Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime |
Categoria: Acqua - Inquinamento idrico
Numero: 34455 |
Data di udienza: 5 Marzo 2018
ACQUA – Prelievo di acqua pubblica da un punto di sbocco della rete idrica comunale (fontana pubblica) – Configurabilità del furto aggravato o dell’illecito amministrativo – Legge Galli n. 36/1994 – Art. 17 R.D. n. 1775/1933 – Art. 23 D.lgs. n. 152/1999 – Art. 96, c.4, D.lgs. n. 152/2006 – Impossessamento abusivo delle acque sotterranee e di quelle superficiali – Giurisprudenza – C. Cost., sentenza n. 273/2010.
Provvedimento: Sentenza
Sezione: 5^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 20 Luglio 2018
Numero: 34455
Data di udienza: 5 Marzo 2018
Presidente: BRUNO
Estensore: MICCOLI
Premassima
ACQUA – Prelievo di acqua pubblica da un punto di sbocco della rete idrica comunale (fontana pubblica) – Configurabilità del furto aggravato o dell’illecito amministrativo – Legge Galli n. 36/1994 – Art. 17 R.D. n. 1775/1933 – Art. 23 D.lgs. n. 152/1999 – Art. 96, c.4, D.lgs. n. 152/2006 – Impossessamento abusivo delle acque sotterranee e di quelle superficiali – Giurisprudenza – C. Cost., sentenza n. 273/2010.
Massima
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.5^ 20/07/2018 (Ud. 05/03/2018), Sentenza n.34455
ACQUA – INQUINAMENTO IDRICO – Prelievo di acqua pubblica da un punto di sbocco della rete idrica comunale (fontana pubblica) – Configurabilità del furto aggravato o dell’illecito amministrativo – Legge Galli n. 36/1994 – Art. 17 R.D. n. 1775/1933 – Art. 23 D.lgs. n. 152/1999 – Art. 96, c.4, D.lgs. n. 152/2006.
In tema di tutela delle acque, se la condotta del soggetto agente si sostanzia nell’impossessamento di acque destinate alla pubblica fruizione in misura eccessiva e con modalità diverse da quelle stabilite dall’ente gestore (senza che ciò comporti un mutamento della destinazione impressa al bene e la realizzazione di una vera e propria utenza abusiva), essa può integrare, per principio di specialità, gli estremi dell’illecito amministrativo e non quelli del delitto di furto. Ne consegue che: a) ove si tratti di acque sotterranee o superficiali, cui vanno assimilate, ex art. 1, comma 1, D.P.R. n. 238 del 1999 le acque "raccolte in invasi o cisterne", l’acqua è da qualificarsi pubblica, in quanto appartenente al demanio, sicché l’attingimento abusivo integra l’illecito amministrativo di cui all’art. 17 R.D. n. 1775 del 1933; b) ove si tratti, invece, di acque convogliate in acquedotti, l’attingimento abusivo integra il delitto di furto. Mentre, l’art. 17 del T.U. sulle acque dispone che, ad eccezione delle acque piovane e dei casi previsti dall’art. 93 (prelievo per uso domestico), è vietato derivare o utilizzare acqua pubblica senza un provvedimento autorizzativo o concessorio dell’autorità competente. La violazione di tale divieto comporta l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 3.000 a 30.000 euro. Ne consegue che tale disposizione e quella di cui all’art. 624 cod. pen., che incrimina il furto, realizzano un’ipotesi di concorso apparente di norme: invero le due fattispecie astratte sono tra loro in rapporto di omogeneità e non già di eterogeneità in quanto regolano la stessa materia (ossia, l’impossessamento e la sottrazione dì un bene altrui per proprio vantaggio), essendo quella in tema di acque specifica rispetto a quella codicistica, specialità rappresentata dall’oggetto dell’azione (l’acqua pubblica) e dal dolo specifico (dovendosi individuare il profitto perseguito nella finalità industriale) (Sez. 5, n. 26877 del 05/05/2004, Modaffari).
ACQUA – INQUINAMENTO IDRICO – Impossessamento abusivo delle acque sotterranee e di quelle superficiali – Giurisprudenza – C. Cost., sentenza n. 273/2010.
L’impossessamento abusivo delle acque sotterranee e di quelle superficiali, anche raccolte in invasi o cisterne, integri esclusivamente l’illecito amministrativo di cui all’art. 23 del d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, e non anche il delitto di furto (Sez. 2, n. 17580 del 10/04/2013, Caramazza; Sez. 4, n. 20404 del 03/03/2009, Dolce; Sez. 5, n. 25548 del 07/03/2007, Lancìaru), atteso che, per espressa previsione dell’art. 1, comma 1, D.P.R. n. 238/1999 (Regolamento recante norme per l’attuazione di talune disposizioni della L. 5 gennaio 1994, n. 36, in materia di risorse idriche), tali beni appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico. La corretta esegesi della normativa in materia di acque rende palese che le "acque pubbliche", a cui si riferisce l’art. 17 del R.D. 1755 del 1933, come modificato dal d.lgs. n. 152/1999, sono quelle sotterranee e superficiali, messe a disposizione dalla natura, a cui gli enti pubblici abilitati non abbiano ancora conferito – sulla base dei poteri ad essi conferiti dalla normativa vigente una destinazione particolare (Sez. 5, 53984 del 26/10/2017, Amoroso). La scelta legislativa di sanzionare solo in via amministrativa eventuali comportamenti trasgressivi delle regole di utilizzo delle acque non è manifestamente irragionevole, giacché deve aversi primariamente riguardo al rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione nell’accesso ad un bene che appartiene in principio alla collettività. Tale rapporto viene alterato dalla violazione di norme che non sono poste soltanto a presidio della proprietà pubblica del bene, collocato in una sfera separata rispetto a quella dei cittadini, ma soprattutto a garanzia di una fruizione compatibile con l’entità delle risorse idriche disponibili in un dato territorio e con la loro equilibrata distribuzione tra coloro che aspirano a farne uso. Se tutti hanno diritto di accedere all’acqua, l’aspetto dominicale della tutela si colloca in secondo piano, rispetto alla primaria esigenza di programmare e vigilare sulle ricerche e sui prelievi, allo scopo di evitare che impossessamenti incontrollati possano avvantaggiare indebitamente determinati soggetti a danno di altri o dell’intera collettività (C. cost., sentenza n. 273 del 22 luglio 2010).
