infatti, osservarsi che tutte le questioni in esso sollevate sono già state esaminate in primo grado, riproposte dinanzi alla Corte d’appello e, da quest’ultima, argomentatamente disattese, sia pure, con richiamo ricettizio alla prima sentenza ove diffusamente (ft. 12 e 13) era stato affrontato il tema della necessità o meno di una dichiarazione ex art. 13 d.lv. 42/04.
 
Ricalcando, infatti, enunciazioni conformi della giurisprudenza di legittimità, i giudici di merito sottolineano che «del tutto inconducente appare il riferimento fatto dallo stesso imputato alla presunta necessità – al fine di poter acquistare la qualità di bene culturale – della dichiarazione prevista dall’art. 13 d.lgs 42/04 posto che .. tale dichiarazione riguarda i beni appartenenti a soggetti diversi dallo Stato (lett.” a”) ovvero le collezioni legittimamente formate che presentino determinate caratteristiche e, dunque, situazioni affatto diverse da quella in esame».
 
La giustezza del discorso trova conferma in plurime decisioni di questa stessa sezione che (disattendendo l’unico ed alquanto risalente, precedente di segno opposto – Sez. III, 27.5.04, Mugnalni, Rv. 229491) ha, invece, più volte, ed anche di recente, (Sez. III, 7.7.11, Saccone, Rv. 251295; Sez. III, 28.6.07, Signorella, Rv. 237403; Sez. III, 24.10.06, Palombo, Rv. 235410) — e proprio ai fini della valutazione del reato qui contestato – affermato che, ove si tratti di beni appartenenti allo Stato, non è richiesto l’accertamento del cosiddetto interesse culturale (né che i medesimi siano qualificati come culturali da un provvedimento amministrativo), «essendo sufficiente che la “culturalità” sia desumibile dalle caratteristiche del bene» essendo sufficiente «un interesse culturale oggettivo, derivante da tipologia, localizzazione, rarità o altri analoghi criteri, e la cui prova può desumersi o dalla testimonianza di organi della P.A. o da una perizia disposta dall’autorità giudiziaria» (Rv. 237403 cit.).
 
Il presupposto logico di tali asserzioni risiede nel principio secondo cui i reperti archeologici, a mente dell’art. 91 D.Lg.vo 42/04, “appartengono allo Stato” “da chiunque ritrovati”, salva la prova, fornita dal detentore, di averli legittimamente acquisiti.
 
Ciò è tanto vero che l’appartenenza allo Stato delle cose di interesse archeologico rinvenute fortuitamente, ovvero a seguito di ricerche od opere in genere, era stata affermata già in una legge del 1909 (20 giugno n. 364) e, successivamente, in epoca relativamente recente, anche questa S.C. (sez. II 22 giugno 1995, Dal Lago, Rv. 203105) aveva espresso il medesimo concetto – ribadito anche in anni prossimi (Sez. III, 24.10.06, Palombo, Rv. 235410) secondo cui « i beni di cui all’art. 10 del citato D.Lgs. n. 42 appartengono allo Stato sulla base del semplice accertamento del loro interesse culturale, salvo che il possessore non fornisca la prova della legittima proprietà degli stessi».
 
Irrilevante, quindi, si appalesa il richiamo, da parte del ricorrente, ad una sentenza di questa Corte del 1999 (sez. III, 27.4.99, Cipolla, Rv. 214324) ove si enunciava un principio generale relativo al fatto che esiste un sistema di tutela graduata dei beni (a seconda della loro natura) perché ciò non è incompatibile con il concetto fin qui espresso secondo cui, per l’appunto, la tutela dei beni archeologici ha una soglia particolarmente elevata proprio in considerazione del valore storico che essi rappresentano.
 
Né vi è dubbio che gran parte dei beni dei quali l’Alagna è stato trovato in possesso siano riconducibili in tale ambito. E’, del resto, lo stesso imputato a tentare una differenziazione solo con riguardo alle monete assumendo – attraverso la evocazione del disposto di cui all’all. A), art. 2 decies del d.lgs 42/04 – che si sia al cospetto di monete di scarso valore e ripetitive.
 
L’argomento, di natura fattuale, non può che essere apprezzato dal giudice di merito che, a riguardo, si è, però, espresso in termini chiari e basati su precise emergenze processuali osservando che le asserite caratteristiche di modestia delle monete «risultano nella specie escluse alla stregua di quanto emerge dalla relazione tecnica della dr.ssa Mammina». Il tutto, non senza ribadire che la disciplina invocata dal ricorrente avrebbe, eventualmente, escluso obblighi di denunzia per beni detenuti legittimamente ma non avrebbe, di certo, inciso sulla «condotta di impossessamento di reperti appartenenti allo Stato, a seguito di una illegittima attività di scavo quali appunto quelli in esame».
 
3.3. Le ragioni illustrate nel trattare i motivi che precedono rendono quasi superfluo ribadire, a questo punto, la (quasi manifesta) infondatezza della tesi della sussistenza di un vizio di motivazione nel provvedimento impugnato dal momento che sono, appunto, gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 176 quelli che i giudici di merito hanno bene lumeggiato, e documentatamente illustrato, anche attraverso la evocazione di elementi fattuali indiziariamente molto gravi come il rinvenimento, in possesso dell’imputato, di un metal detector.
 
Irrilevanti sono, infine, il richiamo, dell’imputato, ad una consulenza (quella della dr.ssa Molinari) – di cui nulla si allega, e fermo restando che non competerebbe, comunque, a questa S.C. il suo apprezzamento – nonché alla circostanza che, in un primo tempo, grazie a tale consulenza, il P.M. avrebbe avanzato una richiesta di archiviazione del procedimento che qui, comunque, non rileva visto che essa è stata certamente superata (ed assorbita) da quella di rinvio a giudizio da cui sono scaturiti il presente procedimento e le relative sentenza di condanna (sicuramente da ribadire attraverso la reiezione di tutte le censure mosse).
 
Nel respingere il ricorso, segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 
P.Q.M.
 
Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p.
 
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 
Così deciso l’8 maggio 2013
 

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