(annulla senza rinvio perché il fatto non e previsto dalla legge come reato sentenza del 25/01/2017 – CORTE APPELLO di PALERMO) Pres. BRUNO, Rel. MICCOLI, Ric. Di Falco ed altro
Allegato
Titolo Completo
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.5^ 20/07/2018 (Ud. 05/03/2018), Sentenza n.34455
SENTENZA
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.5^ 20/07/2018 (Ud. 05/03/2018), Sentenza n.34455
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
DI FALCO FRANCO nato il 29/04/1964 a PALMA DI MONTECHIARO;
RIZZO SALVATORE nato il 23/11/1988 a AGRIGENTO;
avverso la sentenza del 25/01/2017 della CORTE APPELLO di PALERMO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere GRAZIA MICCOLI;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore MARIO MARIA STEFANOPINELLI
che ha concluso per
Il Proc. Gen. conclude per l’annullamento senza rinvio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Udito il difensore
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 25 gennaio 2017, la Corte di appello di Palermo, in riforma della pronunzia assolutoria di primo grado, ha condannato Franco DI FALCO e Salvatore RIZZO alla pena di mesi sei di reclusione ed euro 200 di multa per il reato di furto aggravato (artt. 110, 624 e 625, comma 2 n. 7, cod. pen.).
Il reato era stato contestato agli imputati nei seguenti termini: «perché, in concorso tra loro, il primo quale gestore, il secondo quale titolare del bar "Dolce Vita" sito in v. Carlo Max, realizzando un allaccio abusivo alla rete idrica comunale attraverso il collegamento con tubo in gomma della fontana pubblica con vasca di litri 5.000, a sua volta collegata all’impianto idrico privato del bar medesimo, si impossessavano dell’acqua di proprietà del Comune di Palma di Montechiaro, al fine di profitto consistente nel mancato esborso del controvalore dell’acqua consumata».
Il Tribunale di Agrigento aveva assolto gli imputati con la formula "perché il fatto non sussiste", pur disponendo la trasmissione degli atti al Comune di Palma di Montechiaro per l’applicazione della sanzione amministrativa.
2. Entrambi gli imputati hanno presentato, per il tramite dei propri difensori, ricorso per cassazione.
3. Il DI FALCO, con un unico motivo, deduce violazione di legge e correlati vizi motivazionali in relazione agli artt. 624, 625, comma 2, n. 7 cod. pen., in quanto la condotta contestata al ricorrente non integra gli estremi della suddetta fattispecie penale, bensì quelli dell’illecito amministrativo previsto dall’art. 17 del R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775 (come modificato dall’art. 23, comma 4, D.lgs. 11 maggio 1999, n. 152). La Corte territoriale non avrebbe motivato correttamente in ordine alle ragioni dell’applicazione della norma penale in luogo di quella amministrativa.
4. Il ricorso presentato nell’interesse del RIZZO è articolato in quattro motivi.
4.1. Con il primo si deduce violazione di legge in relazione all’art. 624 cod. pen. con riferimento alla condizione giuridica dei beni pubblici ex artt. 822 e seguenti cod. civ.. Nella condotta contestata agli imputati difetta l’elemento oggettivo del reato di cui alla suddetta norma, cioè la cosa mobile altrui oggetto di sottrazione, trattandosi, invece, di una res communis omnium.
Si precisa, inoltre, che la condotta consistente nel legare un tubo di gomma ad una fontana pubblica non va ricondotta, diversamente da un allaccio diretto alla rete idrica comunale, nell’alveo delle condotte penalmente rilevanti, ma nel diritto di ogni privato cittadino di attingere all’acqua pubblica, il cui esercizio, in violazione dei limiti imposti dai regolamenti comunali, resta confinato nell’alveo dell’illecito amministrativo.
4.2. Con il secondo motivo si denunzia violazione di legge in ordine all’art. 42 cod. pen., in quanto la Corte territoriale ha affermato la penale responsabilità del ricorrente non sulla base di una specifica condotta imputabile allo stesso, ma per la mera circostanza che quest’ultimo è il titolare del bar.
Invero, la responsabilità del ricorrente non può desumersi neppure dal mancato rispetto degli obblighi gravanti sul titolare dell’attività, atteso che, in virtù del contratto di affitto di azienda stipulato tra il DI FALCO e il RIZZO, gli unici obblighi gravanti su quest’ultimo, ex art. 2562 cod. civ., consistono nel « …consegnare la cosa, con i suoi accessori e le sue pertinenze, in stato da servire all’uso e alla produzione a cui è destinata».
4.3. Con il terzo motivo si deduce il vizio di omessa motivazione in ordine alla condanna del ricorrente nella qualità di titolare del bar. Non si ravvisa, in merito, lo sviluppo di un minimo ragionamento tale da consentire di conoscere l’iter logico-giuridico percorso dal giudice nella individuazione dei responsabili del fatto e nella definizione delle condotte rispettivamente attribuibili.
4.4. Con l’ultimo motivo si deducono vizi di motivazione, nelle forme della illogicità e della contraddittorietà, in ordine alle conclusioni cui è pervenuto il giudice di secondo grado, laddove ha ritenuto che «i due odierni imputati si siano allacciati abusivamente alla rete idrica, ancorché si trattasse di una fontana pubblica» e che il giudice di primo grado non si sia uniformato al più recente orientamento di questa Corte sulla distinzione tra furto aggravato e illecito amministrativo in materia di impossessamento di acque pubbliche.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono fondati per le ragioni di seguito indicate.
1. La questione da dirimere è se la condotta consistente nel prelievo di acqua pubblica da un punto di sbocco della rete idrica comunale (fontana pubblica) integri il delitto di furto aggravato o l’illecito amministrativo di cui all’art. 17 R.D. n. 1775 del 1933, come sostituito, dapprima, dall’art. 23 D.lgs. n. 152 del 1999 e, poi, dall’
art. 96, comma 4, D.lgs. n. 152/2006.
Sul punto si rende, quindi, necessario ripercorrere a grandi linee l’evoluzione normativa in tema di acque.
L’art. 1 del R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775 attribuiva il carattere della demanialità alle acque classificate di «pubblico generale interesse»; mentre quelle prive di rilevanza pubblica, e non inserite espressamente negli elenchi previsti dalla legge, restavano assoggettate alle disposizioni del codice civile. L’art. 17 dello stesso decreto, nella sua originaria formulazione, definiva una procedura di regolarizzazione delle derivazioni o utilizzazioni delle acque pubbliche in tutto o in parte abusive, salvo il pagamento del canone e di una serie di importi, a titolo di spese della procedura.
Successivamente, con la legge del 5 gennaio 1994, n. 36 (c.d. legge Galli) si è determinato il passaggio da un regime ordinario di carattere privatistico, che richiedeva una specifica classificazione da parte della pubblica amministrazione per qualificare un’acqua come di pubblico interesse, ad un regime «rigidamente pubblico in ordine alla proprietà della risorsa idrica», nel quale tutte le acque, superficiali e sotterranee, sono pubbliche, rimanendo nella discrezionalità della pubblica amministrazione soltanto il potere di disciplinare diversamente le modalità di utilizzo delle acque, a seconda dei soggetti e delle finalità.
La disposizione di cui all’art. 17 del predetto R.D. è stata, poi, modificata dall’art. 23, comma 4, D.lgs. n. 152/1999, che ha stabilito il divieto di derivare o utilizzare acqua pubblica senza un provvedimento autorizzativo o concessorio dell’autorità competente, camminando al contravventore, «fatti salvi ogni altro adempimento o comminatoria previsti dalle leggi vigenti», una sanzione amministrativa pecuniaria, oltre alla cessazione dell’utenza abusiva e al pagamento dei canoni non corrisposti. In altri termini, tale disposizione, lasciando fermi la procedimentalizzazione e gli obblighi di sanatoria e di rimborso di cui alla previgente normativa, ha introdotto un illecito amministrativo per i casi di violazione del divieto ivi previsto.
Infine, la norma è stata modificata con l’art. 96, comma 4, D.lgs. n. 152/2006, il cui tratto essenziale è stato quello di aggravare la sanzione amministrativa, introdotta dal citato art. 23, per la violazione del divieto di «derivare o utilizzare acqua pubblica senza un provvedimento autorizzativo o concessono dell’autorità competente».
Con l’entrata in vigore del D.lgs. n. 152/1999 si è posto, quindi, il problema di disciplinare i rapporti tra la fattispecie penale e l’illecito amministrativo, al fine di individuare la norma sanzionatoria applicabile in relazione a condotte di impossessamento di acque pubbliche.
2. All’esame della questione vanno premesse, quindi, alcune brevi considerazioni in ordine al tema del concorso tra norme e al principio di specialità, su cui, del resto, si sono di recente pronunciate le Sezioni Unite di questa Corte, con riferimento ai rapporti tra l’illecito amministrativo della circolazione abusiva con veicolo sottoposto a sequestro amministrativo (ai sensi dell’art. 213, comma 4, codice della strada) e il delitto di sottrazione di cose sottoposte a sequestro (ex art. 334 cod. pen.) (Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, P.G. in proc. Di Lorenzo).
Il tema va affrontato, sia in generale, con riferimento alle fattispecie penali, sia in ordine al concorso tra norme penali e violazioni di natura amministrativa.
Con riferimento al primo profilo, viene in rilievo il più generale problema del concorso di reati – materiale (pluralità di condotte) o formale (unicità della condotta) -, che ricorre nei casi in cui una persona sia chiamata a rispondere di più reati. In entrambe le ipotesi il concorso può essere omogeneo o eterogeneo a seconda che vengano violate una sola o più norme incriminatici. Se questi reati sono disciplinati da una o più leggi che regolano la stessa materia si pone il problema se ci si trovi in presenza di concorso di reati ovvero se il concorso sia soltanto apparente, nel senso che solo una delle ipotesi di reato può essere ritenuta esistente evitandosi il rischio di incorrere nel c.d. ne bis in idem sostanziale.
2.1. La materia del concorso tra norme penali è disciplinata dall’art. 15 cod. pen. (principio di specialità), secondo il quale, nei casi in cui la "stessa materia" risulti regolata da più leggi penali o più disposizioni della medesima legge, la legge o la disposizione di legge speciale deroga a quella generale, salvo che sia altrimenti stabilito.
Trattasi, indubbiamente, di una definizione assai generica: la norma non chiarisce se la specialità debba intendersi in concreto (applicando il trattamento più grave) o in astratto, anche se dottrina e giurisprudenza propendono per questa seconda ipotesi perché, si è osservato, non ha senso fare dipendere da un fatto concreto l’instaurarsi di un rapporto di genere a specie tra norme. La specialità o esiste già in astratto o non esiste neppure in concreto.
Inoltre, l’art. 15 cod. pen. utilizza l’espressione "stessa materia" per indicare i casi di concorso apparente di norme, in cui dovrà farsi ricorso al principio di specialità.
Tuttavia, il legislatore non ha precisato che cosa si intenda con tale locuzione. Secondo una parte della dottrina essa va interpretata nel senso di stesso fatto "materiale", anche se alcuni autori hanno evidenziato come esistano ipotesi certamente riconducibili al concorso di reati in cui il fatto è unico (per es. violenza sessuale e incesto).
Secondo una diversa interpretazione, con la predetta espressione si fa riferimento alle ipotesi di identità del bene protetto. Tuttavia, a quest’ultima ricostruzione è stato obiettato che, in tal modo, si finirebbe per affermare la possibilità di concorso di reati anche nel caso di specialità unilaterale (per esempio, tra sequestro di persona e sequestro di persona a scopo di estorsione, atteso che il bene giuridico tutelato da questa seconda fattispecie è costituito, oltre che dalla persona, anche dal patrimonio; e così variano i beni protetti nel caso di ingiuria e oltraggio a magistrato in udienza e in quello di violenza privata e violenza a p.u.; tutti casi per i quali non sono mai sorti dubbi sulla natura apparente del concorso).
Ne consegue, quindi, che l’espressione in parola deve riferirsi alla stessa fattispecie astratta, lo stesso fatto tipico di reato nel quale si realizza l’ipotesi di reato.
In tal senso si sono pronunziate le Sezioni Unite di questa Corte, precisando che «il riferimento all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità, perché si può avere identità di interesse tutelato tra fattispecie del tutto diverse, come il furto e la truffa, offensive entrambe del patrimonio, e diversità di interesse tutelato tra fattispecie in evidente rapporto di specialità, come l’ingiuria, offensiva dell’onore, e l’oltraggio a magistrato in udienza, offensivo del prestigio dell’amministrazione della giustizia» (Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017 – dep. 12/09/2017, La Marca, in motivazione; Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, (archivi, in motivazione; Sez. U., n.1963 del 28/10/2010, P.G. in proc. Di Lorenzo, in motivazione).
2.2. Per quanto riguarda, invece, l’individuazione della norma speciale, va detto che essa risulta piuttosto agevole con riferimento ai casi di specialità c.d. unilaterale (caratterizzati dalla circostanza che tutti gli elementi della fattispecie c.d. generale siano ricompresi in quella c.d. speciale che ne prevede di ulteriori).
Laddove tra le norme risulti individuabile tale rapporto, si versa in una ipotesi di "concorso apparente", per cui, ai sensi dell’art. 15 cod. pen., trova applicazione unicamente la fattispecie speciale. Tuttavia, perché tale norma possa trovare applicazione è necessario che i reati abbiano la stessa obiettività giuridica, nel senso che deve trattarsi di reati che devono disciplinare la medesima materia ed avere identità di struttura. In altri termini, «il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola sulla individuazione della disposizione prevalente posta dall’art. 15 cod. pen., risulta integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra fattispecie, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato» (Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017, La Marca, in motivazione).
Nel caso di specialità c.d. bilaterale o reciproca (in cui entrambe le norme presentano l’una elementi di specialità rispetto all’altra), invece, il problema è di meno agevole soluzione. Giurisprudenza e dottrina hanno, quindi, individuato una serie di "indici rivelatori":
– i diversi corpi normativi in cui le norme sono ricomprese (per es., cod. civ. e legge fall.);
– specialità tra soggetti (per es., 616 e 619 cod. pen.);
– la fattispecie dotata del maggior numero di elementi specializzanti.
Ad ogni modo, nei casi di specialità reciproca spesso è lo stesso legislatore ad individuare la norma prevalente; ciò con una clausola di riserva che può essere:
– determinata (al di fuori delle ipotesi previste dall’art…);
– relativamente determinata (si individua una categoria: per es., se il fatto non costituisce un più grave reato);
– indeterminata (quando il rinvio è del tipo se il fatto non è previsto come reato da altra disposizione di legge).
Alla luce dei principi quivi esposti, «la Corte regolatrice, nella sua massima espressione, ha rilevato che l’identità di materia si ha sempre nel caso di specialità unilaterale per specificazione, perché l’ipotesi speciale è ricompresa in quella generale; e, parimenti, nel caso di specialità reciproca per specificazione, come nel rapporto tra gli artt. 581 (percosse) e 572 (maltrattamenti in famiglia) cod. pen., ovvero di specialità unilaterale per aggiunta, per es. tra le fattispecie di cui agli artt. 605 (sequestro di persona) e 630 (sequestro di persona a scopo di estorsione) cod. pen. L’identità di materia è, invece, da escludere nella specialità reciproca bilaterale per aggiunta, ove ciascuna delle fattispecie presenta, rispetto all’altra, un elemento aggiuntivo eterogeneo, come nel rapporto tra violenza sessuale e incesto: violenza e minaccia nel primo caso, rapporto di parentela o affinità nel secondo (Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, Rv. 248722)» (Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017 – dep. 12/09/2017, La Marca, in motivazione).
2.3. Il concorso apparente di norme tra fattispecie penali e violazioni amministrative (e quello tra norme che prevedono violazioni amministrative) è, invece, disciplinato dall’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689, in base al quale se uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa si applica la disposizione speciale.
Tale previsione risulta particolarmente innovativa, atteso che il principio in precedenza generalmente accolto era quello del normale concorso tra sanzione penale e violazione amministrativa. Per quanto riguarda, invece, le differenze intercorrenti tra tale previsione e l’omologa disciplina di cui all’art. 15 cod. pen., va detto, innanzitutto, che la prima non prevede la c.d. "clausola di riserva". Tuttavia, la diversa formulazione non preclude al legislatore di prevedere espressamente la clausola nelle singole disposizioni che prevedono violazioni amministrative (così, per esempio, l’art. 214, comma 8, cod. strada).
Una seconda peculiare differenza consiste nell’impiego dell’espressione "stesso fatto", in luogo di quella di "stessa materia" di cui all’art. 15 cod. pen. Tale locuzione, tuttavia, non può essere interpretata nel senso che con essa il legislatore abbia inteso riferirsi alla specialità in concreto, dovendosi al contrario ritenere che il richiamo sia fatto alla fattispecie tipica prevista dalle norme che vengono in considerazione; così da evitare quella genericità che caratterizza la disposizione del codice penale, in cui si fa riferimento alla materia. Tale interpretazione, del resto, trova conferma nel tenore dello stesso art. 9 che, facendo riferimento al "fatto punito", si riferisce, evidentemente, a quello astrattamente previsto come illecito dalla norma, e non certo al fatto per come concretamente realizzatosi.
Tale orientamento, infine, è stato condiviso anche dalla Corte costituzionale che – pronunziando sul tema del concorso tra fattispecie di reato e violazione di natura amministrativa e con riferimento alla disciplina prevista dall’art. 9, comma primo legge n. 689 del 1981 – ha precisato che per risolvere il problema del concorso apparente «vanno confrontate le astratte, tipiche fattispecie che, almeno a prima vista, sembrano convergere su di un fatto naturalisticamente inteso» (C. cost., sentenza 3 aprile 1987, n. 97).
3. A ben vedere, la definizione del rapporto strutturale tra fattispecie incriminatrici (e tra fattispecie penale e illecito amministrativo) secondo il principio di specialità, rileva anche con riferimento alla dimensione dinamica del fenomeno – derivante dalla instaurazione di un secondo giudizio, per lo stesso fatto e a carico del medesimo imputato -, ossia alla tematica del divieto di bis in idem. Soltanto «qualora il giudice abbia escluso che tra le norme viga un rapporto di specialità (artt. 15 e 84 cod. pen. ), ovvero che esse s1 pongano in concorso apparente, in quanto un reato assorbe interamente ti disvalore dell’altro, è incontestato che si debbano attribuire all’imputato tutti gli illeciti che sono stati consumati attraverso un’unica condotta commissiva o omissiva, per quanto il fatto sia il medesimo sul piano storico-naturalistico» (C. cost., sentenza n. 200 del 31 maggio 2016).
Sul tema del divieto dì un secondo giudizio si è, a più riprese, pronunciata anche la giurisprudenza europea, i cui arresti hanno enucleato alcuni rilevanti principi in materia.
Secondo l’orientamento espresso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (si veda in particolare la sentenza Grande Stevens c. Italia del 4 marzo 2014), il principio del "ne bis in idem" impone una valutazione ancorata ai fatti e non alla qualificazione giuridica degli stessi, dal momento che quest’ultima è da ritenersi troppo restrittiva in vista della tutela dei diritti della persona.
Si è affermato, quindi, che la nozione di "condotta" si traduce nell’insieme delle circostanze fattuali concrete, collocate nel tempo e nello spazio, la cui esistenza deve essere dimostrata ai fini della condanna.
Negli stessi termini si era già espressa la sentenza della Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia, che, intervenendo per risolvere un articolato conflitto manifestatosi tra le sezioni della Corte CEDU sulla portata dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, aveva affermato che la medesimezza del fatto si apprezza alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio.
Tali principi non sono stati messi in discussione dalla più recente sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, con la quale la Grande Camera della Corte di Strasburgo ha impresso un nuovo sviluppo alla materia del divieto "convenzionale" di bis in idem alle ipotesi di duplicazione dei procedimenti sanzionatori per il medesimo fatto (si veda in proposito la motivazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 43 del 24 gennaio 2018).
Non è fuor di luogo, peraltro, ricordare che, con la sentenza n. 200 del 31 maggio 2016, la Corte costituzionale, nel dichiarare illegittimo l’art. 649 cod. proc. pen. (per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU) nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale, ha recepito sul piano interpretativo i principi affermati dalla Corte Europea sul criterio dell’idem factum e non dell’idem legale onde valutare la medesimezza del fatto storico oggetto di nuovo giudizio.
Si è, infatti, affermato, che – se è vero che appare ormai pacifico che la Convenzione recepisce, nell’interpretare il principio del ne bis in idem (che vieta di perseguire o giudicare per un secondo illecito una persona già condannata o sanzionata per gli stessi fatti), il più favorevole criterio dell’idem factum anziché la più restrittiva nozione di idem legale – il «fatto storico-naturalistico rileva, ai fini del divieto di bis in idem, secondo l’accezione che gli conferisce l’ordinamento, perché l’approccio epistemologico fallisce nel descriverne un contorno identitaria dal contenuto necessario. Fatto, in questa prospettiva, è l’accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi.
Non vi è, in altri termini, alcuna ragione logica per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa all’azione o all’omissione, e non comprenda, invece, anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l’evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente. È chiaro che la scelta tra le possibili soluzioni qui riassunte è di carattere normativo, perché ognuna di esse è compatibile con la concezione dell’idem factum. Questo non significa che le implicazioni giuridiche delle fattispecie poste a raffronto comportino il riemergere dell’idem legale. Esse, infatti, non possono avere alcun rilievo ai fini della decisione sulla medesimezza del fatto storico. Ad avere carattere giuridico è la sola indicazione dei segmenti dell’accadimento naturalistico che l’interprete è tenuto a prendere in considerazione per valutare la medesimezza del fatto».
Nella sentenza della Corte Costituzionale, peraltro, si prende atto che «l’identità del "fatto" sussiste – secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. un. 28 giugno 2005, n. 34655) – quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona» (sentenza n. 129 del 2008). È in questi termini, e soltanto in questi, in quanto segnati da una pronuncia delle sezioni unite, che l’art. 649 cod. proc. pen. vive nell’ordinamento nazionale con il significato che va posto alla base dell’odierno incidente di legittimità costituzionale. E si tratta di un’affermazione netta e univoca a favore dell’idem factum, sebbene il fatto sia poi scomposto nella triade di condotta, nesso di causalità, ed evento naturalistico».
La stessa Corte ha dato pure atto che persiste nella stessa giurisprudenza di legittimità un orientamento minoritario, diverso da quello adottato dalle Sezioni Unite fin dal 2005, secondo il quale va tenuta in conto non solo la dimensione storico-naturalistica del fatto ma anche quella giuridica; ovvero che vanno considerate le implicazioni penalistiche dell’accadimento (Sez. 2, n. 19712 del 06/02/2015, Alata e altri, Rv. 26354301; Sez. 2, n. 18376 del 21/03/2013, P.G. in proc. Cuffaro, Rv. 25583701; Sez. 5, n. 16703 del 11/12/2008, Palanza e altri, Rv. 24333001). Precisa quindi la sentenza in esame che queste e «altre simili formule celano un criterio di giudizio legato all’idem legale, che non è compatibile, né con la Costituzione, né con la CEDU, sicché è necessario che esso sia definitivamente abbandonato», ulteriormente ribadendo che «il diritto vivente, con una lettura conforme all’attuale stadio di sviluppo dell’art. 4 del Protocollo n.7 alla CEDU, impone di valutare, con un approccio storico-naturalistico, la identità della condotta e dell’evento, secondo le modalità con cui esso si è concretamente prodotto a causa della prima».
4. Ciò premesso, con riferimento al caso in esame va rilevato che in ordine al rapporto tra il delitto di cui all’art. 624 cod. pen. e l’illecito amministrativo disciplinato dall’art. 17 R.D. n. 1175/1933 (per come da ultimo modificato dall’art. 96, comma 4, D.lgs. n. 152/2006) nella giurisprudenza di legittimità si sono registrati orientamenti diversi.
4.1. Negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del D. lgs. n. 152/1999 sono state pronunziate due sentenze di segno opposto.
Si è affermato, da un lato, che «il prelievo di acque pubbliche effettuato da un soggetto non titolare di autorizzazione o concessione non integra, di per sé, il reato di cui all’art. 632 cod. pen., ma ricade sotto la previsione dell’art. 17 r.d. 11 dicembre 1933 n. 1775, come modificato dall’art. 23 d.lgs. 11 maggio 1999 n. 152, il quale prevede, per il caso di derivazione o utilizzazione di acque pubbliche senza un provvedimento autorizzativo o concessorio, una sanzione amministrativa pecuniaria, oltre che l’immediata cessazione dell’utenza abusiva» (Sez. 2, n. 767 del 09/02/2000, Arduino, Rv. 215701); dall’altro, che «risponde di furto aggravato ex art. 625, n. 7 cod. pen., e non del mero illecito amministrativo previsto dagli artt. 17 e 219 del R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, il presidente di un consorzio di acquedotti che utilizzi l’acqua di un fiume in misura superiore a quanto stabilito nell’atto di concessione, trattandosi di norme che tutelano beni giuridici diversi, ossia la proprietà, con la sanzione penale, e l’ambiente e la salubrità delle acque, con quella amministrativa» (Sez. 4, n. 37237 del 21/11/2001, Bricca E, Rv. 222611).
4.2. La successiva giurisprudenza, con interventi conformi dal 2004 al 2013, ha affermato il principio secondo cui «il prelievo abusivo di acque dal sottosuolo – in virtù dell’art. 23 del D.Lgs. n. 152 del 1999, che ha sostituito l’art. 17 del R.D. n. 1775 del 1933, disponendo che la derivazione o l’utilizzazione dell’acqua pubblica per uso industriale, senza provvedimento autorizzativo o concessivo dell’autorità competente, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5 a 50 milioni – integra esclusivamente un illecito amministrativo ed è attualmente punito solo con la sanzione amministrativa di cui al predetto art. 23 e non anche a titolo di furto, ex art. 624 cod. pen.; tra le norme in considerazione (artt. 23 D.Lgs. n. 152 del 1999 e 624 cod. pen. citati) sussiste, infatti, un’ipotesi di concorso apparente – nel quale, a fronte dell’omogeneità della materia regolata (sottrazione e impossessamento di un bene altrui per proprio vantaggio), il predetto art. 23 presenta carattere speciale rispetto alla disposizione codicistica – disciplinata dall’art. 9 della legge n. 689 del 1981, che afferma anche nell’ipotesi di concorso tra norme penali ed amministrative il principio per il quale la norma speciale prevale su quella generale (Sez. 5, n. 26877 del 05/05/2004, Modaffari, Rv. 229878; conformi: Sez. 5, n. 39977 del 11/10/2005, La Rocca, Rv. 232341; Sez. 5, n. 186 del 29/11/2006, Furfaro, Rv. 236046; Sez. 5, n. 25548 del 07/03/2007, Lanciani, Rv. 237702; Sez. 5, n. 32974 del 25/06/2008, Garifo, non massimata; Sez. 5, n. 46950 del 13/10/2009, Cariello, non massimata; Sez. 2, n. 17580 del 10/04/2013, Caramazza e altro, Rv. 256928).
4.3. Tuttavia, a partire dal 2013 si è registrata un’apparente inversione di rotta, affermandosi che «l’impossessamento abusivo dell’acqua convogliata nelle condutture dell’acquedotto municipale integra il reato di furto aggravato e non la violazione amministrativa prevista dall’art. 23 del D.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, che si riferisce alle sole acque pubbliche, ossia ai flussi non ancora convogliati in invasi o cisterne» (Sez. 4, n. 6965 del 14/11/2012, Procopio, Rv. 254397).
Invero, in tale occasione si è precisato il concetto di impossessamento di acqua, con la differenziazione dei casi di attingimento di acque (superficiali o sotterranee) da quelli di allacciamento abusivo a condutture, con acqua già convogliata.
Ne consegue che: a) ove si tratti di acque sotterranee o superficiali, cui vanno assimilate, ex art. 1, comma 1, D.P.R. n. 238 del 1999 le acque "raccolte in invasi o cisterne", l’acqua è da qualificarsi pubblica, in quanto appartenente al demanio, sicché l’attingimento abusivo integra l’illecito amministrativo di cui all’art. 17 R.D. n. 1775 del 1933; b) ove si tratti, invece, di acque convogliate in acquedotti, l’attingimento abusivo integra il delitto di furto.
Ciò in quanto, «a ritenere diversamente si finirebbe per sovrapporre la nozione di acqua pubblica valevole ai fini dell’art. 17 R.D. n. 1775 del 1933 con quella che trae causa dalla natura pubblica dell’ente proprietario» (Sez. 4, n. 6965 del 14/11/2012, Procopio, Rv. 254397; conformi: Sez. 5, n. 35712 del 02/07/2014, Ferrara, non massimata; Sez 4, n. 21586 del 29/01/2016, P.M. in proc. Marra, Rv. 267275; Sez. 5, n. 53984 del 26/10/2017, Amoroso, Rv. 271888; Sez. 5, n. 1010 del 24/11/2017, Scalet, Rv. 271921).
5. L’art. 17 del T.U. sulle acque dispone che, ad eccezione delle acque piovane e dei casi previsti dall’art. 93 (prelievo per uso domestico), è vietato derivare o utilizzare acqua pubblica senza un provvedimento autorizzativo o concessorio dell’autorità competente. La violazione di tale divieto comporta l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 3.000 a 30.000 euro.
Ne consegue che tale disposizione e quella di cui all’art. 624 cod. pen., che incrimina il furto, realizzano un’ipotesi di concorso apparente di norme: invero le due fattispecie astratte sono tra loro in rapporto di omogeneità e non già di eterogeneità in quanto regolano la stessa materia (ossia, l’impossessamento e la sottrazione dì un bene altrui per proprio vantaggio), essendo quella in tema di acque specifica rispetto a quella codicistica, specialità rappresentata dall’oggetto dell’azione (l’acqua pubblica) e dal dolo specifico (dovendosi individuare il profitto perseguito nella finalità industriale) (Sez. 5, n. 26877 del 05/05/2004, Modaffari, in motivazione).
5.1. Un problema di concorso apparente di norme può porsi, quindi, soltanto nel caso in cui si tratti di acque pubbliche; e in tali ipotesi prevale la disposizione amministrativa, in quanto norma speciale rispetto all’art. 624 cod. pen., ai sensi dell’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689.
Non vi è dubbio, quindi, che l’impossessamento abusivo delle acque sotterranee e di quelle superficiali, anche raccolte in invasi o cisterne, integri esclusivamente l’illecito amministrativo di cui all’art. 23 del d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, e non anche il delitto di furto (Sez. 2, n. 17580 del 10/04/2013, Caramazza, Rv. 256928; Sez. 4, n. 20404 del 03/03/2009, Dolce, Rv. 244215; Sez. 5, n. 25548 del 07/03/2007, Lancìaru, Rv. 237702), atteso che, per espressa previsione dell’art. 1, comma 1, D.P.R. n. 238/1999 (Regolamento recante norme per l’attuazione di talune disposizioni della L. 5 gennaio 1994, n. 36, in materia di risorse idriche), tali beni appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico.
In altri termini, «la corretta esegesi della normativa in materia di acque rende palese che le "acque pubbliche", a cui si riferisce l’art. 17 del R.D. 1755 del 1933, come modificato dal d.lgs. n. 152/1999, sono quelle sotterranee e superficiali, messe a disposizione dalla natura, a cui gli enti pubblici abilitati non abbiano ancora conferito – sulla base dei poteri ad essi conferiti dalla normativa vigente una destinazione particolare» (Sez. 5, 53984 del 26/10/2017, Amoroso, in motivazione).
5.2. Per quanto riguarda, invece, le acque già convoqliate nell’acquedotto comunale, il collegio ritiene che occorra fare una distinzione tra due diverse ipotesi, su cui, fino a questo momento, la giurisprudenza di questa Corte non si era ancora soffermata.
Occorre, cioè, distinguere le ipotesi in cui l’impossessamento si realizzi mediante un vero e proprio allaccio abusivo (ossia, mediante la costituzione di una utenza), con il conseguente mutamento della destinazione impressa al bene dall’ente gestore delle risorse idriche (nonché, con il profitto consistente nel mancato esborso del controvalore dell’acqua consumata), da quelle in cui il bene sia già stato destinato da tale ente alla pubblica fruizione (per esempio, attraverso la sua erogazione, come nel caso in esame, mediante una fontanella pubblica), ma il privato cittadino ne usufruisca in violazione delle modalità stabilite.
Nel primo caso, si tratta di acque prelevate dall’ambiente naturale e destinate, da soggetti pubblici abilitati, a soddisfare specifici bisogni, ossia di acque separate dall’insieme e costituenti un bene autonomo, su cui l’ente abilitato esercita una signoria propria; tale caratteristica hanno assunto dopo essere state sottoposte a complessi procedimenti di potabilizzazione, che richiedono l’impiego di risorse rilevanti e un controllo costante della qualità. Per tale motivo non possono essere confuse con le acque "pubbliche" esistenti in natura, trattandosi di acque aventi
valore economico, riferibili, dal punto di vista del diritto di proprietà, ad un soggetto particolare.
Per quanto riguarda, invece, la seconda ipotesi, va detto che, se è vero che l’acqua già convogliata nell’acquedotto comunale non possa definirsi pubblica secondo la definizione fornita dalla legge Galli n. 36/1994 (disposizioni in materia di risorse idriche) – che qualifica come tali tutte le acque, superficiali e sotterranee, sia pure in invaso o cisterna -, è altrettanto vero che la natura pubblica del bene in questione può derivare, come nel caso in esame, dalla destinazione dello stesso – impressa dall’ente gestore – a una regolata fruizione pubblica.
In questo caso, quindi, non viene in rilievo la contrapposizione tra lo Stato, proprietario del bene, ed i privati, ma l’integrazione tra pubblico e privato, nel quadro della regolazione programmata e controllata dell’uso dell’acqua, che costituisce bene di tutti e, in quanto tale, deve essere distribuita secondo criteri razionali ed imparziali stabiliti da apposite regole amministrative. In questo quadro, spetta alla pubblica amministrazione competente programmare, regolare e controllare il corretto utilizzo del bene acqua in un dato territorio, non già in una prospettiva di mera tutela della proprietà demaniale, ma in quella del contemperamento tra la natura pubblicistica della risorsa e la sua destinazione a soddisfare i bisogni domestici e produttivi dei consociati.
Ne consegue che, se la condotta del soggetto agente si sostanzia nell’impossessamento di acque destinate alla pubblica fruizione in misura eccessiva e con modalità diverse da quelle stabilite dall’ente gestore (senza che ciò comporti un mutamento della destinazione impressa al bene e la realizzazione di una vera e propria utenza abusiva), essa può integrare, per l’anzidetto principio di specialità, gli estremi dell’illecito amministrativo e non quelli del delitto di furto.
5.3. Del resto, per quanto riguarda il caso sottoposto all’esame del collegio, il Giudice di primo grado aveva correttamente rilevato che «nel momento stesso in cui l’acqua fuoriesce dalla rete idrica comunale per essere gratuitamente erogata alla cittadinanza, viene in rilievo da una parte, l’interesse dell’ente pubblico all’erogazione e, dall’altra parte, l’interesse del privato al prelievo».
Ne consegue che, in questi casi, «l’ente pubblico può regolamentare, e nella specie il Comune di Palma di Montechiaro ha regolamentato, le modalità dì fruizione, vietando in via amministrativa condotte di abusivo prelievo e prevedendo delle sanzioni.
In particolare, nel regolamento comunale per il servizio di distribuzione idrica, agli atti del fascicolo, si prevede all’art. 19, rubricato Fontanine pubbliche, che: "dalle fontanine pubbliche è consentito attingere acqua nei limiti dei bisogni potabili. E’ vietato pertanto: a) Attingere acqua con recipienti di capacità superiori a venti litri; b) Applicare tubi di gomma o qualsiasi altro mezzo per condurre l’acqua entro i locali privati, cisterne, botti, etc; c) Modificare o alterare il getto dell’acqua; d) Praticare il lavaggio di auto o mezzi in genere, nonché di derrate alimentari destinate al commercio o di capi di biancheria e simili. Nei confronti dei trasgressori il Comune, oltre a richiedere il risarcimento degli eventuali danni, applicherà una ammenda pari a lire 100.000 per tale tipo di infrazione?».
In tal senso si è pronunciata anche la Corte costituzionale, precisando che «la scelta legislativa di sanzionare solo in via amministrativa eventuali comportamenti trasgressivi delle regole di utilizzo delle acque non è manifestamente irragionevole, giacché deve aversi primariamente riguardo al rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione nell’accesso ad un bene che appartiene in principio alla collettività. Tale rapporto viene alterato dalla violazione di norme che non sono poste soltanto a presidio della proprietà pubblica del bene, collocato in una sfera separata rispetto a quella dei cittadini, ma soprattutto a garanzia di una fruizione compatibile con l’entità delle risorse idriche disponibili in un dato territorio e con la loro equilibrata distribuzione tra coloro che aspirano a farne uso. Se tutti hanno diritto di accedere all’acqua, l’aspetto dominicale della tutela si colloca in secondo piano, rispetto alla primaria esigenza di programmare e vigilare sulle ricerche e sui prelievi, allo scopo di evitare che impossessamenti incontrollati possano avvantaggiare indebitamente determinati soggetti a danno di altri o dell’intera collettività» (C. cost., sentenza n. 273 del 22 luglio 2010).
6. Sulla base delle argomentazioni quivi esposte vanno accolti il ricorso del DI FALCO e il primo motivo del ricorso del RIZZO; l’accoglimento di quest’ultimo rende superflua la trattazione degli altri motivi.
La sentenza impugnata va quindi annullata senza rinvio perché il fatto come contestato non è previsto dalla legge come reato, essendo riconducibile nella fattispecie amministrativa sopra richiamata.
Gli atti sono stati già trasmessi dal giudice di primo grado alla autorità amministrativa per quanto di competenza.
P.Q.M.
La Corte annulla la sentenza impugnata senza rinvio perché il fatto non e previsto dalla legge come reato.
Così deciso in Roma, il 5 marzo 2018